Casal Bruciato: il clima del Paese e il ruolo delle Istituzioni

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Nota dopo le tensioni nella periferia di Roma, a Casal Bruciato

Il clima del Paese lo vedi nelle immagini di Casal Bruciato, Roma Capitale, 2019. Sono immagini drammatiche che raccontano di una Italia sull’orlo di una crisi di nervi, attraversata da una tensione sociale fortissima costantemente alimentata e che può diventare incontrollabile. Forse lo sta già diventando.
Una famiglia, titolare secondo la legge di una casa popolare, che riesce a entrare nel palazzo solo grazie alla scorta della Polizia. E giù, una valanga di insulti e minacce da parte di una folla inferocita: “ti stupriamo”, “dovete andare via”, “quelli non ce li volemo”. Perché? Quella famiglia è di origine Rom, tutto qui. Poco importa che la legge sia stata totalmente rispettata (una volta tanto!).

Ci sono piccoli e grandi imprenditori della rabbia e della paura che alimentano scientificamente una retorica dell’odio che si sta sempre più consolidando. Si sfruttano e cavalcano casi di cronaca per dare dignità alle idee più becere, si rivendica orgogliosamente di essere razzisti: queste persone si sentono intoccabili e usano tutta la loro prepotenza contro i più deboli.
Non si può sottovalutare però il disagio reale di famiglie che vivono in periferie abbandonate dallo Stato, senza servizi e senza speranza. La protesta – che ha validi motivi nel denunciare l’assenza delle istituzioni – confonde clamorosamente il bersaglio e diventa così rabbia cieca scagliata verso altri poveri, invece che verso chi dovrebbe risolvere i problemi.

Servono la forza della buona politica e decisioni pratiche, per mettere al centro dell’agenda le periferie. Servono poi anticorpi robusti contro la cattiveria che avvelena le nostre città: gesti simbolici che definiscano chiaramente il confine contro chi volutamente gioca a confonderlo, convinto che il caos gli porti consenso.
Per questo voglio ringraziare Virginia Raggi: la sindaca ha fatto bene ad andare a Casal Bruciato e a schierare le istituzioni dalla parte giusta, quella della legge.
È un pensiero che va oltre la dialettica tra forze politiche diverse, qui c’è in gioco l’anima della nostra Comunità, il senso più forte del ruolo dello Stato che è davvero molto più importante di qualunque successo elettorale.

L’etica di comportarsi secondo regole non scritte

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Intervista di Informat su Radio 102 del 6 maggio 2019

Il 6 maggio 2019 il Sen. Pietro Grasso ha partecipato a Trapani all’incontro dal titolo “Dialogo sull’etica lavorativa. Il valore di comportarsi secondo regole non scritte”, promosso dall’associazione Trapani per il Futuro nell’ambito del progetto “4youth – orientamento al lavoro”. Per l’occasione ha rilasciato una intervista ai ragazzi della trasmissione “Informat” di Radio 102.

“Quando vedo giovani così impegnati e che fanno bene il loro lavoro ho una spinta maggiore a continuare, sebbene il peso degli anni e delle esperienze si faccia sentire. Siete la mia forza!” – ha detto il Senatore ai ragazzi.

Giovani e politica, cultura della legalità, questione meridionale: questi e altri temi al centro dell’intervista che è possibile riascoltare di seguito.

Foto: Pietro Grasso con i ragazzi di Trapani per il Futuro

La lotta alla corruzione e il coraggio dell’onestà

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Editoriale del 14 aprile 2019 su La Sicilia

Nelle ultime settimane, comprese le ultime ore, diverse indagini in tutto il Paese hanno coinvolto esponenti di partiti di maggioranza e di opposizione in inchieste di corruzione e traffico di influenze. Anche i nuovi attori della politica, che sono emersi proprio sugli scandali del passato, non sono risultati immuni dai vizi e dalle colpe dei predecessori. D’altronde il tema della corruzione è antico: già Cicerone se ne occupò nelle Verrine, avendo come imputato il propretore della Sicilia. Quella che giornalisticamente è nota come “questione morale”, almeno dalla famosa intervista di Berlinguer a Scalfari del 1981 e ancora di stretta attualità, si può definire come il comportamento di chi sacrifica gli interessi pubblici a favore degli interessi privati, di parte o di gruppi di potere.

Nelle diverse funzioni che ho ricoperto, prima come magistrato poi come politico, ho sempre considerato la lotta alla corruzione fondamentale per l’affermazione della legalità, dell’interesse pubblico e del bene comune. La corruzione è un reato senza testimoni, senza vittime se non la collettività, e senza denunce, con un comune interesse degli autori al silenzio. E’ uno scambio fra l’esercizio abusivo, deviato, del potere e una prestazione di danaro o altra utilità. Un altro tratto preoccupante del fenomeno è che incoraggia espedienti illegali per nascondere l’origine illecita del danaro: società fiduciarie, sovra o sotto fatturazioni, operazioni di finanza strutturata, cessioni di crediti e di garanzie, paradisi fiscali, operazioni e compensazioni estero su estero. Le tangenti sono correlate ad artifici di ogni genere. Presuppongono condotte di falso in bilancio, procedure contrattuali alterate, trattamenti preferenziali negli appalti, collusioni con i fornitori, illecite aggiudicazioni, false emergenze di lavori e conseguenti premi-truffa, collaudi addomesticati.

La corruzione ha assunto un livello di radicamento così profondo da non poter quasi più esser considerato un reato contro la Pubblica Amministrazione in senso stretto: di fatto quello che viene colpito è l’intero tessuto economico e sociale. La corruzione mina l’economia dal profondo, togliendo trasparenza alle transazioni, agli appalti, dai più piccoli ai più grandi, privilegiando e favorendo i corruttori a danno degli onesti, a danno dei più capaci, di coloro che hanno competenze e lavorano seriamente, nel rispetto delle Leggi. Questo terribile stato di cose affossa l’economia del Paese e la sicurezza dei cittadini. Come possiamo pensare che un’opera realizzata grazie ad un appalto ottenuto attraverso l’elargizione di una somma di denaro, o di un favore, possa essere la migliore opera eseguibile, nel rispetto delle norme e dei criteri di economicità ed efficienza, oltre che del buon andamento ed imparzialità della Pubblica Amministrazione? Opere inutili, costose, scadenti, non a regola d’arte, spesso incompiute come ce ne sono tante in Sicilia.

La corruzione così disperde risorse, impedisce qualsiasi possibilità di sviluppo, ed è causa della mancata crescita economica, della disoccupazione e della morte della meritocrazia. Ma la corruzione fa persino di peggio: nel favorire il malaffare deprime le coscienze. Già il pensare comune che l’Italia sia un Paese dove la corruzione è dilagante porta alla rinuncia in partenza alle gare d’appalto da parte di aziende serie che operano nella piena legalità. Inoltre, chi entra in un contesto di corruzione sistemica, sarà portato ad adeguarsi o a farsi da parte, come rivela il ventisettenne appena assunto che confessa dicendo: ero in prova e ho avuto paura di essere cacciato dall’ufficio in cui rubavano tutti. Conclude: “Non ho avuto il coraggio che ci vuole per essere onesto”.

La commistione, l’intreccio strettissimo è stato rivelato da indagini e da processi in ogni parte d’Italia: mafie, criminalità comune, politica, mondo dell’economia, funzionari pubblici, professionisti che hanno formato reti di interessi comuni avvinte da rapporti di corruzione.

Il problema della corruzione è essenzialmente scoprirla. Per questo, penso che non sia tanto utile innalzare semplicemente i livelli sanzionatori, ma serva fare emergere il fenomeno con strumenti tecnico-giuridici e mezzi investigativi più sofisticati di quelli che la legge oggi consente, in modo da colpire non solo le condotte di abuso di poteri pubblici, ma anche quelle ad esse strumentali o connesse. Il fondamentale lavoro della magistratura e della polizia infatti interviene, e non potrebbe essere altrimenti, per sanzionare i reati già commessi, per punire i comportamenti scorretti. Ciò che è fondamentale è però la prevenzione, per impedire i danni che funzionari infedeli, politici corrotti, imprenditori senza scrupoli e criminali arrecano alla collettività.

Alcune note positive vanno sottolineate: nella scorsa Legislatura è stato approvato, pur con troppe modifiche, il mio Disegno di legge contro la corruzione, il riciclaggio e l’autoriciclaggio ed è stata introdotta la figura del whistleblower, ovvero garanzie per chi denuncia episodi di corruzione di cui è stato testimone sul posto di lavoro. In questa Legislatura ho apprezzato alcune delle norme contenute nel cosiddetto “spazzacorrotti”, che però per miopi decisioni politiche non è stato possibile discutere e migliorare nel merito.

Sono convinto che in un momento di sfiducia e delegittimazione la politica abbia il dovere di reagire per contrastare con energia il radicarsi della corruttela, la sottocultura del profitto ad ogni costo, il disprezzo per la cosa pubblica e il bene comune. Ma è anche indispensabile investire in cultura, istruzione e ricerca per formare le giovani generazioni, le nuove classi dirigenti, a una cittadinanza più consapevole e per determinare quella rivolta morale che può far riacquistare la fiducia nel nostro Paese e che è la vera speranza per il nostro futuro.

Contrarietà al Governo ma voto favorevole per escludere reati gravi da rito abbreviato

Dichiarazione di voto del 2 aprile 2019 sul disegno di legge “Inapplicabilità del giudizio abbreviato ai delitti puniti con la pena dell’ergastolo”

Presidente, Colleghi,
tutto ci divide dall’attuale maggioranza e dal Governo; non condividiamo pressoché nessuna delle scelte prese finora, e consideriamo la deriva delle ultime settimane – a seguito dei risultati elettorali nelle diverse regioni – come un ulteriore rischio per la tenuta economica e per la credibilità del nostro Paese sullo scacchiere comunitario e internazionale.

L’affanno con cui l’azionista di maggioranza del Governo, il Movimento 5 stelle, sta cercando di recuperare quella metà di consensi perduti tra gli elettori, e la reazione della Lega al ritrovato spirito battagliero dei suoi alleati, sta assumendo toni da farsa. Lo abbiamo visto in questo fine settimana, con accuse infondate ad un sottosegretario per deleghe in realtà di un altro ministro e con la reprimenda del presidente del Consiglio. A tal proposito ne approfitto per ringraziare il Sottosegretario Vincenzo Spadafora, che ieri ha archiviato definitivamente il Disegno di Legge “Pillon”, nonostante le proteste del ministro Fontana: per fortuna qualcuno nel Movimento 5 Stelle si è reso conto che quel disegno di legge era inemendabile e pericoloso sotto il profilo culturale prima che sotto quello normativo. A ricordarcelo in maniera ancora più chiara è stato il Congresso Mondiale della Famiglia di Verona, durante il quale si sono levate parole oscurantiste e retrograde, alle quali si è orgogliosamente opposta una bellissima manifestazione in difesa dei diritti delle donne e dei diritti civili in generale.
Forse non vi è ancora del tutto chiaro che avete un Paese da governare, un Paese che è alle soglie di una drammatica situazione economica, con dati che peggiorano di giorno in giorno e rischi concreti per l’occupazione.

Questa premessa, questa presa di distanza totale dall’operato del Governo, è necessaria e doverosa prima di entrare nel merito del provvedimento che tra poco sarà posto al voto.
Lo ritengo infatti un tassello nella direzione giusta, anche se continuo a denunciare, come già ho avuto modo di esprimere in occasione del voto sul cosiddetto “spazzacorrotti”, l’errore madornale di provvedimenti specifici in materia penale invece di una più larga revisione dell’intera procedura.

Sappiamo bene che il problema principale della Giustizia in Italia sono i tempi dei processi. Lo diciamo da decenni! Ma quale prezzo siamo disposti a pagare per accorciare, come abbiamo visto non di molto, questi tempi?

La ratio dietro il giudizio abbreviato si riduce tutta in questa valutazione: è sempre lecito, per ogni tipo di reato, diminuire di un terzo la pena in cambio di un risparmio di tempo di circa un anno nella durata del processo in primo grado? Onestamente, per me, no.
Vorrei si facesse particolare attenzione su un punto fondamentale: la quantificazione della pena non ha nulla – ripeto: nulla! – a che fare con la sua funzione rieducativa, che riguarda il successivo passaggio dell’esecuzione.

Quest’Aula dovrebbe tenere in altissima considerazione la lezione che Aldo Moro diede ai propri studenti nel lontano 1976. Cito: “Ricordatevi che la pena non è la passionale e smodata vendetta dei privati: è la risposta calibrata dell’ordinamento giuridico e, quindi, ha tutta la misura propria degli interventi del potere sociale, che non possono abbandonarsi ad istinti di reazione e di vendetta, ma devono essere pacatamente commisurati alla necessità, rigorosamente alla necessità, di dare al reato una risposta quale si esprime in una pena giusta”.

Cito queste parole per introdurre un passaggio del parere che il Csm ha lasciato alla commissione Giustizia, quando dice che “sussiste quindi una divaricazione oggettivamente ampia del trattamento punitivo conseguente alla combinazione della premialità del rito e del bilanciamento delle circostanze, e, al contempo, una eccessiva rigidità del sistema che finisce per inibire al giudice la possibilità di graduare la pena in relazione alla concreta gravità dei fatti”, e continua spiegando come per l’omicidio aggravato si possa quindi decidere solo nell’alternativa tra i 16 e i 30 anni, una pena quindi “che potrebbe rivelarsi non adeguata o per difetto o per eccesso”.

Eliminare il rito abbreviato per i reati gravissimi, quindi, non è vendetta, non è rigore, non è giustizialismo. Significa invece restituire al giudice la possibilità di un vero adeguamento della pena al caso concreto. Sulla base di valutazioni, non sulla base del rito scelto!

Una ulteriore considerazione “di sistema”. Al momento il rito abbreviato è quello scelto quasi in via esclusiva da chi commette reati che prevedono la pena all’ergastolo e non può fare affidamento sulla ragionevole speranza della prescrizione. Se la riforma votata qualche mese sul tema – ovvero il blocco della prescrizione dopo il primo grado di giudizio – entrerà in vigore come è stato previsto, sono certo che la diminuzione dei processi con rito abbreviato prevista dall’attuale provvedimento sarà più che compensata da chi, non potendo più contare sul fattore tempo, avrà convenienza a sceglierlo per vedere diminuita la sua pena di un terzo, garantendo un sostanziale equilibrio nei numeri e in attesa di provvedimenti seri e di ampio respiro sul processo penale in genere.

Pur con tutti i limiti evidenziati, quindi, per le ragioni sopra esposte annuncio il voto favorevole di Liberi e Uguali. E’ un voto che dimostra che l’opposizione che facciamo a questo Governo e alla maggioranza non è a prescindere, né tantomeno ideologica. Ci piacerebbe, anzi, che fosse possibile più spesso votare favorevolmente ai provvedimenti della maggioranza. Purtroppo finora solo raramente – molto raramente – avete presentato iniziative positive e di buon senso.

Noi vi richiameremo sempre alla vostre responsabilità – con l’augurio che di abbreviato ci sia soprattutto la durata di questa stagione giallo-verde – perché governare un grande Paese come l’Italia è una cosa seria che richiede meno tweet e più lavoro, sia del governo che, soprattutto, del Parlamento, che, va sottolineato, è quasi paralizzato dalle vostre lotte intestine su ogni argomento.

Mafia. Fattori geopolitici regolano la criminalità organizzata transnazionale

Relazione sui temi di corruzione e riciclaggio al primo seminario Italo-Argentino a Buenos Aires dal 26 al 28 marzo 2019

Ho accolto davvero con piacere l’invito della Camera Argentina a questo seminario. Qualche anno fa, da presidente del Senato, ho passato alcuni giorni in visita di Stato in questo Paese e ne ho un ricordo davvero meraviglioso.

Corruzione

Personalmente ho sempre considerato la lotta alla corruzione fondamentale per l’affermazione della legalità, dell’interesse pubblico e del bene comune. Per questo motivo, nel primo e unico giorno da senatore nella scorsa legislatura ho presentato un disegno di legge contro la corruzione, l’autoriciclaggio, il falso in bilancio, l’evasione fiscale, in sintesi contro l’economia criminale, che da un lato favorisce la creazione di fondi neri per la corruzione e dall’altro utilizza i metodi della criminalità comune o organizzata per occultare o riciclare i relativi profitti. La logica complessiva che era dietro quel disegno di legge, solo in parte venne recepita al termine del lungo dibattito parlamentare.

La corruzione è un reato senza testimoni, senza vittime se non la collettività, e senza denunce, con un comune interesse degli autori al silenzio. In essenza è uno scambio fra l’esercizio abusivo, deviato, del potere e una prestazione di danaro o altra utilità. Un altro tratto preoccupante del fenomeno è che incoraggia espedienti illegali per nascondere l’origine illecita del danaro: società fiduciarie, sovra o sotto fatturazioni, operazioni di finanza strutturata, cessioni di crediti e di garanzie, paradisi fiscali, operazioni e compensazioni estero su estero. Le tangenti sono correlate ad artifici di ogni genere. Presuppongono condotte di falso in bilancio, procedure contrattuali alterate, trattamenti preferenziali negli appalti, collusioni con i fornitori, illecite aggiudicazioni, false emergenze di lavori e conseguenti premi-truffa, collaudi addomesticati.

La corruzione ha assunto un livello di radicamento così profondo da non poter quasi più esser considerato un reato contro la Pubblica Amministrazione in senso stretto. Voglio dire con questo che, se a rigore la Pubblica Amministrazione, è quella che chiamiamo in termini giuridici la persona offesa del reato, di fatto quello che viene colpito dal complesso dei reati di corruzione è l’intero tessuto economico e sociale. La corruzione mina l’economia dal profondo, togliendo trasparenza alle transazioni, agli appalti, dai più piccoli ai più grandi, privilegiando e favorendo i corruttori a danno degli onesti, a danno dei più capaci, di coloro che hanno competenze e lavorano seriamente, nel rispetto delle Leggi. Questo terribile stato di cose affossa l’economia del Paese e la sicurezza dei cittadini. Come possiamo pensare che un’opera realizzata grazie ad un appalto ottenuto attraverso l’elargizione di una somma di denaro, o di un favore, possa essere la migliore opera eseguibile, nel rispetto delle norme e dei criteri di economicità ed efficienza, oltre che del buon andamento ed imparzialità della Pubblica Amministrazione? Opere inutili, costose, scadenti, non a regola d’arte, spesso incompiute.

La corruzione così disperde risorse, impedisce qualsiasi possibilità di sviluppo, ed è causa della mancata crescita economica, della disoccupazione e della morte della meritocrazia. Senza contare i suoi costi indiretti, di non agevole quantificazione economica ma ugualmente rilevanti, quali quelli derivanti dai ritardi nella definizione delle pratiche amministrative, nonché dal cattivo funzionamento degli apparati pubblici e dei meccanismi previsti a tutela degli interessi collettivi. Un terreno di coltura ideale perché la corruzione si diffonda, determini assuefazione e sostanziale accettazione, il pericolo più grave che sia possibile immaginare.

Ma la corruzione fa persino di peggio: nel favorire il malaffare deprime le coscienze. Già il pensare comune che l’Italia sia un Paese dove la corruzione è dilagante porta alla rinuncia in partenza alle gare d’appalto da parte di aziende serie che operano nella piena legalità. Al contrario, può succedere che chi ha sempre agito correttamente si veda costretto anch’egli, per non vedersi sopraffatto economicamente e per evitare il tracollo, a ricorrere alla corruzione: è quel meccanismo che si identifica nella corruzione come sistema e in quella “seriale e diffusiva”. Del resto chi è disposto a vendersi una volta, perché non dovrebbe continuare a farlo? Inoltre, chi entra in un contesto di corruzione sistemica, sarà portato ad adeguarsi o a farsi da parte, come rivela il ventisettenne appena assunto che confessa dicendo: ero in prova e ho avuto paura di essere cacciato dall’ufficio in cui rubavano tutti. Conclude: “Non ho avuto il coraggio che ci vuole per essere onesto”.

Da Procuratore Nazionale Antimafia chiedevo al legislatore l’inserimento del reato di corruzione in quelli di competenza delle direzioni distrettuali antimafia: in questo modo si sarebbero potuti usare tutti gli strumenti di contrasto previsti per il crimine organizzato e, inoltre, la Procura Nazionale avrebbe potuto esercitare una attività di coordinamento delle indagini. Avevo chiara la situazione sistemica e di stretta connessione, in certe regioni italiane, tra organizzazioni criminali, potere politico, pubblica amministrazione e settori dell’economia. Appariva evidente che vi fosse una convergenza di interessi tra soggetti operanti nel campo degli appalti pubblici. Il cosiddetto “tavolino” consisteva nel fatto che un imprenditore, per avere aggiudicati appalti pubblici miliardari, pagava la tangente sia al politico che alla famiglia mafiosa che consentiva l’opera pubblica sul proprio territorio. Alla famiglia mafiosa andava riconosciuto un sovrapprezzo dello 0.80% per le spese generali dell’organizzazione, perché essa garantiva, se necessario attraverso l’esercizio della violenza e dell’intimidazione, il rispetto dei patti, la protezione dell’imprenditore, la mano d’opera, i mezzi, il controllo sulla forza lavoro; il politico otteneva invece il supporto elettorale. Questo sistema, che si era rafforzato soprattutto attraverso l’omertà dei contraenti, fu scoperto solo attraverso le spiegazioni che fornirono i collaboratori di giustizia nelle loro deposizioni.

L’evoluzione del sistema del tavolino è la commistione, l’intreccio strettissimo rivelato da indagini e da processi in centro e nord Italia, fra mafie, criminalità comune, politica, mondo dell’economia, funzionari pubblici, professionisti. Reti di interessi che sono avvinte da rapporti di corruzione. La politica ha il dovere di reagire, di continuare su questa strada per contrastare con energia al radicarsi della corruttela, alla sottocultura del profitto ad ogni costo, al disprezzo per la cosa pubblica e il bene comune. Ma è anche indispensabile investire in cultura, istruzione e ricerca per formare le giovani generazioni, le nuove classi dirigenti, a una cittadinanza più consapevole e per determinare quella rivolta morale che può far riacquistare la fiducia nel nostro Paese e che è la vera speranza per il nostro futuro.

Quello che si può osservare attraverso processi ed indagini degli ultimi anni è che la corruzione oltre alla sua dimensione “bilaterale”, in cui corruttore e corrotto si scambiano vantaggi o denaro, va sempre più assumendo una dimensione “poligonale” o “circolare” in cui più soggetti entrano “in rete” senza scambi diretti, ma solo con cessioni e scambi di comportamenti, atti e vantaggi “monodirezionali”. Una strategia difficilissima da smascherare perché non si riesce facilmente a collegare l’illecito arricchimento del pubblico ufficiale con i favori e privilegi indebitamente ottenuti dalla rete di privati.

Il problema della corruzione è essenzialmente scoprirla. Per questo, penso che non sia tanto utile innalzare semplicemente i livelli sanzionatori, ma serva fare emergere il fenomeno con strumenti tecnico-giuridici e mezzi investigativi più sofisticati di quelli che la legge oggi consente, in modo da colpire non solo le condotte di abuso di poteri pubblici, ma anche quelle ad esse strumentali o connesse.

A proposito di uno dei nuovi strumenti introdotti nella scorsa legislatura, il whistleblowing, mi piace ricordare che nella cultura anglosassone il whistleblower non è un traditore, uno spione che nell’ombra trama contro i colleghi ma è l’arbitro che nelle organizzazioni soffia il fischietto per attirare l’attenzione sulle irregolarità e garantire che il lavoro si svolga secondo le regole: gli è quindi riconosciuto un ruolo positivo, collettivo.

Nella stessa logica in questa Legislatura sono state introdotte due importanti novità. La prima è la previsione di una causa speciale di non punibilità per chi, dopo aver commesso un fatto di corruzione, prima che la notizia di reato sia stata iscritta nel registro generale a suo carico, e comunque entro quattro mesi dalla sua commissione, spontaneamente lo denunci, fornendo indicazioni utili per l’individuazione degli altri responsabili (ed inoltre restituisca una somma pari a quanto dato o ricevuto). Il più plausibile risultato di questa norma è quello di insinuare un fattore di insicurezza che diminuisca la forza dell’accordo tra corruttore e corrotto: nessuna delle parti potrà più fare affidamento certo su un comune interesse a tacere e si determinerebbe quindi una sorta di deterrenza preventiva, un elemento che dissuada dall’entrare in patti di carattere corruttivo.

Un secondo rimedio, importantissimo, è l’estensione della disciplina delle operazioni sotto copertura, come previsto dalla Convenzione di Merida.
L’infiltrato è colui che agisce “sotto copertura” in un’indagine giudiziaria relativa a un delitto che è già stato ideato e sta per essere commesso. L’agente infiltrato in sostanza si limita ad acquisire la prova di un comportamento criminale già esistente.

Riciclaggio di denaro

Non ha odore e non riposa mai. E’ il denaro delle mafie, corre veloce, cambia posto di continuo e quando si materializza è irriconoscibile. Profuma di fresco e di pulito, candeggiato dopo decine di transazioni, ricompare in circolo come linfa buona per nuovi affari. Rintracciarlo nei forzieri dove sta nascosta prima di finire nella centrifuga degli scambi degli acquisti, delle cessioni e delle vendite, è la sfida del nuovo millennio. Governi, non tutti, e analisti si ingegnano a trovare soluzioni, ma dall’altra parte un sistema vive di quei soldi e sa di non poterne fare a meno. È il sistema dell’economia parallela, che si muove nell’ombra per difendere quella fetta di fortuna alla quale deve la propria esistenza e sopravvivenza.

Ma il denaro delle mafie non alimenta un circuito chiuso, non genera soltanto nuovi e redditizi traffici criminali. Il riciclaggio non è un accessorio dei reati, non è la parte terminale di un traffico, è il pilastro sul quale sempre più le organizzazioni criminali edificano le loro opere. I grandi gruppi avviano un’attività solo nella consapevolezza di poter pulire i proventi. Con i soldi della droga, senza altre mediazioni, si può comprare soltanto altra droga. Gli utili, però, sono alti, i rischi di impresa calcolati e per ogni organizzazione c’è la necessità di immettere quei liquidi nell’economia sana. Per dissimulare ma anche per coronare di sicuro successo i traffici sommersi. Così quel denaro entra nel circuito legale. Si annida dietro formidabili scalate, ascese di tycoon rampanti, sta a difesa dei patrimoni di manager in grisaglia, fa sempre più spesso capolino in borsa. Rappresenta una holding con migliaia di partecipate collegate, ha diramazioni in tutto il mondo e schiere di professionisti e consulenti che lavorano per cancellare le tracce della provenienza di quei soldi. Un’azienda che è rappresentata al tavolo delle decisioni, fa sentire il proprio peso, negozia spesso da posizione di forza. Con il denaro delle mafie si costruiscono dal nulla fortune e si demoliscono assetti consolidati.

L’economia criminale è protesa verso la conquista illegale di spazi di potere economico e inquina il tessuto produttivo e gli assetti istituzionali dei paesi in cui opera. In un sistema corrotto non c’è più spazio per la libera concorrenza, saltano le regole, i valori sono falsati, si creano posizioni dominanti, le istituzioni subiscono effetti che non governo e, in definitiva, non c’è vera ricchezza perché non c’è innovazione. Il denaro delle mafie, semmai, si apposta comodo nei settori più moderni del mercato, dall’energia al riciclo di rifiuti, e sconvolge anche lì le regole. Impone opere inutili, massimizza il profitto a dispetto della qualità, taglia fuori dal gioco che avrebbe le carte in regola per parteciparvi. Senza il riciclaggio, il denaro delle mafie sarebbe un ricavato inerte. Perché il crimine si rafforzi è necessario che quel denaro torni in circolo, diventi lo strumento attraverso il quale tessere una rete di relazioni che coinvolge broker di professionisti, intermediari ed esperti che prestano la loro opera per la costruzione di architetture complesse e per la selezione della schiava di prestanome. Dal riciclaggio spicciolo fino alla creazione di fiduciaria estere, la movimentazione delle fortune dei boss è una parte rilevante dell’economia planetaria.

C’è un esempio che vi suonerà familiare. Sono certo che conoscete la serie Netflix Narcos ma la realtà è decisamente più sconvolgente della fiction. Nel 2006 a Ciudad del Carmen atterra un Dc9 che trasporta 5,7 tonnellate di cocaina e che viene intercettato dalle forze di polizia. Il carico appartiene al cartello di Sinaloa di EL Chapo Guzman. Cento milioni di dollari in polvere bianca. Grazie a quella scoperta e alle segnalazioni che arrivano da un ex poliziotto allora impiegato a Londra presso una delle più importanti banche americane, si realizza la più grande indagine sul riciclaggio mai messo in cantiere in America. Le indagini portano ad accertare che alcune banche statunitensi erano state partner silenziose e affidabili dei narcos. Il sistema per il riciclaggio conosceva vari stratagemmi: dal trasporto di 4 miliardi di dollari oltre confine a bordo di furgoni sotto copertura, all’acquisto di travel cheques in euro. Ma si procedeva anche con l’accreditamento delle somme al di là del confine dietro la presentazione in Messico di un assegno. Si parla di circa 378 miliardi di dollari, un terzo del prodotto interno del Messico – per intenderci. E questo è avvenuto in appena tre anni: tra il 2004 e il 2007.

La criminalità organizzata italiana non è da meno. Tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni Ottanta si assistette a una nuova, rapida evoluzione della realtà di Cosa nostra. L’aumento vertiginoso del giro d’affari, ottenuto grazie al traffico di droga (si pensi che l’organizzazione era riuscita a monopolizzare il commercio all’ingrosso dell’eroina in Europa e negli Stati Uniti), comportò notevoli cambiamenti nella vita delle cosche e la necessità di stabilire nuovi rapporti anche con la finanza internazionale e con la politica ai più alti livelli. Nacque così una classe di mafiosi che si dedicava al riciclaggio di denaro sporco in attività imprenditoriali lecite e illecite in alcune regioni del Centro e Nord Italia e in altre parti del mondo.

Giovanni Falcone fu tra i primi ad approfondire questo nuovo aspetto. Per ricostruire i flussi di denaro, spulciava ogni singolo assegno, chiedendone la causale ad ogni emittente o giratario con una tenacia ed uno scrupolo quasi maniacale, che però gli consentì di entrare nelle banche allora a completo ed omertoso servizio dei mafiosi, ricostruendo legami, rapporti e relazioni, che avrebbero in seguito fornito adeguati riscontri alla ricostruzione delle famiglie mafiose e della struttura piramidale di Cosa Nostra, rivelata dalle dichiarazioni dai più importanti collaboratori di giustizia.
Falcone non si consentiva nessuna distrazione o superficialità e si dedicava con la massima attenzione ai penetranti controlli bancari, alla certosina ricostruzione di società (vere e proprie scatole cinesi), affari, rapporti di “comparatico” (compare di battesimo, di cresima o d’anello) e relazioni parentali frutto di matrimoni reciprocamente intrecciati tra rampolli di famiglie mafiose, per cementare coi rapporti di sangue i legami associativi. Manteneva contatti con giudici, investigatori e polizie di mezzo mondo, per mettere insieme tutte le informazioni possibili a disegnare un quadro probatorio complesso.

Noi tutti abbiamo imparato tantissimo da quel suo approccio così innovativo. E, molti anni dopo, ho portato con me quell’esperienza nel mio ruolo di Procuratore Nazionale Antimafia. Proprio in quel ruolo dedicai moltissime energie a ideare una strategia fosse capace di adattarsi al dinamismo delle mafie, soprattutto in relazione alla loro capacità di cambiare pelle e infiltrarsi in settori meno battuti. Ci occupammo – ad esempio – di firmare dei protocolli d’intesa a livello internazionale per poter lavorare in sinergia con le procure di altri Paesi; promuovemmo una armonizzazione della legislazione antiriciclaggio a livello europeo e non perdevamo occasione per mostrare ai colleghi di tutto il mondo le nostre tecniche di indagine, che quasi sempre erano all’avanguardia.

Aspetti internazionali

In questo consesso, però, ritengo utile allargare il campo della nostra riflessione. Sono convinto che l’economia riconducibile alla criminalità (e più in genere derivante dall’illecito) influenzi gli equilibri mondiali, non solo economici, ma anche di sicurezza e geopolitici.

Nella mia passata funzione di Procuratore Nazionale Antimafia ho avuto modo di viaggiare e sottoscrivere una serie di accordi di cooperazione con decine di paesi del mondo, una sorta di “diplomazia penale”, si potrebbe dire. In molti paesi ho osservato con preoccupazione il dominio da parte di poteri informali, non istituzionali: criminali ed economici. O entrambe le cose. Allo stesso modo da Presidente del Senato ho avuto l’opportunità di viaggi istituzionali e di dialogo con esponenti di paesi di diversi quadranti regionali, e cerco di osservare con attenzione i mutamenti del sistema mondiale. E così ho maturato la convinzione che le istituzioni nazionali, europee ed internazionali potranno difendere le nostre società, le nostre democrazie, ma anche la stessa dignità umana, i diritti, la stabilità internazionale dall’aggressione del crimine organizzato transnazionale e della economia illegale colmando intanto un profondo vuoto di conoscenza, di comprensione.

Da alcuni anni io propongo di guardare con occhi geopolitici, con gli strumenti concettuali della geopolitica, alla criminalità organizzata transnazionale, e all’economia generata dall’area più vasta dell’illecito (in cui rientrano anche corruzione, sommerso, evasione e i fenomeni di riciclaggio collegati). I legami fra le vere mafie e le altre organizzazioni criminali transnazionali con altri soggetti detentori di varie posizioni di potere internazionale hanno la natura di relazioni transnazionali strettamente legate ai principali fattori della geopolitica: geografia, clima, sistemi politici e istituzionali, religione, etnia, demografia, cultura, alleanze, conflitti, economia, comunicazioni, trasporti, informazione.

Le mafie si lasciano guidare nella ricerca del profitto dai fattori geopolitici, servendosi ai propri fini di mutamenti e tendenze; e allo stesso tempo agiscono da attori geopolitici producendo in via diretta o indiretta processi di natura geopolitica. Le mafie così possono determinare o risolvere conflitti, controllare territori, fare e disfare alleanze, ridisegnare confini, tenere in vita o soffocare intere economie o istituzioni politiche di interi Stati.

Il grande tema politico che determina diffusa debolezza dell’azione dei poteri istituzionali risiede nella pretesa dei governi di risolvere da soli e comunque alle proprie condizioni questioni soltanto che un’azione congiunta permette di affrontare con efficacia. La criminalità organizzata, il terrorismo, il crimine economico transnazionale presuppongono in altri termini delle vere relazioni internazionali che, a differenza di quasi tutte le altre, non sono controllabili da singole potenze, appartengono ai domini geopolitici del caos.

Così da una parte gli Stati sono tenuti al rispetto di forme legali, rallentati da meccanismi farraginosi e faticano a cooperare fra loro, in una assurda ridda di frontiere giuridiche, approcci diversi, blocchi geopolitici. Mentre le politiche delle organizzazioni criminali transnazionali nelle scelte di merci, mercati, rotte, investimento dei profitti sono favorite da vantaggi competitivi straordinari: la capacità di accedere ed elaborare informazioni e notizie riservate, rapidissimi meccanismi decisionali; disponibilità di sistemi di attuazione ed esecuzione garantiti da sanzioni efficaci e inappellabili, e di una vastissima rete di collaborazione internazionale che pragmaticamente prescinde da schemi nazionalistici, etnici e politici.

La recessione economica che prosegue da diversi anni rappresenta per le mafie occasione di consolidamento e arricchimento. Com’è ormai ben noto l’ampia disponibilità di liquidità nell’aggravarsi della stretta creditizia per le imprese e le famiglie determina l’espansione del prestito usurario che incide particolarmente sulle piccole e piccolissime imprese che sono per l’economia italiana una base molto importante. E molte di queste finiscono per essere acquisite dall’usuraio, molto spesso emissario o prestanome dell’associazione mafiosa.

Alla crisi economica si accompagna invariabilmente un incremento esponenziale degli investimenti mafiosi nell’economia legale che impiegano capitali illeciti in mercati tradizionali e nuovi. I dati dei fallimenti e delle cessazioni di attività imprenditoriali degli ultimi anni descrivono un dramma epocale che permette ai detentori di ricchezze mafiose o comunque illecite di inquinare irrimediabilmente il sistema economico.

I risultati sono devastanti. Si accentua la penetrazione criminale nel tessuto economico legale; si incrementa la dipendenza e la lealtà alle mafie dei territori più fragili; si legittima l’ingresso nei circuiti legali e il riciclaggio di capitali che inquinano il sistema finanziario, drogandolo. L’impresa mafiosa produce altra crisi perché danneggia la competitività e i mercati attraverso la concorrenza sleale con le imprese legittime. Può permettersi di condurre l’attività anche sottocosto o in perdita, utilizzando risorse a costo zero perché provento di reati; non ha bisogno di ricorrere al sistema creditizio ufficiale; attraverso l’intimidazione il metodo mafioso beneficia di oligopoli e monopoli a livello locale; sopprime la conflittualità sindacale nelle aziende; elimina i costi derivanti dalle norme contrattuali, previdenziali ed antinfortunistiche a tutela dei lavoratori.

La più recente globalizzazione dei mercati finanziari mutato profondamente le strategie economiche mafiose ma la comunità internazionale non vi ha opposto adeguate azioni comuni. In Italia abbiamo imparato prima di altri che la lotta alle mafie transnazionali si gioca aggredendo i patrimoni illeciti, con la confisca e la prevenzione e repressione del riciclaggio. Ma è proprio su questo tema che la cooperazione fra gli Stati incontra le maggiori difficoltà. I

l dominio economico è da sempre tradizionale materia di gelosa pertinenza delle istituzioni sovrane, e la cooperazione internazionale resta molto insoddisfacente. Paradisi bancari, che proteggono l’identità dei titolari delle ricchezze, si trovano anche nel fragile sistema finanziario europeo che è divenuto il fulcro del riciclaggio. Al tempo stesso enormi capitali in euro sono trasferiti in contanti dall’Europa in America e viceversa.

Rintracciare, identificare, riconoscere il denaro delle mafie e quello derivante dall’economia sommersa ripulito da decine di transazioni è la sfida del nuovo millennio. Un’economia che è difficile quantificare, io non sono appassionato di stime, ma che vale diversi punti percentuali (forse fino a dieci) del PIL mondiale.

In questa prospettiva ogni organo internazionale che si proponga di unire le forze non può che trovarmi d’accordo e partecipe, per questo ritengo, ma avremo modo di parlarne credo nei prossimi giorni, che sia importante l’istituzione di una Corte Penale Latinoamericana e dei Caraibi contro il crimine transnazionale organizzato.

Caso Diciotti, anche i ministri devono rispettare la legge

Dichiarazione di voto del 20 marzo 2019, sull’autorizzazione a procedere nei confronti del Ministro Salvini per il “Caso Diciotti”

Come tutti i cittadini, anche i Ministri, se nell’esercizio delle loro funzioni commettono dei reati, devono risponderne davanti alla giustizia, quali che siano le motivazioni politiche a fondamento delle loro azioni. L’unico caso in cui è possibile evitare il processo è che il Parlamento, con giudizio insindacabile, ritenga di non concedere l’autorizzazione a procedere. Vale per tutti i Ministri di qualsiasi Governo, attuale e futuro: occorre tenerlo bene a mente.

In questo caso il diniego dell’autorizzazione a procedere aprirebbe a pericolose derive autoritarie, per evitare le quali i costituenti hanno posto sin nei primi articoli gli irrinunciabili principi di inviolabilità dei diritti umani. Se qualunque Ministro fosse autorizzato a violare impunemente la legge con atti di natura politica, senza che la magistratura possa sottoporlo a giudizio, si darebbe luogo ad un pericoloso precedente: il rischio più grande sarebbe quello di fornire, in futuro, una giustificazione a qualunque crimine in nome di un fine politico.

Il delicato compito del Senato attiene squisitamente a un giudizio sui mezzi usati e sui fini che si volevano perseguire; a un saggio e approfondito contemperamento tra i beni protetti dalle norme violate e i mezzi usati dal Ministro per attuare la politica del suo Governo.

Il Ministro Salvini ha certamente posto in essere un comportamento in violazione delle norme internazionali e nazionali e ha, secondo il Tribunale dei Ministri di Catania, abusato delle funzioni attribuite al Ministero dell’Interno ponendo arbitrariamente il proprio veto all’indicazione del POS, determinando così la permanenza forzosa dei naufraghi a bordo della “Diciotti”, con conseguente illegittima privazione della loro libertà personale per un arco temporale giuridicamente apprezzabile e al di fuori dei casi consentiti dalla legge.

Le ragioni che hanno determinato il sequestro esulano da valutazioni di tipo tecnico. L’ordine è stato infatti dato per ragioni connesse alle trattative in corso in sede europea: quasi un sequestro a scopo di coazione, così come configurato dall’articolo 289-ter, che prevede una pena da 25 a 30 anni. Un grande Paese non usa come ostaggi per una trattativa internazionale una nave militare, il suo equipaggio e i naufraghi salvati.

Non c’è alcun dubbio che il comportamento di Malta sia stato esecrabile ma non risulta che l’Italia abbia sollevato nelle sedi opportune alcuna controversia internazionale. Non c’è alcun dubbio che la sicurezza del Paese debba essere una priorità, ma nel caso specifico non risulta alcuna minaccia all’ordine pubblico o alla sicurezza, come dimostra il fatto che nessun provvedimento amministrativo o giudiziario sia stato emesso nei confronti dei naufraghi una volta scesi a terra.

Quale emergenza, quale catastrofe, si sarebbe abbattuta sul nostro Paese? Quale preminente interesse pubblico non si sarebbe tutelato se i 177 naufraghi fossero sbarcati e avessero atteso presso gli hotspot le decisioni degli altri paesi dell’Unione europea? Quale articolo della Costituzione autorizzava il Ministro Salvini ad impedire lo sbarco? Nessuno, la Costituzione al contrario, agli articoli 2 e 10, difende i diritti fondamentali irrinunciabili.

Non vi è dubbio che il Ministro abbia agito al di fuori delle finalità proprie dell’esercizio del potere conferitogli dalla legge, in quanto le scelte politiche non possono ridurre la portata degli obblighi degli Stati di garantire nel modo più sollecito il soccorso e lo sbarco dei naufraghi in un luogo sicuro: obblighi che derivano da convenzioni internazionali e costituiscono una precisa limitazione alla potestà legislativa dello Stato in base agli articoli 10, 11 e 117 della Costituzione. Anche le sentenze della Corte costituzionale hanno evidenziato come la discrezionalità politica nella gestione dei fenomeni migratori non possa entrare in contrasto con la Costituzione e i Trattati internazionali.

Ne consegue che la decisione del Ministro non solo non trova alcuna giustificazione ma contrasta apertamente con la tutela degli interessi costituzionalmente rilevanti. Ogni espressione di indirizzo politico e di governo non può, infatti, avere capacità lesiva di situazioni soggettive individuali, dovendo sottostare al “principio supremo di legalità” e avendo il suo contrappeso principe nella Costituzione e nei diritti inviolabili in essa indicati, tra cui spicca il diritto alla libertà personale.

Il “preminente interesse pubblico” è in qualche modo assimilabile al concetto di “ragion di Stato” che trova, giustamente, il suo limite nella garanzia dei diritti inviolabili della persona umana. Su questo aspetto è illuminante l’articolo 17 della legge n. 124 del 2007 sui Servizi di informazione per la sicurezza della Repubblica, secondo il quale non può essere autorizzata né giustificata la condotta prevista dalla legge come un reato diretto a mettere in pericolo la vita, l’integrità fisica, la libertà personale di una o più persone neanche per la difesa della sicurezza nazionale.

Gli obiettivi di contrastare il traffico di esseri umani e di condividere le responsabilità con gli altri Paesi europei sono legittimi ma non sfuggirà che ciò che rileva in questa sede è solo la modalità attraverso la quale il Ministro dell’Interno abbia inteso realizzarli. Qualora egli avesse voluto sollevare il tema dell’equa ripartizione dei migranti in ciascun Paese europeo avrebbe potuto e dovuto farlo nelle sedi opportune, dopo averli fatti sbarcare così come prevedono le convenzioni internazionali.

L’individuazione del POS è affidata al Ministero dell’Interno e non al Governo; l’omissione di quell’atto è stata una precisa responsabilità personale del Ministro. A nulla, se non a giustificare all’esterno il voto di oggi, rilevano le successive prese di posizione del Presidente Conte e dei Ministri Di Maio e Toninelli. I fatti e i comportamenti del Ministro Salvini sono stati valutati da più magistrati. Il Tribunale dei Ministri di Catania ha ritenuto di individuare una ipotesi di reato e correttamente si è fermato, rivolgendosi al Senato: sta a noi decidere non se il Ministro sia colpevole o innocente, ma se debba o meno essere sottoposto al giudizio della magistratura.

Bisogna quindi concentrarsi su due profili: il primo è quello della rilevanza, il secondo quello della preminenza. Il legislatore costituzionale sembra con questi aggettivi suggerire che il bilanciamento dei valori in gioco ai fini della concessione o del diniego dell’autorizzazione debba risolversi a favore della tutela dei più alti valori del nostro Stato. E quali sono i più alti valori della nostra Carta costituzionale se non il riconoscimento e la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo? Sovvertire l’ordine e dare priorità ad altri interessi rispetto ai diritti inviolabili, quali quelli della vita e della libertà, costituzionalmente protetti, sarebbe ammettere una nuova ma pericolosa concezione della ragion di Stato.

I diritti fondamentali non devono mai essere compressi per esigenze politiche: trattenere delle persone in un luogo senza un atto motivato dell’autorità giudiziaria configura un reato che deve essere sottoposto al giudizio della magistratura. Votando contro l’autorizzazione a procedere si crea un grave e pericoloso precedente che mina nel profondo il senso stesso della nostra democrazia, il suo complesso ma equilibrato sistema di pesi e contrappesi, di tutele dei diritti inviolabili della persona; piegando la Costituzione alle esigenze contingenti di questo Governo noi ci apprestiamo a cancellare secoli di diritto e oltre settanta anni di storia repubblicana.

Vale oggi per i naufraghi sulla “Diciotti”, ma domani potrà valere per chiunque. Col diritto e coi diritti fondamentali non si scherza: le convenienze politiche del momento, magari nascoste dietro il voto di una manciata di sostenitori attraverso una piattaforma web privata, non possono sottomettere la cultura giuridica e la tutela della Costituzione ad interessi di parte.

Nessuno si stupisca se, da cittadino, mi auguro che il Ministro dell’Interno della Repubblica italiana sia ritenuto innocente rispetto al reato a lui contestato. Da senatore, però, ritengo di fondamentale importanza che a stabilirlo sia la magistratura, e che l’Aula del Senato ribadisca il sacro principio della separazione dei poteri.

Pertanto, si propone la concessione dell’autorizzazione a procedere nei confronti del Ministro Salvini, ai sensi dell’articolo 96 della Costituzione e dell’articolo 9, comma 4, della legge costituzionale n. 1 del 1989.

Caso Diciotti, rischio altissimo per il futuro

Intervento in replica, durante la discussione del 20 marzo 2019 sul “Caso Diciotti”

Signor Presidente, colleghi, Governo, il senatore Salvini ha parlato alle mie spalle e adesso lo rivedo davanti, come Ministro, sui banchi del Governo, anche se è qui proprio per un reato ministeriale, quindi forse sarebbe stato meglio se fosse rimasto al suo posto, al Governo. Comunque abbiamo apprezzato questa partecipazione ai lavori dell’Assemblea.

Non v’è dubbio che il ministro Salvini abbia deliberatamente operato la scelta di perseguire gli obiettivi del Governo in spregio dei diritti dei 177 naufraghi a bordo della Diciotti: più ministeriale di così! Era necessario questo sacrificio in nome di un preminente, insopprimibile interesse pubblico? La risposta è no.

Pur riconoscendo il più ampio grado di autonomia del Governo nella determinazione della propria azione e dei mezzi necessari per assolverla, è evidente che essa sia sempre e comunque subordinata al preminente interesse pubblico, che si sostanzia nel rispetto della Costituzione e dei suoi principi fondamentali. L’adesione concreta e quotidiana al dettato costituzionale rappresenta un obbligo giuridico, politico nonché morale di ogni cittadino e, in particolare, di chi serve le istituzioni. Nessuna delle tesi a difesa dell’operato del Ministro, a mio avviso, appare fondata.

Ci ha detto che c’è un solo morto nel 2019. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, nel 2019 i morti sono 153: evidentemente al Ministero non arrivano questi dati. La percentuale di morti è passata dal 3,4 per cento del 2018, all’11,5 per cento del 2019. Insomma, la traversata non è mai stata così pericolosa come oggi e questi sono dati incontrovertibili.

Inoltre, si è parlato di controversia internazionale: mi sembra si dia un’enfasi eccessiva al problema con Malta. È vero che il comportamento di Malta è stato esecrabile sotto tutti i punti di vista e anche da un punto di vista morale, ma non si trattava di una controversia internazionale. Si trattava di far rispettare quello che il presidente Conte era riuscito a ottenere in una precedente riunione del Consiglio europeo, ovvero l’adesione volontaria nella redistribuzione dei migranti. Ciò emerge dagli atti, ma anche dalle ammissioni dello stesso ministro Salvini. L’ordine di non far sbarcare i naufraghi è stato emesso per esercitare una pressione nei confronti degli altri Stati dell’Unione europea, che avrebbero dovuto volontariamente assumersi la ripartizione dei migranti. È evidente quindi l’intento di strumentalizzare il caso Diciotti, ben prima dell’attracco a Catania, per ottenere in modo forzoso quella che doveva essere una volontaria adesione degli altri Paesi dell’Unione europea.

Il tentativo di superare il Regolamento di Dublino a favore di politiche che prevedono logiche diverse di distribuzione a livello europeo dei migranti è certamente condivisibile e legittimo, ne siamo perfettamente consapevoli e sposiamo integralmente questa politica a livello europeo. Fare pressione politica sull’Europa o, più correttamente, coazione morale, al fine di cambiare i regolamenti – perché è il Regolamento di Dublino che dovete cercare di cambiare a livello europeo – trattenendo esseri umani a bordo di una nave italiana, è invece del tutto illegittimo.

Altre tesi illustrate dal relatore non trovano la nostra condivisione. Non la trova certamente quella secondo cui l’imbarcazione possa essere considerata come luogo sicuro, perché sono stati sequestrati dei naufraghi oltre il tempo strettamente necessario per procedere allo sbarco sulla terraferma, dove deve completarsi la procedura di salvataggio in mare. Questa è un’evidente violazione delle convenzioni internazionali, che costituiscono norme di rango primario e di rilevante interesse costituzionale, in virtù degli articoli 2, 10, 11 e 117 della Costituzione.

È stato detto che essi venivano rifocillati, curati e assistiti. Dunque, signor Ministro, possiamo dire che la crociera è finita, così come la pacchia. Non è nemmeno accoglibile la tesi che vede nella libera circolazione, invece che nella libertà personale, il diritto compresso. La libertà personale è solennemente riconosciuta e protetta dall’articolo 13 della Costituzione; la libertà di circolazione è ugualmente prevista dall’articolo 16 della Costituzione e nessuna prova dei motivi di sanità e di sicurezza che l’avrebbero potuta limitare è stata prodotta. La nostra Costituzione prevede anche che «Nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche» mentre è stato proprio il Ministro a motivare la sua azione con ragioni politiche, ponendosi quindi, di fatto, anche volendo assumere la tesi della compressione della libertà di circolazione, al di fuori dell’articolo 16 della Costituzione.

È dunque palese come anche nella ricostruzione del relatore vi sia una totale confusione tra il diritto all’immediato sbarco dei naufraghi e le obbligatorie procedure di identificazione, ovvero una fase successiva, concernente la gestione a terra dei migranti. Essi diventano migranti, ma prima sono naufraghi che devono sbarcare. Quelle del ministro Salvini appaiono anche giustificazioni deboli, al punto che, nemmeno nella prima parte della sua relazione, il relatore ha ritenuto di tenerne conto. Forse le conseguenze non erano chiare nemmeno al diretto interessato, come dimostra la differenza, per esempio, tra la baldanza con cui ha aperto le comunicazioni giudiziarie del tribunale, in diretta su Facebook, e la compostezza giuridica della lettera al “Corriere della sera”, con cui, con una sorprendente giravolta, è passato dal «processatemi pure» al «chiedo al Senato di salvarmi dal processo».

Ulteriori giustificazioni riguardano la tutela dell’ordine pubblico e la difesa dei confini, ma basta ricordare che i naufraghi erano già in territorio italiano. Signor Ministro, l’articolo 4 del codice penale stabilisce che le navi italiane sono considerate come territorio dello Stato italiano. Ciò vale, incontrovertibilmente, per ogni imbarcazione battente bandiera italiana, figuriamoci per una nave militare come la Diciotti.

Inoltre, come potevano rappresentare un pericolo per l’ordine pubblico delle persone inermi, fortemente provate da giorni e giorni di navigazione, in fuga da guerre, stupri e violenze, sotto sorveglianza armata della nostra Marina militare e che non potevano scappare? Ricordo, infatti, che state poste le vedette intorno alla nave Diciotti e organizzata la vigilanza armata sulla nave.

Si è detto poi che c’erano infiltrazioni di tipo terroristico. Pur condividendo la preoccupazione in via generale, non si può non rilevare che nel caso specifico si trattava di 177 naufraghi in custodia delle autorità italiane, quasi totalmente provenienti dall’Eritrea, cioè da un Paese per il quale si prefigura l’accoglimento di eventuale richieste di protezione internazionale. Né l’autorità giudiziaria, né gli organi competenti antiterrorismo, né i servizi segreti che sono stati evocati hanno ravvisato un pericolo concreto di infiltrazione terroristica sulla Diciotti. Diciamo che le persone sono state tutte identificate già a bordo e i dati sono stati trasmessi dalla procura di Agrigento agli organi polizia e non è stato rilevato alcunché addirittura nella fase preliminare. Davvero si vuole giustificare il sequestro con questa motivazione? E allora perché i naufraghi, poco dopo lo sbarco, sono potuti fuggire? Abbiamo affidato a Paesi che si erano offerti per l’accoglienza dei probabili terroristi? Anche alla Conferenza episcopale italiana abbiamo dato dei terroristi?

Infine, le argomentazioni del relatore in merito alla valenza governativa del cosiddetto caso Diciotti sono in aperto contrasto con la memoria difensiva. Il presidente Gasparri ha spostato l’intera titolarità delle azioni e delle politiche del Governo sul presidente del Consiglio Conte, ma sappiamo che ogni Ministro è individualmente responsabile degli atti del proprio Dicastero.

Mi riprometto in sede di dichiarazione di voto di svolgere ulteriori argomentazioni. Tuttavia, il ministro Salvini non ha risposto a una domanda essenziale: quale preminente interesse pubblico non si sarebbe tutelato se i 177 naufraghi fossero sbarcati e avessero atteso, presso gli hotspot, la decisione degli altri Paesi dell’Unione europea circa la volontaria accoglienza dei migranti? Non abbiamo avuto risposta. Potevano stare a terra e non restare nella nave.

Diciamo che la legge 3 agosto 2007, n. 124, in tema di servizi segreti, ha stabilito che compiere azioni dirette a mettere in pericolo o a ledere la vita, l’integrità fisica e la libertà personale non è consentito nemmeno in nome del supremo interesse pubblico della sicurezza nazionale. Il crinale su cui ci si sta muovendo è dunque molto pericoloso.
Per questi motivi, il Ministro non si dovrebbe sottrarre al giudizio della magistratura (si badi bene: al giudizio, non alla condanna).

Caso Diciotti, la libertà personale è preminente su qualsiasi fine politico

Discorso del 19 marzo 2019 sull’autorizzazione a procedere nei confronti del Ministro Salvini sul “Caso Diciotti”

Onorevoli colleghi, il Tribunale dei Ministri di Catania ha ravvisato nei fatti del “Caso Diciotti” un’ipotesi di reato, e su quella chiede a quest’Aula se autorizzare o meno il procedimento penale nei confronti del Ministro Salvini. Le conclusioni della Relazione di maggioranza presentano, a mio avviso, errori di valutazione e costituiscono un precedente che – a vantaggio di tutti – è bene che non si crei.

Il delitto contestato è il sequestro di persona aggravato. L’articolo 605 del codice penale protegge, ai sensi degli articoli 2 e 13 della Costituzione, come diritto inviolabile della persona, la libertà personale, che non può sopportare alcuna restrizione se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria, e nei soli casi e modi previsti dalla legge. In particolare i giudici ritengono che il Ministro Salvini abbia commesso un sequestro di persona ai danni dei naufraghi della “Diciotti”, con l’ordine impartito verbalmente di non farli sbarcare, violando le normative internazionali e nazionali in materia di salvataggio in mare, più ampiamente citate nella mia relazione scritta: da tale quadro normativo emerge chiaramente l’obbligo dello Stato italiano di soccorrere le persone in pericolo in mare e di completare il coordinamento dell’evento con l’indicazione di un luogo sicuro, o di una località sulla terraferma dove le operazioni di soccorso si considerino concluse.

Nella sua relazione il Presidente Gasparri ha svolto, a sostegno del diniego di autorizzazione, delle argomentazioni del tutto infondate per giustificare il perseguimento di un preminente interesse pubblico.

Non vi erano nel “Caso Diciotti” i presupposti di alcuna controversia internazionale, e comunque un eventuale contenzioso fra l’Italia e Malta avrebbe dovuto essere trattato secondo le norme e le consuetudini, ad esempio, attraverso un arbitrato o la Corte internazionale di giustizia. Non risulta che l’Italia abbia intrapreso alcuna di queste iniziative.

In realtà, le autorità italiane chiedono ai Paesi membri dell’Unione europea di attuare una redistribuzione dei migranti a bordo della “Diciotti”. La relazione del Presidente Gasparri individua proprio questo come l’obiettivo perseguito dal Governo. Il tentativo di superare il Regolamento di Dublino a favore di politiche che prevedano logiche diverse di distribuzione a livello europeo dei migranti è condivisibile e legittimo; trattenere esseri umani a bordo di una nave italiana per fare pressione politica sull’Europa al fine di cambiare i regolamenti è invece del tutto illegittimo.

La prova dell’intento di strumentalizzare il”Caso Diciotti” è data dal fatto che i contatti iniziarono ancor prima che la nave fosse ormeggiata a Catania, sin dal 16 agosto, per ottenere in modo forzoso la “volontaria” redistribuzione, senza peraltro riuscirci. Solo il 25 agosto, quando si acquisisce la disponibilità dell’Albania, dell’Irlanda e della CEI, veniva data l’autorizzazione allo sbarco. Risulta quindi dagli atti, in maniera incontrovertibile, che l’ordine di non far sbarcare i naufraghi sia stato emesso per esercitare una pressione nei confronti degli altri Stati dell’Unione europea. Una forza di coazione morale che potrebbe arrivare a configurare il reato di sequestro di persona a scopo di coazione, previsto dall’articolo 289-ter del codice penale.

Diversamente dal Presidente Gasparri, che la qualifica come preminente interesse pubblico, il Ministro Salvini utilizza, nella sua memoria difensiva, proprio la tesi (già smentita) della controversia internazionale per giustificare la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante.

Come può farlo quando proprio attraverso il comportamento del Ministro si sono violati gli obblighi internazionali, che assumono un rango gerarchico superiore rispetto alla disciplina interna, ai sensi degli articoli 2, 10, 11 e 117 della Carta costituzionale?

Anche ammettendo la tesi della controversia, rimane il fatto che l’Italia era la titolare dell’evento SAR e doveva portare a compimento le operazioni proprio con l’indicazione del “posto sicuro” e il conseguente sbarco. Il diniego del rilascio del POS (e il conseguente divieto di sbarco) non si può configurare, pertanto, come atto politico in senso stretto, ma piuttosto come una omissione che interrompe una procedura amministrativa, posta in essere dal Ministro Salvini sulla scorta di valutazioni e finalità politiche. Il Ministro non avrebbe pertanto dovuto né potuto interferire nelle determinazioni del Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione, se non per gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica rientranti nelle sue funzioni. Eppure lo fece: senza alcun atto scritto, senza nessuna palese motivazione ed in assenza di qualsiasi emergenza di sicurezza nazionale o di infiltrazione terroristica.

Perché lo ha fatto e cosa lo ha spinto ad autorizzare lo sbarco solo il 25 agosto, dopo ben dieci giorni dal salvataggio? L’obiettivo, fallito miseramente, era sin dal principio quello di mostrare i muscoli in Europa per affermare la svolta politica in materia di gestione dei flussi migratori. I diritti fondamentali delle persone riconosciuti dall’ordinamento possono essere limitati, però, solo se lo impongano esigenze insopprimibili di rango costituzionale e non quale forma di strategia politica, per di più di medio-lungo termine.

Sulla natura ministeriale del reato il relatore Gasparri propone una tesi bizzarra e priva di precedenti giurisprudenziali che contrasta frontalmente con l’intero corpus normativo. Perché un reato possa qualificarsi come “ministeriale” devono verificarsi due circostanze: l’autore del reato nel momento in cui questo è commesso deve essere un membro del Governo; deve sussistere un rapporto di connessione tra la condotta che configura l’illecito e le funzioni esercitate dal Ministro. E’ quindi paradossale sostenere che la configurazione di ministerialità di un reato si arresti alle soglie della lesione dei diritti fondamentali quando il bene protetto dalla norma che si assume violata è proprio uno di quei diritti (la libertà personale).

Non si può giustificare che, per un fine politico, un membro del Governo possa privare qualcuno della propria libertà personale, o della libertà di circolazione, per un tempo apprezzabile anche se non in maniera irreversibile, senza affrontare un processo.

La tesi del relatore sembra motivata più da opportunismo dialettico-politico che da motivazioni giuridiche, alle quali il Senato deve invece rigorosamente attenersi. Spetta all’Aula, in difesa del principio della separazione dei poteri, valutare se la condotta del Ministro che in astratto configura reato (se lo sia in concreto è prerogativa del potere giudiziario deciderlo) sia giustificata da un interesse pubblico di rango costituzionale preminente, vale a dire prevalente su quello violato dalla condotta.
E questo non è il caso, perché si è dimostrato ampiamente che l’interesse alla sicurezza delle frontiere che si è inteso tutelare non entra affatto in gioco quando la scelta è se fare sbarcare da una nave militare italiana – territorio dello Stato – 177 disperati e non invece cannoneggiare l’invasore che stia sbarcando sulle nostre coste con carri armati e artiglierie.

I rischi connessi ad una erronea valutazione da parte del Senato sono altissimi.
Si sarebbero fatte le stesse valutazioni se il caso di specie non fosse relativo ad alcuni cittadini stranieri su una nave ma ad una scuola piena di studenti? Sottrarre il Ministro Salvini al giudizio della magistratura – “al giudizio”, non alla condanna – rischia di trasformarsi in un precedente pericolosissimo. Non sappiamo, non possiamo sapere, chi e per quale finalità in futuro utilizzerà questo precedente, che genera una sostanziale immunità, per giustificare azioni simili o addirittura peggiori.

La libertà personale, ribadisco, è un diritto inviolabile, e come tale preminente rispetto a qualsiasi fine politico.

Per questi motivi, qui solo accennati ma trattati ampiamente nella relazione, invito i colleghi senatori a concedere l’autorizzazione a procedere nei confronti del Ministro Salvini.

E se un ministro sequestrasse degli studenti? #MeglioDiNo

#MeglioDiNo: il video provocatorio e la relazione di minoranza sul caso Diciotti

Il “caso Diciotti” non è il “caso Salvini”, è molto di più. Il punto centrale non è il rapporto tra la Lega e i Cinque stelle – l’unico aspetto davvero approfondito in queste settimane – ma il principio della separazione dei poteri in una democrazia.

Non è importante capire dal voto quanto durerà il governo, ma quanto dureranno i principi fondamentali della nostra Costituzione. Per questo ho scritto una Relazione di minoranza, già depositata agli atti del Senato, che contraddice, punto per punto, quanto affermato dal ministro Salvini e dal relatore Gasparri.

Per far comprendere la gravità del caso ho deciso anche di darne la massima diffusione possibile attraverso una pubblicazione gratuita. Perché sia chiaro che il voto del 20 marzo prossimo avrà conseguenze che andranno ben oltre l’attuale maggioranza e l’attuale Legislatura. Creerà un precedente pericoloso.

Immaginate se un Ministro dell’Interno trattenesse in una scuola 177 ragazzi e ragazze per costringere le associazioni studentesche a interrompere delle pacifiche proteste contro una riforma dell’Istruzione.

Immaginate che si giustifichi dicendo: “Sto solo attuando un punto irrinunciabile del mio programma di Governo”. Immaginate che, dopo lunghe trattative, e solo dopo aver ottenuto dalle associazioni studentesche la rinuncia a qualunque rivendicazione, il ministro decida di liberare quei 177 studenti. Non sarebbe forse un sequestro di persona? Non sarebbe gravissimo?

La stessa cosa – con protagonisti diversi – è accaduta con il “caso Diciotti”.

Impedire il processo a Salvini autorizzerà in futuro un Ministro a utilizzare qualsiasi mezzo, anche il peggiore, per raggiungere il proprio fine politico – a costo della libertà personale, di quella di espressione o di pensiero di qualcuno di noi – senza temere conseguenze sul piano giudiziario.

Col diritto e coi diritti fondamentali non si scherza: non possono le convenienze politiche del momento, magari nascoste dietro il voto di una manciata di sostenitori attraverso una piattaforma web privata, piegare la cultura giuridica e la tutela della Costituzione ad interessi di parte.

Nessuno si stupisca se, da cittadino, mi auguro che il ministro dell’Interno della Repubblica Italiana sia ritenuto innocente rispetto al reato a lui contestato. Da senatore, però, ritengo di fondamentale importanza che a stabilirlo sia la magistratura, e che l’Aula del Senato ribadisca il sacro principio della separazione dei poteri.

Il 20 marzo il Senato vota sull’autorizzazione a procedere nei confronti del Ministro Salvini. Vogliamo davvero creare un precedente così pericoloso? #MeglioDiNo

La relazione di Pietro Grasso è disponibile in forma gratuita su www.MeglioDiNo.it

Legittima difesa: Fedriga (Lega) smentisce Salvini

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Durante la trasmissione TV “Uno Mattina”, andata in onda su Rai1 il 27 febbraio 2019, il Governatore leghista del Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga ha smentito il Ministro dell’Interno Matteo Salvini, dichiarando che la legittima difesa non c’entra nulla con il caso Peveri.

Il riferimento è al caso dell’imprenditore Angelo Peveri, condannato a 4 anni e 6 mesi per tentato omicidio per aver raggiunto nel cantiere (distante da casa), malmenato, costretto a inginocchiarsi e poi sparato ad uno dei ladri. Il Ministro Salvini lo ha preso come caso simbolo della riforma della legittima difesa. Gli ha portato il suo sostegno in carcere, annunciando addirittura di chiedere la grazia del Presidente della Repubblica. Ma in quella vicenda la legittima difesa non c’entra nulla, e non c’entrerebbe nemmeno con la nuova legge, come ha dichiarato il Presidente Fedriga.

Quella di Salvini sulla legittima difesa continua a essere solo becera propaganda. Il Ministro strumentalizza ogni fatto di cronaca per convincere gli italiani ad armarsi.

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