Liberazione, recuperare il sentimento di solidarietà e speranza dei partigiani

Intervento alla Camera dei Deputatai per le celebrazioni del 70° anniversario della Liberazione

Signor Presidente della Repubblica, Signora Presidente della Camera, Onorevoli colleghi, Cari rappresentanti delle associazioni combattentistiche e partigiane,  Cari ragazzi,

è con grande commozione che prendo parte alla celebrazione a Camere riunite del 70esimo anniversario della Liberazione dall’occupazione nazifascita. Desidero innanzitutto ringraziare gli autorevoli relatori che mi hanno preceduto, a partire da Michela Ponzani che ci ha aiutato a inquadrare sotto un profilo storico la complessità dei mesi che vanno dall’armistizio alla Liberazione e ricordato alcuni episodi dolorosi, ferite mai rimarginate, come la strage di Marzabotto o quella di Sant’Anna di Stazzema. Il 25 aprile è, senza dubbio, una data dal profondo significato per il nostro Paese: in quel giorno di settanta anni fa terminava infatti una delle vicende più buie della nostra storia – la dittatura, la guerra, l’occupazione straniera – e iniziava una delle più luminose, il rifiuto di ogni tirannide, la nascita della nostra democrazia, l’affermazione dello Stato di diritto.

Nel rievocare l’epopea della Resistenza non si deve cedere però alla tentazione di considerare il 25 aprile come uno stanco rituale ripetuto di anno in anno, né tanto meno ci si può limitare ad un mero esercizio retorico. E’ fondamentale andare al cuore di quella esperienza: celebrare la Liberazione significa, innanzitutto, interrogarci sul nostro presente, sulle sfide che si pongono davanti a noi come comunità nazionale, sulla nostra capacità di realizzare, tanto individualmente quanto collettivamente, i valori e le promesse che il movimento della Resistenza ci ha lasciato.

Permettetemi di ringraziare Marisa Rodano e Michele Montagano, due preziosi testimoni del nostro passato. Marisa scelse di diventare partigiana e fu protagonista di quei mesi: nel suo intervento ha messo in luce il fondamentale ruolo delle donne nel percorso che ci ha condotto alla liberazione, un apporto troppo spesso sottovalutato nella storiografia e nel dibattito pubblico. Mi ha colpito e commosso poi la forza dei “NO” di Michele e la dignità che ha saputo mantenere intatta nei lunghissimi e dolorosi mesi di prigionia. Ai ragazzi che sono oggi qui in Aula voglio dire che, e lo potete constatare con i vostri occhi, la Resistenza è molto di più di un capitolo del vostro manuale di storia: è vita vissuta sulla pelle di persone semplici ma coraggiose come loro che, ancorché giovanissimi, scelsero di stare dalla parte giusta, a costo di pagare a caro, carissimo prezzo quella decisione.

Per meglio riflettere sul significato di questa giornata ho voluto rileggere alcune delle “lettere di condannati a morte della Resistenza italiana”, un testo che ognuno di noi dovrebbe aver presente perché ci ricorda, con la semplicità e la chiarezza di cui è capace solo chi sceglie il proprio destino, quanto coraggio, quanta umiltà e quanto orgoglio sia servito per sfidare il nemico e affrontare, nell’ora più triste, la condanna a morte. In quelle pagine, così dense di emozioni, ho trovato il senso più profondo della loro scelta. A Via Tasso, Sabato Martelli Castaldi incise sul muro della sua cella un ultimo messaggio prima di morire: “Quando il tuo corpo non sarà più, il tuo spirito sarà ancora più vivo nel ricordo di chi resta – fa che possa essere sempre di esempio”. Achille Barilatti aveva 22 anni quando, poche ore prima di essere fucilato, scrisse a sua madre: “Muoio per la mia idea. Non vergognarti di tuo figlio, ma sii fiera di lui. Non piangere Mamma, il sangue non si verserà invano e l’Italia sarà di nuovo grande. Viva l’Italia libera!”. Domenico Caporossi  ne aveva solo 17, scrisse: “Vado a morire, ma da partigiano, col sorriso sulle labbra e una fede nel cuore”.

Con quel sorriso e il cuore colmo di speranza posero la libertà e la dignità umana come principi supremi dell’esistenza, mostrando di amare la loro patria sopra ogni altra cosa, sognando un’Italia migliore e battendosi per realizzarla. Il 25 aprile del 1945 fu dunque il risultato più felice dell’unione d’intenti di quelle donne e uomini, divisi da idee politiche e appartenenze divergenti eppure uniti da altissimi ideali comuni e animati da una medesima spinta morale. Da qualunque angolazione storica o critica si voglia guardare alla Resistenza non si può non riconoscere il segno distintivo di un’utopia alimentata da un profondissimo senso del dovere e dall’ambizione di non cedere, appunto di resistere, alla violenza e alla negazione della dignità umana.

Pochi mesi più tardi la fine del secondo conflitto mondiale, che ci restituì un Paese ferito e provato, i “padri costituenti”, pur venendo da tradizioni culturali diversissime e sostenendo idee politiche molto spesso antitetiche, riuscirono nel difficilissimo compito di scrivere le regole fondamentali della neonata Repubblica: erano avversari ma seppero unirsi nel comune obiettivo di definire “una formula di convivenza” in grado di dar vita a quel processo in continuo svolgimento che è proprio l’esercizio della democrazia. Lo storico Pietro Scoppola scrisse in un suo volume pubblicato proprio in occasione del 50′ anniversario della Liberazione che “se la democrazia non indica un ideale capace di coinvolgere i cittadini e di suscitarne il consenso, non esiste affatto”.

I costituenti furono capaci di vincere questa sfida, proprio a partire dal comune denominatore di quello “scatto di orgoglio” che aveva accomunato le varie anime della Resistenza:  diedero vita ad un sistema di principi, di idee, di comportamenti, in grado di tendere alla realizzazione della persona, della dignità dell’uomo, dei diritti umani. Sono profondamente d’accordo con il Professor Smuraglia quando ha detto che “la liberazione e la resistenza devono inserirsi a pieno titolo e per sempre nella coscienza civile del nostro Paese”. Bisogna ripartire da lì, oggi più che mai: è fondamentale celebrare il 25 aprile e rievocare le storie di chi ha combattuto per offrirci la possibilità di realizzare quelle promesse di libertà e uguaglianza.

Mi avvio alla conclusione prendendo a prestito le parole che padre David Maria Turoldo, partigiano e poeta, rivolse molti anni fa ad alcuni studenti in occasione del 40’esimo anniversario della Liberazione: “la Resistenza non è finita; è stata frutto di pochi precursori, che avevano seminato durante il ventennio, ma è stata anche una più vasta semente per l’avvenire. E non dobbiamo scoraggiarci”.

La cronaca di questi anni, gli scandali della corruzione, la crisi economica che ha attanagliato il Paese e che ancora morde le fasce più deboli della nostra società, hanno innegabilmente alimentato e diffuso una sensazione di scoramento e rinuncia, di allontanamento da quelle Istituzioni repubblicane nate sul sangue e sul sacrificio di tante e tanti partigiani. Se vogliamo poter guardare negli occhi Marisa e Michele senza dover abbassare lo sguardo, queste stesse istituzioni le dobbiamo amare e difendere, dobbiamo unirci, farci forza a vicenda, recuperare quel sentimento di solidarietà e speranza che ha animato i partigiani, e, “col sorriso sulle labbra e una fede nel cuore” lavorare, ciascuno per il proprio ruolo e con le proprie responsabilità, a migliorare questo nostro grande Paese.

W la resistenza! W l’Italia.

Liberazione. Non smettiamo mai di tenere di vista la libertà

Intervento al convegno “Scegliere nel tempo del furore. Azionismo e lotta armata al nazifascismo”

Gentili ospiti, Signore e Signori,

è con viva soddisfazione che oggi inauguro il convegno “Scegliere nel tempo del furore. Azionismo e lotta armata al nazifascismo”  promosso, in occasione del 70° anniversario della Liberazione, dall’Archivio storico del Senato, dall’Istoreto e dalla vasta rete delle istituzioni e dei soggetti dei Cantieri del giellismo e dell’azionismo. Vorrei innanzitutto ringraziare il caro collega Sergio Zavoli, Presidente della Commissione per la Biblioteca e l’Archivio storico, che non è potuto essere qui oggi e che ha reso possibile la realizzazione di questa come di tante altre importanti iniziative qui in Senato. Con una coerenza indiscutibile per tutta la vita il sen. Zavoli ha lavorato affinché il nostro Paese fosse più cosciente della sua storia, del suo passato e del suo presente.

Questo convegno conferma inoltre la vocazione dell’Archivio storico ad essere, insieme ad autorevoli protagonisti del mondo della cultura, parte attiva di iniziative volte a tener viva e trasmettere quella ‘memoria costituzionale’ che ha come contenuto il valore fondamentale che la Costituzione assegna al rapporto tra libertà, autonomia e responsabilità e a quello tra democrazia e impegno civico. A questa ‘memoria costituzionale’ appartiene anche il contributo che gli azionisti diedero alla lotta di Liberazione, un contributo di vite e di ideali del quale l’Archivio storico del Senato custodisce importanti tracce e che rimanda, con significati di grandissima attualità, al nesso essenziale tra azione politica e rigore morale, tra democrazia e legalità. Qui vorrei ricordare, come figura in qualche modo riassuntiva, Giorgio Agosti, prima coraggioso comandante partigiano e poi ammirato questore di Torino dalla Liberazione al 1948.

L’8 settembre 1943, con la morte della “patria fascista”, la fuga del re e il crollo dell’apparato burocratico e militare dello Stato italiano, si aprì un periodo di grandi sofferenze e tragedie. Il periodo dell’occupazione nazifascista con la sua violenza, la sua oppressione, le sue stragi, le sue deportazioni, che si concluderà solo nella primavera del 1945 con la Liberazione.  In questo “tempo del furore” ogni italiano si trovò a dover scegliere della propria vita e anche di quella degli altri. Tanti scelsero di rischiare la vita per schierarsi dalla parte della libertà e della dignità dell’uomo e lo fecero da deportati,  scioperando nelle fabbriche, aiutando i prigionieri alleati, i disertori e i renitenti italiani, gli ebrei, i partigiani. Tanti scelsero di combattere per la libertà e per la dignità dell’uomo e vissero quella loro scelta come una necessità morale, come una decisione tragica imposta dall’eccezionalità del momento. Come ha scritto Norberto Bobbio: “è dall’incrociarsi e il sommarsi di queste scelte, di queste Resistenze, che deriva il carattere di riscossa spontanea e popolare della Resistenza italiana”.

Una delle relazioni del convegno di oggi si intitola “Da intellettuali a banditi”; un titolo che ci dà il senso della radicalità e della tragicità della scelta di prendere le armi per la libertà, in un momento storico in cui ad essere in gioco non era soltanto questo o quel modello di società o di Stato, ma l’essenza stessa dell’essere umano.

Un titolo che fa pensare subito a Pietro Chiodi, uno dei maggiori filosofi italiani, nel tempo del furore comandante partigiano nell’Albese con il nome di Valerio e autore di un bellissimo libro intitolato appunto “Banditi”. Chiodi è stato consegnato alla storia letteraria da Fenoglio, nel Partigiano Johnny, come il professor Monti che si rivolge ai partigiani di Alba con una breve frase che da sola dice il senso della sua scelta: “Ragazzi, teniamo di vista la libertà”.Proprio Chiodi nel 1952 scriveva: “L’orgoglio non è una virtù. Non si dovrebbe mai essere orgogliosi. Tanto meno poi di aver fatto qualcosa, come il partigiano, che mirava proprio a ricostituire l’uguaglianza morale fra gli uomini. Ma, alle volte, dentro di me, mi succede di sentirmi pieno di un infinito orgoglio e sempre solo per una sola cosa: d’aver fatto il partigiano. Soprattutto sono orgoglioso di aver fatto il partigiano quando qualcuno mi dice che non dovrei esserne orgoglioso: perché penso che sono io che, combattendo per la libertà, gli ho conferito il diritto di dirmelo”.

L’orgoglio di scegliere la libertà e di battersi per la libertà è uno dei valori fondamentali del patriottismo costituzionale repubblicano. Un orgoglio che occorre tener vivo e trasmettere alle giovani generazioni perché ci insegna anche che la lotta contro le sopraffazioni in senso lato che affannano il nostro quotidiano – penso alla criminalità organizzata, all’illegalità diffusa – possono essere combattute solo con un movimento di popolo che nasca dalle coscienze  e dalle scelte di ognuno di noi. Quei valori che inspirarono e animarono coloro che scelsero di rischiare la propria vita per combattere per la libertà costituiscono i principi fondanti della nostra Carta costituzionale e sono alla base delle nostra convivenza democratica.

Non smettiamo mai, lo dico soprattutto ai più giovani, di tenere di vista la libertà.

Grazie e buon lavoro.

Sempre attuale l’esempio politico e istituzionale di Saragat

“Giuseppe Saragat è stato un protagonista della vita politica e istituzionale del nostro Paese. Riformista, atlantista e fondatore della dottrina socialdemocratica italiana, fu assertore convinto degli inscindibili  ideali  di libertà e giustizia sociale e punto di riferimento fondamentale  per la costruzione e lo sviluppo dello Stato democratico”.

E’ quanto  si legge nel messaggio che il Presidente del Senato, Pietro Grasso, ha  inviato  al  Presidente  della  Fondazione  Giacomo  Matteotti,  Angelo Sabatini,  in  occasione del convegno che si è tenuto oggi in Sala Zuccari, organizzato  dalla  stessa Fondazione per ricordare Saragat a 50 anni dalla sua elezione a Capo dello Stato. “Di straordinaria attualità – aggiunge il Presidente Grasso – è ancora oggi la  sua visione dell’Europa, illustrata nel suo discorso di insediamento al Parlamento  in  seduta  comune:  ‘La  costruzione di un’Europa democratica, economicamente e politicamente integrata, è un potente fattore di pace'”.

“Egli  interpretò  in  modo  rigoroso  e  sensibile il ruolo della più alta magistratura della  Repubblica e caratterizzò il settennato per la difesa dei valori dell’antifascismo e della Resistenza, ma soprattutto – conclude il  messaggio  del  Presidente del Senato – per lo sforzo di consolidamento delle  istituzioni  democratiche,  attraverso  l’allargamento della base di consenso  in  Parlamento  e  nel  Paese,  e  la salvaguardia della funzione parlamentare,  che definì “salvaguardia della democrazia e condizione prima per lo sviluppo della giustizia sociale'”.

 

Memoria. Iitinerario fotografico nel Novecento goriziano

Presidente Zavoli, Presidente Marini, senatrice Fasiolo, gentili ospiti,

sono particolarmente lieto di poter ospitare in Senato questa significativa mostra fotografica intitolata “Il secolo lungo. Un itinerario fotografico nel Novecento goriziano”. Si tratta di un titolo evocativo, quanto mai appropriato – un po’ in antitesi alla ormai celebre qualificazione di “secolo breve”  che una parte della storiografia ha attribuito al XX secolo – per descrivere quel Novecento goriziano così denso di eventi, così sofferto, ma anche così intensamente vissuto. La mostra ripercorre cento anni di storia cercando di darne – credo con successo – una lettura senza pregiudizi, con equilibrio tra le diverse sensibilità che in passato si sono contrapposte animatamente, spesso violentemente. Gorizia e Nova Gorica, una in Italia e l’altra in Slovenia, con il loro territorio circostante, sono così pregne di storia da costituire un unicum per i due Paesi e per la stessa Europa. Le immagini qui esposte ci mostrano l’inizio del secolo, l’Imperatore Francesco Giuseppe nel 1900 in Piazza Grande, scene di vita quotidiana, le fiere, i commerci, una città fiorente. Ci sono poi le immagini terribili della prima guerra mondiale, le macerie, le rovine lasciate dal passaggio dei contrapposti eserciti, i prigionieri italiani dopo Caporetto e l’ingresso dei bersaglieri in bicicletta alla fine delle ostilità.

Dopo l’annessione al Regno d’Italia si progetta la ricostruzione di una città distrutta. Seguono gli anni del fascismo, dell’italianizzazione forzata della comunità slovena e poi, di nuovo, la catastrofe della seconda guerra mondiale con nuovi orrori e distruzioni. Nell’inverno del 1943 l’intera comunità ebraica goriziana è deportata ad Auschwitz. Poi, nel maggio del 1945 vi è l’occupazione dell’esercito jugoslavo e inizia il tragico periodo delle foibe. Le immagini della mostra ci ricordano quegli orrori. A tal proposito, voglio ricordare – come ho fatto spesso in passato e come continuerò a fare in futuro – che è nostro dovere come Istituzioni, ma prima ancora come cittadini e come uomini, quello di coltivare la memoria per capire il presente, per costruire il futuro, un futuro senza violenza, razzismo, odio, intolleranza. È quel che chiamo “il dovere della memoria”: un lavoro quotidiano che non dobbiamo mai tralasciare. Spesso è faticoso, richiede pazienza e dedizione, ma è doveroso nei confronti di chi ci ha preceduto ed essenziale per il futuro delle nuove generazioni.

Ci sono poi le fotografie degli anni più recenti: la divisione della città, la costruzione di Nova Gorica, le manifestazioni in piazza e la partecipazione alla vita politica. Seguiranno gli accordi di Udine del 1955 e di Osimo del 1975. Gorizia assumerà l’importante ruolo di apripista nel dialogo transfrontaliero e di città-ponte per superare le barriere del confine. La storia degli ultimi decenni ha senz’altro contribuito, con l’avanzare del processo di integrazione europea, a ricucire le ferite e a spegnere gli odi nazionali, anche nel quadrante orientale. La Slovenia e la Croazia sono entrate a far parte dell’Unione europea e le nuove generazioni slovene, croate e italiane si riconoscono in una comune appartenenza che arricchisce le rispettive identità nazionali.

L’augurio è che l’Europa unita, libera dalle contrapposizioni etniche e ideologiche, possa essere la patria dove tutti possano riconoscersi come parte di un’unica comunità, condividendo con serenità storia e cultura e respingendo con decisione e convinzione il male del proprio passato, per costruire una memoria condivisa e un futuro per i nostri giovani, nel quale regni il rispetto assoluto della dignità umana e dove la violenza e l’odio siano solo un doloroso ricordo.

Grazie.

Relazione Commissione su intimidazioni amministratori local. Non lasciamoli soli

Autorità, Gentili ospiti, cari colleghi,

Sono molto lieto di intervenire alla presentazione della Relazione conclusiva della Commissione di inchiesta istituita presso il Senato sul fenomeno delle intimidazioni nei confronti degli amministratori locali. Voglio per prima cosa congratularmi sinceramente con la Presidente Lo Moro, che ha guidato con passione e competenza i lavori, con i senatori componenti la Commissione e tutti coloro, dipendenti del Senato e consulenti esterni (tengo a dirlo, del tutto a titolo gratuito), che vi hanno collaborato. Personalmente ho sempre creduto che sviluppare la funzione di controllo e garanzia del Parlamento, che si esprime anche nel potere di inchiesta parlamentare, sia una delle più interessanti prospettive evolutive del nostro sistema parlamentare, perché consente di approfondire la conoscenza di fenomeni di speciale complessità e trasversalità, come necessario presupposto per l’adozione di adeguata legislazione e per il controllo democratico dell’esecutivo. Per quanto riguarda questa specifica esperienza, a giudicare dalla relazione credo che l’Aula abbia fatto una scelta quanto mai opportuna perché ne emerge un quadro di grande interesse e per molti versi sorprendente su un fenomeno finora mai studiato in modo organico e profondo.

La relazione conclusiva, molto ampia e ben documentata, mette in luce tre aspetti principali. Il primo riguarda l’estensione del fenomeno, che è davvero inaspettata, sotto il profilo della distribuzione territoriale degli episodi di intimidazione e violenza, della loro qualità e intensità, e sotto quello della loro dimensione numerica. Il fenomeno ha indubbiamente portata nazionale, anche se si concentra maggiormente nelle regioni del Mezzogiorno (Sicilia, Calabria, Campania e Puglia), inoltre in Sardegna e in Lombardia. Il dato numerico è di per se significativo: sono 1265 (870 nel 2013 e 395 nel primo quadrimestre del 2014, con una forte crescita) gli atti di intimidazione considerati, rivolti soprattutto nei confronti di sindaci (per il 45%), e di componenti di giunte e di consigli comunali (per il 40% insieme). Dal 1991 sono 254 i decreti di scioglimento di consigli comunali per infiltrazioni mafiose, 81 dei quali riportano episodi di intimidazione e di omicidio. Sono 132 gli omicidi in quarant’anni e 70 i casi di dimissioni che si è accertato essere dovute a intimidazioni, laddove molti altri non sono chiaramente collegabili a violenze e minacce, anche a causa della scarsa collaborazione delle vittime con le autorità giudiziaria e di polizia.

Il secondo profilo di interesse riguarda la natura polimorfica e complessa del fenomeno, per quanto attiene sia alle modalità degli episodi, sia alle motivazioni e ai contesti nei quali i fatti maturano. Mi sembra interessante notare che la riconducibilità alla criminalità organizzata, che spesso sfocia in dimissioni o in collusione ed è collegata allo scioglimento degli enti locali per infiltrazioni mafiose, pur se rilevante, è lungi dall’esaurire lo spettro della fenomenologia intimidatoria (il 13,7% dei casi nei quali una matrice è indicata). Fra le altre motivazioni, incide in misura molto ridotta la matrice politico-eversiva, mentre hanno peso sempre crescente gli episodi connessi all’assegnazione di appalti, all’approvazione di piani regolatori, a clientele, all’esasperazione della competizione politica, al disagio sociale dei cittadini, alle proteste per il diritto alla casa.

Infine, è interessante la definizione che adotta la relazione: un’altra storia, una storia poco conosciuta di amministratori locali uccisi, feriti, intimiditi, costretti ad arrendersi e a fuggire dalle proprie responsabilità. E credo che proprio questo sia il merito principale della Commissione, avere ricostruito non una mera sommatoria di episodi eterogenei e slegati l’uno dall’altro, ma un fenomeno, o meglio un complesso di fenomeni, che non sono solo criminali ma che rivelano più ampie tendenze sociali e che sono accomunati dal determinare un grave vulnus per la vita democratica del Paese. In questo senso ho trovato molto pertinenti le proposte della Commissione per “rompere la solitudine degli amministratori locali”, attraverso misure organizzative, anche di monitoraggio; iniziative di carattere culturale e informativo; revisione delle procedure di demolizione dei manufatti edilizi abusivi; riforma della disciplina degli appalti; perseguimento di maggiore trasparenza delle procedure di assegnazione di sussidi; rafforzamento dei controlli preventivi sull’attività amministrativa; modifiche penali.

Provando adesso ad allargare la visuale a me sembra che la relazione sia uno stimolo per spingere la politica ad interrogarsi di più, e meglio, su una serie di temi: il valore del governo locale nel nostro sistema costituzionale e amministrativo e la tutela degli amministratori locali; il forte disagio dei cittadini di fronte all’inefficienza amministrativa; l’evoluzione dei fenomeni mafiosi e criminali, che coinvolge spesso la politica e le istituzioni locali. A quest’ultimo proposito, ritengo molto preoccupante quanto messo in luce da recenti indagini nel centro-nord Italia (Expo, Mose, “Mafia Capitale”, Ischia) e cioè il consolidamento di un’area che coinvolge, insieme a mafiosi e criminali, politici, imprenditori, professionisti e amministratori pubblici, spesso locali. Una nuova forma criminale caratterizzata dalla saldatura fra mondi diversi (criminale, sociale, politico, economico) che è garantita dalla corruttela, dal perseguimento del profitto ingiusto come unica morale, dalla generale caduta etica del Paese, che riguarda anche la politica locale. Questa è la ragione che mi ha spinto a impegnarmi tanto sulla criminalità economica e la corruzione e che, ritengo, dovrebbe spingere i partiti e le istituzioni ad una scelta di campo inequivocabile. Dobbiamo assicurarci che nelle reti di relazioni tra il mondo criminale e gli amministratori pubblici l’intimidazione, la violenza non lascino, come spesso avviene, il posto alla convenienza, alla collusione, alla corruzione, al favoritismo, alla fusione e coincidenza di interessi comuni lontani dalle esigenze dei cittadini. Come si evidenzia anche nella relazione, gli amministratori locali minacciati dalla criminalità hanno tre scelte: dimettersi; abbassare la testa, entrando nella rete illecita; oppure, come sono certo fa la stragrande maggioranza degli amministratori locali onesti, restare al proprio posto difendendo la dignità della funzione e l’interesse degli amministrati. Tutelando gli amministratori anche sotto il profilo dell’incolumità personale e patrimoniale, noi possiamo fare in modo che aumenti sempre più quest’ultima categoria. Credo poi che molte misure che la relazione propone potrebbero avere effetti tangibili ma penso anche che sia urgente intervenire sulla profonda crisi di fiducia fra i cittadini e la politica, restituendo a tutte le amministrazioni pubbliche, locali e centrali, la credibilità e l’efficienza che sono alla base dell’autorevolezza e del rispetto da parte dei cittadini.

Concludo con l’auspicio che le forze politiche facciano buon uso del lavoro della Commissione e delle proposte che ha presentato, tenendo a mente che il governo locale è la chiave di ogni democrazia perché è il volto con cui lo Stato si presenta ai cittadini per risolvere i piccoli e grandi problemi della vita quotidiana. Investire nell’amministrazione locale, anche tutelando gli amministratori nel loro difficile lavoro, è il modo migliore per fare ripartire il Paese mettendo davvero al centro l’interesse generale, la persona umana e i bisogni dei più deboli, dei giovani, degli ultimi. Grazie.

 

Non piu bulli e cyberbulli per una scuola attiva e accogliente

Cari colleghi, gentili ospiti,

è per me un grande piacere e un onore ospitare nella Sala Zuccari del Senato questo momento di confronto su un tema di grande interesse e di fortissima attualità quale è il cyberbullismo. Permettetemi di ringraziare i colleghi Luigi Manconi, Riccardo Mazzoni e Elena Ferrara per il loro contributo all’incontro di oggi, per la l’azione legislativa di cui sono promotori – con due disegni di legge in materia – e per il costante e intenso impegno che dedicano a questo tema nell’ambito della loro attività nella Commissione Straordinaria diritti umani. Un ulteriore ringraziamento a tutti i relatori che oggi ci illustreranno alcuni progetti di eccellenza e validi contributi ad una comune riflessione sul fenomeno e sugli strumenti per combatterlo in maniera sempre più efficace e incisiva. Un ringraziamento particolare, infine, al ministro Stefania Giannini, che in chiusura dell’incontro presenterà le nuove linee di orientamento del Ministero dell’Istruzione contro il bullismo e il cyberbullismo.

Questo incontro nasce dall’esigenza di far fronte, quanto prima, ad un fenomeno in continuo crescendo, il cyberbullismo appunto, ovvero quell’insieme di azioni aggressive e diffamatorie attuate attraverso l’uso distorto della tecnologia a danno di un coetaneo, che subisce nel tempo una pressione psicologica così forte da poter determinare, nei casi più gravi, conseguenze terribili, come recenti e tristi fatti di cronaca hanno dimostrato. Il cyberbullismo, rispetto al bullismo tradizionale, trova la sua forza nel fatto che l’autore spesso, dimostrando il coraggio che lo contraddistingue, è anonimo: tale anonimato permette di agire al coperto e, a causa dell’invisibilità e della distanza della vittima, le inibizioni sono minori rispetto a quando autore e vittima si trovano uno di fronte all’altro. Altro punto che ne aumenta la gravità rispetto al bullismo tradizionale è la pervasività nella vita della vittima: se prima le offese e le umiliazioni erano comunque gravi ma circoscritte in uno spazio della vita dei soggetti – la classe, la squadra, il gruppo – ora infrangono ogni confine e barriera, con una esposizione potenzialmente continua e decisamente invasiva di ogni ambito e di ogni momento. Non c’è scampo per la vittima, non c’è rifugio, non c’è pace.

Io sono un convinto estimatore e sostenitore della rete, dei social network, dei forum, dei servizi di messaggistica: sono luoghi di scambio, di socializzazione, di incontro, di scoperta e di informazione formidabili, offrono stimoli e conoscenze impensabili per la mia generazione, mettono a disposizione di ciascuno l’accesso alla conoscenza e al confronto. Come tutti i mezzi, però, possono essere usati in modo distorto e diventare un incubo per chi è considerato debole, diverso, per chi è discriminato per uno dei tanti pregiudizi dettati dall’ignoranza. Il dilagare repentino di questo fenomeno richiede certamente un intervento normativo che possa tutelare il minore, soprattutto in via preventiva, ma non basta. Affinché l’applicazione della norma non rimanga lettera morta bisogna agire, giorno dopo giorno, comunicando con i giovani, con le loro famiglie e con la scuola, per questo credo nell’utilità degli strumenti e delle linee di orientamento rivolte agli studenti, alle famiglie e ai docenti.

Due sono gli imperativi per contrastare questi fenomeni: il dialogo e la responsabilità.

Il dialogo perché, in situazioni difficili, spesso la reazione è quella di chiudersi in un silenzio di vergogna e di paura, di isolarsi e di non riuscire più a mettere nella giusta prospettiva il peso delle situazioni e lasciarsi sopraffare dagli eventi. Dialogo che serve senza dubbio con le vittime ma anche con i bulli, spesso mossi da superficialità e nemmeno consci di quanto di negativo può scaturire dal loro comportamento.

L‘educazione alla responsabilità, invece, perché dobbiamo tutti entrare nell’ordine di idee che siamo cittadini e persone che si rivolgono ad altre persone, con le proprie specificità e le proprie fragilità, anche quando pubblichiamo un post, un commento, un tweet o inviamo un messaggio in un gruppo: vista l’importanza che tutti riconosciamo alla rete possiamo concordare sul fatto che della rete si faccia un uso pienamente consapevole.

Sono convinto che con un’azione ad ampio spettro che coinvolga i giovani e, contemporaneamente, le famiglie, le scuole e le Istituzioni su queste basi, si possa educare ad un uso consapevole della rete: senza frenare l’entusiasmo per il progresso e la tecnologia ma insegnando ai giovani anche ad individuarne i pericoli ed eventualmente a denunciarli agli adulti. Occorre quindi anche informare e formare le famiglie affinchè possano imparare a riconoscere i comportamenti di un ragazzo che è vittima di tali atteggiamenti persecutori, con l’aiuto di interlocutori competenti in grado di operare a favore della vittima. Spetta poi alle scuole implementare quanto troveranno nelle linee di orientamento che saranno presentate fra poco. Credo infine che la prima esigenza sia quella dell’ascolto. Dobbiamo ascoltare di più i nostri figli, dobbiamo parlarci di più, dedicare loro più tempo. Costruire una società che tenga più in conto le loro aspettative e le loro opinioni significa lavorare per un Paese che sia più aperto al futuro.

Assicurare i diritti fondamentali dei minori, accompagnare la loro crescita, garantire loro ogni protezione da abusi e pericoli costituiscono doveri inderogabili di un Paese civile e democratico e insieme – Parlamento, Ministero, docenti, famiglie, studentesse e studenti – possiamo farcela.

Grazie.



Tribunale di Milano. Cordoglio per i familiari delle vittime

“Seguiamo tutti con grande apprensione le notizie in arrivo da Milano per i fatti  gravissimi  accaduti  nel  Palazzo  di  Giustizia. Fatti che destano enorme  sconcerto. Sarà il Governo  ad informare il Senato non appena il quadro sarà più chiaro e sarà stata approfondita la dinamica dell’accaduto. Desidero esprimere ai familiari delle vittime,  in questi momenti drammatici,  il  più sentito cordoglio da parte mia personale e dell’intera Assemblea che,  nella  seduta  antimeridiana,  ha  osservato  un minuto di silenzio.  Invio  infine la mia più forte solidarietà a tutti gli operatori della  giustizia  del capoluogo lombardo, alle forze dell’ordine e a quanti sono stati impegnati nei soccorsi”. Così il Presidente del Senato, Pietro Grasso, sui fatti del Tribunale di Milano.

Cordoglio per la scomparsa Giovanni Berlinguer

“Giovanni Berlinguer ha portato in politica e nelle aule parlamentari il rigore etico dell’uomo di scienza. Seppe coniugare una intensa carriera politica – fu dirigente di partito, senatore nella IX e X Legislatura, deputato e parlamentare europeo – ad una importante vita accademica che gli fruttò diversi riconoscimenti”. Così il Presidente del Senato, Pietro Grasso, ricorda l’ex parlamentare e docente universitario scomparso nella notte a Roma. “Uomo di grande dignità, lascia in chi lo ha conosciuto un sentimento di profonda ammirazione, soprattutto per l’impegno, mai venuto meno negli anni,  a portare nel dibattito politico la serietà, la tensione ideale e le conoscenze che gli venivano dall’approfondita frequentazione del mondo degli studi. A nome mio personale e dell’intera Assemblea del Senato – conclude il Presidente Grasso – invio ai familiari i sentimenti del più profondo cordoglio”.

 

 

Giornata dell’autismo: luce blu sulla facciata di Palazzo Madama

Il  Senato  della  Repubblica  aderisce  all’iniziativa  internazionale  in occasione della “Giornata mondiale della consapevolezza dell’autismo”. Oggi a partire dalle ore 21.15 e fino all’alba, la facciata di Palazzo Madama sarà  illuminata da una luce blu, analogamente a quanto avviene per molti altri palazzi e monumenti, in Italia e all’estero.

“Quest’anno il Senato arriva alla Giornata mondiale – ricorda il Presidente del  Senato,  Pietro  Grasso  –  avendo  al  proprio  attivo  un importante risultato raggiunto   proprio   due   settimane  fa,  il  18  marzo,  con l’approvazione in Commissione Sanità – riunita in sede deliberante e quindi con  i poteri legislativi dell’Assemblea – del disegno di legge che prevede ‘interventi   finalizzati a garantire la  tutela della salute,  il miglioramento  delle  condizioni di vita e l’inserimento nella vita sociale delle  persone  con  disturbi  dello  spettro  autistico’.  Un passo avanti concreto  – aggiunge il Presidente Grasso  – soprattutto nella direzione di quella  ‘consapevolezza’  auspicata  fin  dal  2007 dalle Nazioni Unite con l’istituzione  della  Giornata  mondiale.  Il voto unanime della dodicesima Commissione  è  qualcosa  di  più  di  una  semplice solidarietà alle tante famiglie  che  si confrontano quotidianamente con l’autismo. E proprio alle famiglie  va  innanzitutto  il nostro pensiero, con l’auspicio che le nuove norme,  a conclusione dell’iter parlamentare, si traducano presto in realtà e sostegni concreti”.

 

Ospedali psichiatrici giudiziari. Il viaggio di Marco Cavallo

Cari Colleghi, Gentili ospiti,

ricordo quando, a fine novembre 2013, mi recai in Piazza delle Cinque Lune, qui nei pressi del Senato, ad accogliere Marco Cavallo in una delle sue tappe del viaggio attraverso l’Italia organizzato da “Stop OPG” come azione di sensibilizzazione per chiedere la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Dopo quell’incontro altri sono stati i momenti di confronto e di riflessione sullo stesso tema ospitati in questa sede, ai quali ho sempre partecipato con molto interesse reputandolo questo un problema di grande rilevanza sia sul piano istituzionale che su quello umano e sociale.

Nel 1973 questo cavallo di legno e cartapesta, di un bell’azzurro carico che evoca in chi lo guarda la sensazione di un anelito di libertà, sfondò il muro di cinta del manicomio di Trieste e divenne il simbolo della battaglia di Franco Basaglia che portò al varo della legge 180 del 1978 e alla conseguente chiusura dei manicomi. La battaglia per il riconoscimento della pienezza dei diritti ai malati reclusi in quelli giudiziari, invece, si è protratta per quasi altri quarant’anni, fino a ieri, termine ultimo per la chiusura degli OPG deciso nel 2011 e, finalmente, non più prorogato.

La legge 81 del 2014 ha il grande merito di ripristinare diritti umani sinora disattesi, laddove stabilisce che sia le misure di sicurezza che i ricoveri nelle REMS, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza sanitaria, non possano protrarsi oltre il limite massimo fissato per la pena detentiva prevista per il reato commesso. Con ciò si è inteso abolire i cosiddetti “ergastoli bianchi”, una realtà inaccettabile per un Paese che si voglia definire civile. Si è voluto porre termine ad una situazione in cui i malati, a differenza dei comuni detenuti, oltre che della libertà, erano privati anche della speranza in un futuro.

Un primo tentativo di superamento del manicomio giudiziario – previsto dal Codice penale come misura di sicurezza nel 1904 – fu rappresentato dalla legge 354 del ’75 sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, meglio nota come “Legge Gozzini”, che lo confermò come struttura di carattere carcerario ma attribuendogli nuove funzioni e cambiandone il nome in Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Tuttavia, nel corso del tempo, si sono resi sempre più evidenti i limiti di questi istituti nell’assolvere alle funzioni ad essi demandate: oltre a quella, appunto, di sicurezza detentiva, la cura, la riabilitazione e il reinserimento delle persone internate. Le carenze negli interventi terapeutici, l’inaudito degrado delle strutture e, in generale, le indegne condizioni di vita dei malati al loro interno – testimoniate anche da un’indagine parlamentare – hanno fatto sì che si avviasse un processo di dismissione degli OPG, definiti luoghi “fatiscenti, caratterizzati da condizioni umane e igieniche al limite della decenza” e dichiarati “illegittimi” dalla Corte costituzionale già nel 2003.

Questo processo di superamento – che ha comportato il passaggio di competenze in tema di sanità penitenziaria dallo Stato alle Regioni, con la chiusura definitiva degli OPG – è giunto a un momento decisivo. Governo e Regioni hanno operato nel corso degli anni per individuare forme alternative di gestione del disagio psichiatrico che è causa di pericolosità sociale, intendendo privilegiare l’aspetto medico e riservare le misure restrittive della libertà ai soli casi che non sia possibile prendere in carico altrimenti. Dunque le REMS serviranno a garantire assistenza soltanto ai soggetti dichiarati non dimissibili, dovendosi evitare, però, che si trasformino in “mini manicomi” regionali.

C’è ancora molto da fare perché la sicurezza e la salute delle persone coinvolte siano tutelate in modo concreto ed efficace. Non solo in termini di strutture. È necessario un diverso approccio alla malattia mentale che sposti l’intervento pubblico dall’obiettivo del controllo sociale dei malati di mente alla tutela, alla promozione della salute e alla prevenzione dei disturbi mentali, da una presa in carico limitata al ricovero ospedaliero ad una basata su servizi territoriali di assistenza disponibili ventiquattr’ore su ventiquattro.

Il viaggio di Marco Cavallo, documentato nel film che qui ci viene presentato e per il quale mi complimento vivamente con i registi Erika Rossi e Giuseppe Tedeschi, con i 4418 chilometri percorsi in 13 giorni toccando 16 città, è stato un’occasione importante per parlare di questi temi, ma anche per far comprendere che chi, nella follia, ha compiuto un reato è anche una persona che soffre e che necessita di cure, una persona a cui, in primo luogo, va restituita la dignità. Voglio quindi concludere ringraziando per il loro costante impegno tutti coloro che hanno sostenuto questa iniziativa in soccorso di chi, segregato, non aveva voce.