Ma ora sulle stragi vanno cercate le verità scomode

«Ci sono cose che ti segnano per sempre, marchiano a fuoco la tua vita. Senza timore di apparire retorico, posso dire che il maxiprocesso contro Cosa nostra è l’episodio che mi ha toccato e non mi ha più lasciato». Piero Grasso oggi è la seconda carica dello Stato, ma non ha dimenticato il 10 febbraio del 1986, giorno in cui si aprì il primo grande processo contro la mafia. Sono passati trent’anni ma il ricordo è ancora nitido.

«Fu una grande vittoria di tutta la società civile, dello Stato, di quel pugno di magistrati eroici, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino più di tutti, che riuscirono in una impresa dai più ritenuta impossibile per le difficoltà insite nella sola idea di voler processare in blocco Cosa nostra e per il ritardo culturale che, fino a quel momento,  aveva reso inadeguata la lotta alla mafia. Ma fu anche la vittoria del popolo siciliano che potè – per una volta – vedere alla sbarra personaggi di cui non si era potuto neppue pronunciare il nome. Fu la fine della sovranità limitata delle Istituzioni nei confronti del malaffare».

Eppure, presidente Grasso, fino all’ultimo ci furono forze che remarono contro nel tentativo di affondare l’”astronave verde”, com’era stata definita l’aula bunker costata miliardi e anni di lavoro.

«La mafia aveva scommesso tutta la propria credibilità ed assicurato al popolo di Cosa nostra che avrebbe avuto successo ancora una volta la pantomima, riducendo il maxi ad una enorme bolla di sapone. Per fortuna andò in modo completamente diverso».

 Risultò difficile persino comporre la Corte e il presidente Alfonso Giordano dovette arrivare dal tribunale civile.

«E’ vero, si registrarono parecchie defezioni da altri presidenti delle sezioni penali. C’era chi accusava malanni, chi dichiarava di avere altri impegni. Le difficoltà erano maggiori, se si pensa che – per evitare sovraesposizioni della Corte – si dovette raddoppiare il numero dei giudici. Anche i pm erano due, Ayala e Signorino, e furono duplicati pure i giudici popolari».

 Ci furono minacce?

«Tentativi di avvicinamento, di certo. Ma devo dare atto, soprattutto alla giuria non togata, che la trincea tenne benissimo. Semplici cittadini compresero appieno l’importanza del ruolo che lo Stato aveva loro affidato. E d’altra parte le cautele erano d’obbligo in un clima che non prometteva niente di buono: si temeva addirittura un attacco aereo contro l’aula bunker e un qualche omicidio ben mirato avrebbe potuto mandare per aria l’esito del processo. A distanza di trent’anni possiamo dire che senza quel successo saremmo un po’ meno liberi, perché la lotta alla mafia – credo sia ormai chiaro a tutti – è una battaglia di libertà e di democrazia».

Fu il “maxi” a metterla in contatto con Giovanni Falcone?

«Praticamente sì. Dopo la mia designazione a giudice a latere andai a trovarlo nel suo bunker per comunicargli la decisione del presidente del Tribunale. Lui mi scrutò col suo sguardo sornione e indagatorio e mi disse: “Viene che ti presento il maxiprocesso”. Di fronte a quel mostro dovetti sforzarmi per non confessare tutto il mio panico. Lui mi guardava sottecchi e scrutava la mia reazione. Si tranquillizzò quando, con voce ferma, chiesi: “Qual è il primo volume”? Aveva capito che avevo voglia solo di cominciare al più presto».

 Non poteva immaginare, Giovanni Falcone, che proprio il successo ottenuto nel maxiprocesso sarebbe stata la causa della strage che lo avrebbe ucciso, insieme con la moglie, Francesca Morvillo e gli uomini della scorta, e della seconda strage che costò la vita a Paolo Borsellino e ai suoi “angeli custodi”.

«Già, si può dire che per la mafia Falcone e Borsellino “dovevano” morire perché avevano infranto il mito dell’invincibilità di Cosa nostra con mezzi assolutamente nuovi – pensiamo solo a come furono utilizzati Buscetta e i pentiti di mafia – e finalmente concessi da quel potere politico non più succube dell’innaturale alleanza coi boss. Dobbiamo molto a tutti quei servitori dello Stato che hanno sacrificato le loro vite in questa battaglia. Per questo non smetterò mai di insistere e di spronare la magistratura e gli apparati investigativi a cercare la verità. Anche se dovesse risultare scomoda».

Pensa vi sia ancora da scavare nelle nostre recenti storie giudiziarie?

«Ho fatto un giuramento davanti ai corpi martoriati di Falcone e Borsellino. Ho promesso che non mi sarei mai fermato nella ricerca delle verità sulle dinamiche che hanno causato la loro fine. E credo che non tutto sia ancora stato chiarito. Rivendico il merito di aver portato alla luce, con il pentimento di Gaspare Spatuzza, una verità giudiziaria – sulle stragi di Capaci e via D’Amelio – diversa da quella che era stata data per certa fino a quel momento, e nuovi elementi sulle stragi “in continente” a Firenze, Roma e Milano del 1993 quando la mafia cambiò strategia e virò la sua violenza contro il patrimonio artistico, causando morti innocenti anche lontano dalla Sicilia. Prima di approdare alla politica, da procuratore, ho continuato a ricercare, sempre nel rispetto delle regole e delle competenze del ruolo, ma utilizzando allo stesso tempo tutti gli strumenti a disposizione della procura nazionale, informazioni che, se confermate, potessero dare nuovo impulso alle indagini delle procure su vicende dolorose e irrisolte, pensiamo solo ai delitti La Torre, Dalla Chiesa, Mattarella, Agostino, Insalaco e Reina. Ancora oggi credo che ci siano angoli da illuminare e intuizioni che meriterebbero una maggiore approfondimento».

 

 

Cercate ancora la verità sulle stragi

Trent’anni fa Piero Grasso apriva il primo grande processo a Cosa nostra. Era il giudice a latere del presidente Alfonso Giordano, ed è stato anche l’estensore delle motivazioni della sentenza che ha condannato all’ergastolo la cupola mafiosa per centinaia di delitti. Oggi Pietro Grasso è il presidente del Senato, dopo essere stato procuratore capo a Palermo e procuratore nazionale antimafia.  In questi trent’anni trascorsi in trincea ha visto morire per mano della mafia alcuni suoi amici, come Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Paolo Borsellino. Ed ha visto Cosa nostra trasformarsi da sanguinaria e stragista a mafia  infiltrata nella politica e nell’imprenditoria. Ora osserva con dolore le lacerazioni che sta vivendo il mondo dell’antimafia. Ed ha ricordato il periodo d’oro, quando la società civile siciliana e poi quella nazionale si scoprirono «fieramente in lotta contro il dominio mafioso» e la gente faceva il tifo per i magistrati. Ha pure sottolineato la raccolta di firme che venne fatta per dare al nostro Paese «la più bella e innovativa legge sulla confisca e l’utilizzo dei beni». Per Grasso però «se quello era il profumo della primavera di Palermo, gli ultimi mesi sono stati senz’altro l’inverno del nostro scontento». I riferimenti sono alle inchieste giudiziarie che hanno creato squilibri nel mondo dell’antimafia. E non solo. Grasso parla anche delle indagini sulle stragi del ’92, degli spunti investigativi che in questi anni sono stati inviati ai magistrati titolari delle inchieste per arrivare ad entità esterne, ma che ancora non hanno trovato conferme giudiziarie.

Presidente Grasso, tutto parte dal maxi processo. A trent’anni di distanza cosa è rimasto?

«Il maxi è un monumento giuridico che ha processato per la prima volta la mafia e tutta la direzione strategica di Cosa nostra. L’unitarietà dell’organizzazione, che è stata un’intuizione di Giovanni Falcone, è stata dimostrata fino in Cassazione. Non è stato un processo facile, abbiamo dovuto superare tutta una serie di ostacoli giuridici e organizzativi posti dalla straordinarietà del dibattimento. La sentenza è diventata un punto di riferimento nei processi e nella lotta alla mafia negli anni successivi».

I mafiosi non si aspettavano una reazione così forte dello Stato?

«Riina si era giocato tutta la sua credibilità, aveva fatto promesse agli uomini di Cosa nostra sostenendo che il maxi processo non avrebbe portato a nulla, e invece sono arrivate le condanne all’ergastolo che poi sono diventate definitive. I pentiti dicevano che Riina si era “giocato anche i denti” per tentare di aggiustare il maxi nelle successive fasi del giudizio. E non ci è riuscito».

Per questo motivo scatena la guerra allo Stato?

«È stata la conferma di quella sentenza in Cassazione a provocare la reazione di Riina. Infatti dopo c’è stato l’omicidio di Salvo Lima, garante del rapporto mafia-politica, e poi le stragi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino».

E poi ci doveva essere anche lei…

«Si, anche se non ne parlo volentieri. Brusca ha più volte detto che Riina riteneva necessario “un altro colpettino”, un attentato nei miei confronti fallito per varie coincidenze e in ultimo l’arresto di Riina. Poi cambiarono strategia con le stragi di Firenze, Roma e Milano contro il patrimonio artistico. I boss, attraverso un elenco di richieste, che Brusca chiamò “papello”, volevano ottenere dei vantaggi tra cui l’ammorbidimento del 41 bis, ossia il carcere duro, e la chiusura dei penitenziari di Pianosa e dell’Asinara, che anni dopo furono effettivamente trasformati in parchi nazionali».

Ritiene che sulle stragi del ’92 ci siano ancora verità da scoprire?

«Fino a quando sono stato procuratore nazionale antimafia non ho mai smesso di cercare la verità sulle stragi di Giovanni e Paolo. La storia di Cosa nostra negli ultimi trent’anni è storia di misteri irrisolti. Forse per questo resta sempre un dubbio sui veri fini delle azioni, sui veri mandanti delle stragi. Purtroppo, in molti casi le rivelazioni dei pentiti, le inchieste, i processi hanno chiarito solo in parte l’esatto svolgimento dei fatti. Si può affermare che non c’è mai stato omicidio “eccellente” o strage di mafia, chiarito in tutte le sue componenti: mandanti interni all’organizzazione, mandanti esterni, esecutori materiali e moventi, talvolta plurimi, del fatto criminale. E spesso, anche per effetto di questa imprecisione giudiziaria, è prevalsa l’opinione che Cosa nostra, in certi casi, altro non sia stata che il braccio armato di poteri occulti in grado di indicare ai mafiosi strategie, questioni d’affari o politiche da risolvere rapidamente e bersagli da colpire, si pensi anche a Mattarella, LaTorre, Dalla Chiesa, all’agente Agostino, con la violenza omicida. I vuoti da colmare le verità da cercare, comunque, sono ancora tanti e spesso hanno dato adito a una dietrologia mediatica troppo fantasiosa».

Il dubbio continuerà ad avvolgere anche la morte di Falcone e Borsellino?

«Sulla loro tomba ho giurato che non mi sarei fermato di fronte a nulla per cercare la verità sulla loro morte. Ci sono ancora domande senza risposta. Chi poteva avere interesse, anche attraverso stragi di innocenti, a conservare la situazione esistente? Solo la mafia o anche altre entità o persino uomini delle Istituzioni che hanno tradito lo Stato? Il magistrato deve sempre tendere alla ricerca della verità, e questo ho fatto fino a quando ho guidato la procura nazionale antimafia. Ricordo che nonostante gli inviti a lasciar perdere e a non spendere invano i soldi dello Stato per riesumare vecchie inchieste, siamo riusciti a riaprire casi che sembravano chiusi nel libro dell’eterno oblio. Dopo sedici anni, nel 2008, ho avuto il privilegio di raccogliere per primo, dalla viva voce dell’ex mafioso Gaspare Spatuzza nuovi elementi.

A cosa hanno portato le sue rivelazioni?

Hanno consentito di riaprire le indagini sulle stragi di Capaci, Via d’Amelio e di Firenze, Roma e Milano e di contribuire a far riaffiorare parecchi ricordi. Quelle rivelazioni portarono anche alla assoluzione di innocenti da anni in carcere per le stragi, e a far emergere una diversa ricostruzione dei fatti. Abbiamo ancora fame e sete di giustizia su quegli eccidi e su tutti i misteri ancora non svelati. Ancora oggi ci assalgono e ci tolgono il sonno intuizioni laceranti che attendono di divenire percorsi di verità. Chi, come me, è sopravvissuto a questi e a tanti altri orrori non può dimenticare che le stesse mani macchiate di sangue, hanno tessuto trame in affari di soldi e di potere. E sente l’obbligo morale, oltre che istituzionale, di cercare la verità fino all’ultimo istante».

E’ ancora possibile, dopo così tanti anni, scoprire nuovi elementi per arrivare alla verità?

«Ho lasciato la guida della procura nazionale orgoglioso di aver continuato a ricercare informazioni per dare nuovi impulsi alle indagini sulle stragi. Gli atti d’impulso investigativo, rientranti nelle specifiche funzioni del procuratore nazionale antimafia, presuppongono la raccolta di informazioni che, pur non avendo alcun valore probatorio, costituiscono tracce e suggerimenti alle procure che devono trovare, se ve ne sono, conferme e riscontri in sede investigativa. E’ stato un lavoro intenso che spero porti a illuminare punti ancora oscuri».

Si sta sfilacciando l’antimafia giudiziaria?

«Dal 2013 non ho più il polso della situazione delle inchieste antimafia: le mie analisi e valutazioni non hanno elementi recenti se non quelli pubblici».

La corruzione è ora l’arma delle mafie.

«In effetti la mafia si è messa al passo con i tempi, entrando negli affari e diventando così sempre più difficile da decifrare. Molte indagini, anche nel centro e nord Italia, penso ad esempio a Milano e a “Mafia Capitale”, hanno mostrato l’esistenza di complesse reti di relazioni fra mafiosi, politici, imprenditori, professionisti e amministratori pubblici, inizialmente caratterizzate da intimidazione e violenza alle quali poi si aggiungono collusione e corruzione, coincidenze di interessi. Una pericolosa saldatura fra criminalità mafiosa, società, politica ed economia garantita dalla corruttela, attraverso gli appalti e le commesse pubbliche, le concessioni, l’acquisizione di imprese. Ma quando serve, l’organizzazione ritorna all’uso dei consueti sistemi mafiosi della violenza e dell’intimidazione. Per questo appena eletto ho presentato una legge per colpire questo complesso fenomeno: la corruzione, il riciclaggio e l’economia criminale. Ma la legge è stata approvata solo dopo due anni e senza l’organicità iniziale».

Occorre dunque rivedere la legislazione antimafia per renderla più efficace?

«Abbiano un’ottima legislazione antimafia che però adesso deve essere aggiornata, come prevede la riforma del “codice antimafia” arrivata in Senato lo scorso novembre. Riguarda fra le altre cose i beni confiscati, la tutela dei lavoratori, le leggi antimafia, le nomine e le incompatibilità degli amministratori giudiziari. Va certamente esaminata al più presto: la criminalità economica è la priorità contro cui combattere. Alle forze dell’ordine e ai magistrati che tanti successi conseguono ogni giorno, con dedizione, sacrifici e talvolta anche a rischio della vita, non devono mancare risorse, tecnologie e incentivi».

Lo stato di salute dell’antimafia sociale sembra essere stato intaccato da indagini che hanno coinvolto magistrati, imprenditori che si erano distinti per la loro azione di legalità, o associazioni ritenute infiltrate da personaggi collusi. Ma cosa succede?

«Sono emersi casi singoli che non devono offuscare lo spirito dell’antimafia. Il fatto stesso che siano venuti alla luce dimostra che il sistema possiede gli anticorpi per isolare e colpire chi sfrutta questi ideali per il proprio interesse. Dopo 30 anni di un impegno civile eccezionale e alla luce di questi episodi voglio mettere in guardia questo mondo, che è anche il mio, e chiamarlo ad una riflessione seria al proprio interno».

L’antimafia però non appare più come un movimento monolitico.

«Oggi viene data la possibilità ai detrattori di riprendere vecchie campagne di delegittimazione. C’è il rischio che chi voglia indebolire tutto il movimento antimafia strumentalizzi questi casi isolati. È vero che la mafia in passato ha tentato di infiltrarsi nell’antimafia, lo abbiamo visto in tante indagini, ma gli anticorpi, finora, hanno dimostrato di funzionare».

Si potrebbe affermare che non c’è più l’antimafia di una volta. Quella che faceva paura ai potenti.

«Si. È vero, perchè quei movimenti nati alla fine degli anni Ottanta avevano un’assoluta credibilità, che oggi occorre riconquistare. Per questo serve una riflessione, per recuperare una lunga storia di riscatto sociale e morale che va difesa con orgoglio. Ho usato la metafora della decrescita felice per tornare a privilegiare il contatto umano, le proposte concrete, la coerenza, rispetto al protagonismo e alla corsa ai finanziamenti che hanno finito per dare l’idea dell’allontanamento dallo spirito originario. Non mi stancherò mai di ripetere che l’obiettivo principale è il cambiamento culturale diffuso, la denuncia all’autorità giudiziaria di qualsiasi comportamento illecito o illegittimo, il rifiuto del compromesso, l’isolamento delle mafie e il sostegno alla magistratura. Per l’antimafia ci si spende, non ci si guadagna».

 

Incontro con l’Emiro del Qatar

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Il  Presidente  del  Senato,  Pietro  Grasso, ha ricevuto oggi pomeriggio a Palazzo Giustiniani l’Emiro del Qatar, Tamim bin Hamad al-Thani. Al  centro  del  cordiale  colloquio,  i  rapporti  politici,  culturali ed economici tra i due Paesi, la situazione in Libia e la lotta al terrorismo.

 

 

Ambiente, gli alberi nel cielo e il futuro delle città

Autorità, Gentili ospiti, Cari amici,

è per me un vero piacere ospitare in Senato questo incontro dedicato alla discussione del progetto di Stefano Boeri “Un Bosco Verticale” e al futuro delle nostre città. Ringrazio il collega senatore Cociancich, che ha promosso questo incontro, il ministro Delrio e l’architetto Boeri che hanno assicurato la loro presenza e gli illustri relatori, che con i loro interventi animeranno il dibattito. Il complesso residenziale realizzato a Milano e definito “Bosco Verticale” rappresenta il primo progetto di forestazione metropolitana. Molte parole sono state spese per rendere omaggio a questo progetto innovativo, per questo mi limiterò a tracciare brevemente i contorni di questa incredibile esperienza. Siamo davanti a un’opera di architettura organica: due torri ricoperte di foglie, come doveva essere nella mente di chi l’ha progettata. In 1500 metri quadri di altezza è stato possibile riunire l’equivalente di due ettari di bosco, alberi, arbusti e piante di varia natura; tanto che in questo piano di edilizia abitativa si può parlare di una proporzione di 2 alberi ogni abitante.

Un’esperienza unica che ha portato un concentrato di biodiversità nel centro di una città, permettendo una vera ricolonizzazione di quelle varietà vegetali e faunistiche che l’avevano lasciata. Un’opera dirompente e visionaria, resa possibile dal coraggio e la maestria di architetti, botanici, etologi, esperti di impiantistica e, persino, di ingegneri esperti di ventosità. Boeri e il suo Studio di architetti si sono fatti interpreti di una visione dell’edilizia non antropocentrica, ma rispettosa e in armonia con l’ambiente. Questo progetto è, infatti, in grado di ottimizzare, recuperare e produrre energia, aiutando a creare un microclima e a filtrare le polveri sottili. La diversità delle piante e le loro caratteristiche producono umidità, ossigeno, proteggono le abitazioni dai raggi solari e dall’inquinamento acustico. In poche parole, siamo di fronte ad una innovazione nel modo di pensare il vivere urbano, una città del futuro in cui persone e alberi e animali possano convivere; che sappia rispondere al bisogno delle persone di entrare in contatto con la natura.

Questo progetto così avanzato, quasi rivoluzionario, è stato realizzato a Milano, capitale economica d’Italia che è tornata negli ultimi anni ad essere il cuore pulsante del design, del made in Italy, dell’architettura e del recupero edilizio, inteso anche come recupero del tessuto urbano delle periferie e dei quartieri che furono sede aree industriali, ormai dismesse. Questa impostazione rappresenta la chiave per un nuovo rinascimento culturale, del quale il nostro Paese ha così bisogno: proprio in questa prospettiva, è motivo di grande orgoglio per noi tutti vedere che questo progetto ha riscosso prestigiosi riconoscimenti internazionali, come l’International Highrise Award di Francoforte e il premio attribuito dal Council on Tall Buildings and Urban Habitat di Chicago.

Sappiamo che in futuro questo modello verrà riprodotto a Losanna, dove verrà creata la Torre dei Cedri; e in Cina, dove Boeri ha progettato una Biocittà da realizzare in una provincia tra le più inquinate della Repubblica Popolare cinese, in grado di ospitare centomila abitanti. Nell’ambito della 21ª Conferenza dell’Onu sulla riduzione del cambiamento climatico, tenutasi a Parigi, il “Bosco Verticale” è stato presentato come un esperimento simbolo della tutela e salvaguardia della biodiversità in città, in grado di contribuire ad una diminuzione significativa delle polveri sottili e dell’anidride carbonica nei centri urbani. Il mio auspicio è che questo prototipo di Biocittà possa diventare presto una realtà diffusa. Desidero ringraziare l’architetto Boeri e il suo Studio per l’impegno profuso per la realizzazione di questo incredibile progetto, che alimenta le nostre speranze per un futuro migliore; e perché oggi, anche grazie a loro, possiamo dire che il made in Italy ancora una volta rappresenta un fattore di sviluppo e di progresso. Grazie.

Incontro con il Presidente dell’Assemblea del popolo della Repubblica di Tunisia

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Il  Presidente  del  Senato  Pietro  Grasso  ha  ricevuto oggi, a Palazzo Giustiniani,  il  Presidente  dell’Assemblea  dei Rappresentanti del Popolo della Repubblica di Tunisia, Mohamed Ennaceur. Al  centro  del  cordiale  colloquio la sfida comune per la sicurezza, la solidarietà politica e la collaborazione economica tra Italia e  Tunisia, i processi   di   riforma   democratica  di  quella  Nazione.  Si  è  inoltre approfondito  il tema relativo al progetto di gemellaggio tra il Parlamento italiano, il Parlamento tunisino e l’Assemblea Nazionale francese.

Alto Simposio internazionale contro la radicalizzazione e gli estremismi. Come promuovere la pace attraverso il dialogo interreligioso

Autorità, Gentili ospiti, Signore e Signori,

ho accolto con molto piacere la proposta del Presidente Franco Frattini di ospitare in Senato, nella bella Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani, la cerimonia inaugurale di questo Simposio internazionale dedicato al contrasto alla radicalizzazione e agli estremismi attraverso il dialogo interreligioso. Auguro il benvenuto a Roma ai Capi di Stato e tutte le alte autorità civili e religiose qui presenti e ringrazio la Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale, e l’Associazione Nizami Gajavi per l’iniziativa, così importante e tempestiva, e per avere portato avanti in questi anni un fruttuoso dialogo globale fra personalità che hanno posto al centro del proprio impegno il rifiuto della violenza e dell’intolleranza, l’incontro delle culture e delle religioni, e il primato dei diritti e della dignità umana.

Dell’anno appena trascorso e delle prime settimane di questo conserviamo ricordi drammatici e dolorosi. A Parigi, a Bamako, a Beirut, a Garissa, a Ouagadougou, a Giakarta, in molti altri luoghi del mondo, cittadini inermi sono stati cinicamente trasformati in obiettivi politici in nome di una ferocia mascherata da religione o ideologia. Il dolore per le vite spezzate delle vittime e delle loro famiglie, il disorientamento e l’inquietudine dei nostri cittadini, l’ansia degli Stati di garantire la sicurezza delle proprie città hanno innescato un pericoloso circolo vizioso. Da una parte si rischia di incentrare le risposte al terrorismo esclusivamente nello strumento militare. Da un’altra parte, l’insistenza ossessiva dei mezzi di comunicazione e l’irresponsabilità di alcune forze politiche incoraggiano meccanismi di sospetto e di rancore verso la  diversità, gli stranieri, i profughi e chi professa fedi religiose diverse dalla propria. Al contrario, la responsabilità della politica in questo difficile momento è pensare strategicamente accompagnando ai necessari interventi di sicurezza, di polizia e di intelligence una riflessione profonda e di lungo periodo su quanto avviene.

Da un punto di vista geopolitico, i fenomeni negativi che ci troviamo ad affrontare, il terrorismo, l’instabilità e i flussi di profughi che interessano il Mediterraneo e il Medio Oriente, derivano da vuoti politici ed istituzionali che hanno dato spazio a poteri illegittimi, criminali e terroristici. La genesi delle crisi è molto complessa e affonda le radici in profondi conflitti geopolitici, etnici, confessionali ed economici nella regione, ma non vi è estranea una responsabilità dell’Occidente e dell’Europa che non hanno colto l’opportunità di influire positivamente sul corso degli eventi attraverso strategie credibili e politiche comuni. In questa fase il nostro impegno deve essere rivolto a ricercare l’unità della comunità internazionale per prevenire i rischi drammatici per tutti e per ciascuno. La ricomposizione politica delle diverse linee di frattura, per prime fra le potenze regionali in competizione, non sarà facile o rapida ma è ineludibile perché si possa concertare il futuro dei territori in crisi, in particolare Iraq e Siria. Gli interventi militari in corso contro il terrorismo potranno avere successo solo se saranno accompagnati da una strategia politica idonea a favorire aggregazioni istituzionali rispettose dei diritti di ognuna delle componenti etniche e religiose. Questa è la direzione verso la quale si muove l’Italia.

Giungendo al tema specifico che verrà affrontato dal Simposio, io credo che un dialogo profondo e sincero fra fedi e confessioni sarà determinante per svuotare la retorica dei terroristi e smascherare il loro richiamo abusivo alla religione come elemento di motivazione dei combattenti e come strumento di propaganda. Una serena riflessione fra le religioni è l’antidoto per opporsi alla logica consunta dello scontro di civiltà e alle infondate narrazioni che individuano nel diverso un nemico da combattere, un pericolo per la propria identità. Un altro aspetto che credo potrete approfondire nei vostri dibattiti è la dimensione sociale e individuale del terrorismo, particolarmente di quelle forme che presuppongono il martirio, la distruzione della propria vita. L’avvicinamento a posizioni ideologiche e religiose fondamentaliste dipende spesso non soltanto da scelte o inclinazioni personali, ma da una crisi nel rapporto fra individuo, comunità e Stato, sulla quale dovremmo soffermarci con più attenzione. Questo vale nella stessa misura per i giovanissimi combattenti che si uniscono ai terroristi in Occidente e in Medio Oriente. La strada per riavvicinare alla società i giovani che sono tentati dall’adesione al radicalismo è la cultura della legalità, dei diritti e il rigetto incondizionato della violenza.

Vi ringrazio dunque ancora per il vostro impegno e vi auguro un fruttuoso dibattito che sarò lieto di conoscere attraverso gli atti del Simposio che il Presidente Frattini vorrà certamente rendere disponibili al termine dei lavori. Grazie.

 

 

Giorno della memoria: il ricordo dell’orrore e l’esempio dei giusti

Discorso alla presentazione del documentario “Salvate tutti”

Onorevoli colleghi, gentili ospiti,

sono particolarmente lieto di poter ospitare in Senato questo convegno così significativo, nell’imminenza della celebrazione del Giorno della memoria. Oggi verrà presentato il documentario “Salvate tutti”, parte della serie “La Shoah dei bambini”, che sarà distribuito con La Repubblica e L’Espresso. Si tratta di un’iniziativa importante, volta alla conservazione della memoria storica delle atrocità del secondo conflitto mondiale.

La Fondazione Villa Emma, nata nel 2004, si ispira alla straordinaria vicenda di solidarietà e coraggio che nel corso della Seconda Guerra mondiale aveva visto la piccola comunità di Nonantola prestare soccorso e dare rifugio a 73 ragazzi ebrei, provenienti da diversi Paesi, in fuga dall’orrore e dalla crudele follia delle persecuzioni naziste. L’organizzazione che se ne prendeva cura chiesa aiuto a Gino Friedmann, che era stato sindaco di Nonantola. Proprio qui, in vista dell’arrivo del gruppo, viene affittata Villa Emma, grande residenza di campagna, all’epoca disabitata e in condizioni fatiscenti. I ragazzi troveranno in questo luogo una pausa di quiete – sebbene le condizioni materiali di vita siano molto dure – e potranno riprendere gli studi e la formazione professionale. Un anno dopo, nella primavera del 1943, saranno accolti presso la Villa altri 33 giovani, ma nel settembre, dopo l’armistizio tra il governo Badoglio e gli Alleati, la situazione diventa estremamente pericolosa, esponendo l’intero gruppo ad arresti e alla deportazione. Pertanto i giovani vengono accolti in parte presso il seminario dell’Abbazia, in parte presso le famiglie di Nonantola e del territorio circostante.

Si realizza così una sorta di “rifugio diffuso”, offerto con estremo coraggio e generosità dalla popolazione locale, che si espone consapevolmente a possibili atti di ritorsione da parte dei militari nazisti. Tutti i ragazzi riusciranno, in seguito, a raggiungere la Svizzera, dove troveranno rifugio e salvezza. Si tratta di una storia di sofferenza e paura, di giovani vite sradicate dalla loro quotidianità, di sogni spezzati, che non deve essere dimenticata; ma è anche una storia bellissima e commovente, di speranza, di coraggio e di profonda solidarietà.

Il significato del Giorno della memoria è proprio questo: conservare il ricordo dell’orrore sorto nel cuore dell’Europa, delle vittime, del dolore, ma al contempo anche l’esempio di tante persone “giuste”. Per fortuna c’è ancora in vita qualcuno che quegli orrori li ha vissuti, è sopravvissuto e ha preso l’impegno con la propria coscienza di raccontarli, così come hanno fatto tanti che oggi non ci sono più. Queste persone hanno tenuto in vita la memoria, e l’hanno consegnata alle nuove generazioni affinché non sia dispersa. Dobbiamo essere consapevoli che spetta a ciascuno di noi raccogliere quella testimonianza e passarla a nostra volta alle generazioni successive. Questa giornata e tutte le iniziative ad essa collegate, come il documentario che vedremo tra poco, hanno questo scopo. Allo stesso tempo sono occasioni per riaffermare quei principi e quelle idee che ci hanno permesso di sconfiggere la barbarie, e sui quali si sono di conseguenza fondate le Costituzioni moderne. Sono i valori fondamentali ed assoluti dell’uguaglianza, della solidarietà, del dialogo e della pace, i valori che sostengono le democrazie, che non devono vacillare di fronte alle sfide della storia. Valori che sono stati alla base della vicenda che è raccontata nel documentario e che hanno consentito di salvare quelle giovani vite.

Grazie.

Fuori dall’Unione non esiste futuro per l’Europa

Discorso alla consegna del “Riconoscimento Altiero Spinelli ai costruttori dell’Europa Federale” al Presidente Napolitano

Signor Presidente della Repubblica, caro Presidente Napolitano,

Ho accolto davvero con molto piacere la proposta del Presidente del Movimento Federalista Europeo Giorgio Anselmi di ospitare nella Sala Zuccari del Senato la cerimonia solenne di consegna del “riconoscimento Altiero Spinelli ai costruttori dell’Europa Federale” al Presidente emerito Giorgio Napolitano, con il quale mi congratulo con sincera stima.

Altiero Spinelli è il profeta dell’idea europea. Si dedicò con passione all’ideale di un’Europa unita nella democrazia e nella pace durante gli anni più drammatici del secondo conflitto mondiale, nell’isolamento del confino, dopo una profonda autocritica spirituale che l’aveva condotto, giovane antifascista, ad allontanarsi dal comunismo. Nei primi anni ’50 Spinelli si schierò a fianco di De Gasperi per garantire da subito uno sbocco federale ai primi atti di integrazione europea. Al fallimento del progetto della Comunità europea di difesa nel 1954 reagì con un nuovo slancio. “Io e Monnet (disse) stiamo tirando la carretta come due somari cocciuti.. nonostante tutti gli scetticismi e tutti gli ostacoli, vinceremo noi”. Fu grazie alla sua azione trascinante che nel 1984 il Parlamento europeo – il primo eletto a suffragio universale – approvò a grandissima maggioranza il Trattato istitutivo dell’Unione europea.

Lei, Presidente Napolitano, ha più volte ricordato l’affinità tra il percorso di Spinelli e il suo: un impegno europeista maturo, culturalmente consapevole e di grande spessore democratico. Il socialismo europeo, iscritto nel più ampio progetto di un’unione politica del continente, è stato il naturale approdo del suo itinerario politico e personale, tanto che appena assurto alla più alta carica della Repubblica, lei ha voluto rendere omaggio a Spinelli a Ventotene, nel ventesimo anniversario della sua scomparsa, sottolineando come si potesse “imparare da Altiero ad essere uomini e donne di alti pensieri e di forte indomabile volontà di azione”. Nel suo impegno nelle istituzioni europee lei è stato un protagonista del processo che ha condotto all’elaborazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione e alla stesura del progetto di Trattato per la Costituzione per l’Europa. Il metodo fecondo della Convenzione ha visto fianco a fianco, oltre ai governi, Parlamento europeo e Parlamenti nazionali, ma quel grande disegno riformatore ha subito modifiche peggiorative anche a seguito dei referendum francese e olandese che nel 2005 rigettarono il Trattato per l’adozione di una Costituzione per l’Europa. Fu il primo segno dell’emergere fra i cittadini europei di un sentimento di insoddisfazione nei confronti del processo di integrazione. Da Presidente della Repubblica lei si è poi battuto a difesa delle strutture portanti dell’Unione per rafforzarne l’efficacia nel complesso contesto globalizzato, anche contribuendo a sostenere le diverse forme di cooperazione rafforzata.

Vorrei giungere all’attualità ripartendo proprio dal manifesto di Ventotene di Spinelli, scritto tra il 1941 e il 1942, nel quale colpiscono parole d’ordine e idee bellissime, e a quel tempo rivoluzionarie, come “moneta unica” e “libertà di movimento dei cittadini”: profezie che oggi si sono faticosamente realizzate ma purtroppo non sono ancora irreversibili. La crisi economica, i flussi di profughi e di migranti, i pericoli del terrorismo internazionale, l’instabilità geopolitica alle nostre porte rivelano gravi egoismi e disunioni fra i Paesi europei e pericolose spinte disgregatrici. Qualcuno inammissibilmente mette in discussione i grandi principi, addirittura la libera circolazione. Io rigetto con forza qualsiasi benché minimo arretramento sulle libertà, sui principi di civiltà e sulle acquisizioni della  nostra Europa e sono ottimista perché le conquiste dell’umanità dimostrano la loro grandezza alla prova della storia, e quei valori sono ormai un patrimonio iscritto indelebilmente nell’animo di ogni cittadino europeo, anche nei momenti di smarrimento e di paura che ciascuno vive in questa difficile fase, e qualcuno irresponsabilmente alimenta.

Il Presidente Mattarella nel suo intervento al Parlamento europeo a novembre ha voluto ricordare che “sessant’anni di progressiva integrazione nel rispetto delle differenze, specificità e tradizioni hanno creato un demos europeo: una crescente fusione delle nostre società… che ha prodotto risultati concreti e visibili. Un unico spazio di libertà europeo, che non possiamo perdere ma che anzi dobbiamo saper estendere, nella tutela del bene della sicurezza. L’unione ha prodotto diritto europeo: anche questo un patrimonio comune di cui i nostri cittadini non potrebbero più fare a meno”.

Io sono convinto che questa lucida consapevolezza debba animare ognuno di noi a guardare, sulla via disegnata da Spinelli e dai padri fondatori, oltre le spinte emotive del breve termine per perseguire un’unione politica ancora più stretta che, giova ripeterlo, è l’unica strada per garantire benessere, sicurezza e diritti ai cittadini europei. Fuori dall’Unione, non esiste futuro per l’Europa. Contro l’Europa, non esiste futuro per l’Italia. La sfida per fare avanzare il progetto europeo oggi si declina principalmente su tre versanti: una politica economica più attenta alla produzione, all’innovazione, al lavoro, dunque alla vita quotidiana delle persone; una politica estera e di sicurezza lungimirante, coesa e strategica, particolarmente nel Mediterraneo e alle frontiere orientali; e un sistema di asilo europeo equo, solidale e rispettoso dei diritti dei rifugiati. Questi sono i più importanti impegni per realizzare un ideale, quello europeo, che per tutti noi è garanzia di democrazia e speranza per il futuro. Grazie.

Il libro digitale

Gentili ospiti e colleghi,

il 23 ottobre scorso ho avuto il piacere di aprire il primo dei tre seminari dedicati al libro e al futuro del mercato editoriale organizzati dalla Biblioteca del Senato. Si intitolava “Il libro e il mercato editoriale: nuove forme e nuove strategie”. Il tema, più specifico, di questo secondo appuntamento è, invece, il “libro digitale”.

Il merito per questa iniziativa di grande interesse va totalmente ascritto al Presidente della Commissione per la Biblioteca e l’Archivio storico, senatore Sergio Zavoli, e colgo l’occasione per formulargli auguri di pronta guarigione non solo miei ma di tutto il Senato. Vederlo entrare mercoledì in Aula è stato davvero un bel momento di dimostrazione di alto senso delle Istituzioni.

Il rapporto ISTAT sulla lettura in Italia nel 2015 ci fornisce alcuni dati confortanti. Dopo anni in cui abbiamo assistito a un dato generale sulla lettura in costante diminuzione, all’orizzonte si sta profilando una schiarita, con una crescita dell’1,7% tra il 2014 e il 2015. In questo ultimo anno 412.000 persone sono tornate a leggere un libro cartaceo, facendo registrare un lieve aumento tra gli affezionati della lettura “tradizionale” al di sopra dei 6 anni. Mentre il 14,1% delle persone che hanno navigato in Internet negli ultimi tre mesi, ossia circa 4 milioni e mezzo di italiani, ha letto o scaricato libri online o e-book.

Non è assolutamente da sottovalutare, inoltre, il fatto che il 6% di chi dichiara di non avere libri in casa ha letto libri online o e-book, il che fa apprezzare le potenzialità del digitale per avvicinare alla lettura chi altrimenti non vi accederebbe. Dati diversi provengono dagli Stati Uniti, dove nel corso dello scorso anno si è registrata una “rivincita” della carta sul digitale e delle piccole librerie sulle grandi catene.

Tutti i dati stanno ad indicare che i cambiamenti in corso ci portano non alla prevalenza di una modalità di lettura sull’altra, ma a una differenziazione nell’offerta e nelle abitudini. L’e-book sarà probabilmente preferito in determinati ambiti, come, ad esempio, quelli della formazione, degli studi professionali ecc., che potrebbero trovare grande utilità in una digitalizzazione dei testi, mentre il libro cartaceo continuerà ad essere acquistato da lettori appassionati e alla ricerca anche dell’editoria di pregio.

L’editoria digitale non comporterà nemmeno il rischio di estinzione per le librerie se, come già avviene, sapranno assumere una funzione anche sociale, proponendosi quali centri di cultura sul territorio, punti di incontro, di discussione, di formazione dei lettori. Se, come si evince dal rapporto Istat già citato, lettura e partecipazione culturale vanno di pari passo, poiché si è rilevato che fra i lettori di libri le quote di coloro che coltivano altre attività culturali, praticano sport e navigano in Internet sono regolarmente più elevate rispetto a quelle dei non lettori, la priorità vera è continuare a impegnarsi nella promozione della lettura di libri, a prescindere dalla forma, libro cartaceo o libro elettronico.

Se gli utenti, in maggioranza giovani, leggono meno libri perché privilegiano la lettura di informazioni in rete, generalmente disperse e frammentate, non dovremmo limitarci a registrare questa tendenza ma accompagnare il cambiamento offrendo loro, nelle forme che essi prediligono, contenuti più complessi e strutturati, culturalmente più validi. Insomma, ben venga ogni forma ed ogni mezzo che possa ampliare il bacino dei lettori di contenuti di qualità. Personalmente, pur avendo un lettore di e-book e utilizzando il tablet per la rassegna stampa, la lettura dei giornali e dei documenti di lavoro, non vi nascondo che quando leggo “per piacere” trovo ancora insostituibile l’oggetto libro. Anche nella sua fisicità, nel piacere al contatto mentre lo si legge e nel piacere alla vista quando ci si trova, talvolta, a sostare di fronte alla propria libreria ad “accarezzare” con lo sguardo quelli che hanno saputo suscitare in noi emozioni profonde o profonde riflessioni.

Con questa mia personale considerazione finale, vi auguro buon lavoro.

Il referendum non delegittimi le Istituzioni

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Intervista di Ugo Magri per La Stampa

In quasi tre anni, un quarto di deputati e senatori ha cambiato casacca. Non le sembrano troppi, presidente Grasso?

«In passato non erano mai stati così tanti: siamo oltre il fisiologico. E’ vero che in base alla Costituzione non esiste vincolo di mandato ma questo principio era stato introdotto per garantire la libertà di coscienza ogni qualvolta fossero in gioco questioni essenziali. Invece se ne fa uso per cambiare partito, creare sigle che non esistevano alle elezioni o per regolare i conti interni ai partiti, magari nascondendosi dietro il voto segreto».

Quali conseguenze provoca il trasformismo?

«Aggrava la crisi della rappresentanza politica. Dicono i sondaggi che solo 1 italiano su 10 si fida del Parlamento, e 1 su 20 dei partiti. Dati che preoccupano»

Ha qualche idea su come invertire la tendenza?

«Si potrebbe varare una legge sui partiti politici e finalmente attuare l’art.49 della Carta costituzionale. Per la trasparenza sarebbe bene regolamentare le lobbies, come avviene in quasi tutti i paesi occidentali. Anche una disciplina chiara del conflitto d’interessi contribuirebbe a far risalire la fiducia».

La sorte del Senato dipende dal referendum. Cosa si aspetta dalla campagna referendaria?

«Che non si trasformi in un plebiscito pro o contro qualcuno, prescindendo dai contenuti della riforma. Perché, vede, la revisione costituzionale ha regole concepite apposta per arrivare a scelte il più possibile meditate e condivise, con una serie di passaggi parlamentari che invitano alla riflessione… E quando non c’è la maggioranza dei due terzi i Padri costituenti, per garantire le minoranze e le diverse sensibilità, vollero dare la possibilità agli elettori di scegliere attraverso il referendum. In questo momento il dovere di tutte le forze politiche è ristabilire un patto di fiducia e di rispetto tra elettori e Istituzioni, ed evitare che queste diventino oggetto di invettiva e delegittimazione».

Lei davvero scorge questo pericolo?

«Lo vedo nel caso in cui il dibattito venisse male impostato. Se la campagna referendaria sarà concentrata solo sui risparmi che si potranno ottenere con la riforma, anziché sulle tante novità introdotte, sa cosa può succedere? Che aumenteranno i toni fino a mettere in discussione la legittimità passata, presente e futura del Senato, al limite del vilipendio».

Vilipendio in che senso, presidente Grasso?

«Sostenere ad esempio che il Senato non serve a nulla o, peggio, non è mai servito a nulla sarebbe un’offesa alla storia di questa Istituzione».

Ammetterà che la logica stessa del referendum porta a brutalizzare, in fondo la scelta è tra un «sì» e un «no»…

«Proprio per questo mi aspetto un dibattito che entri nel merito delle tante questioni e permetta ai cittadini di formarsi un giudizio consapevole, che possa far valutare i cambiamenti nel complesso e maturare una convinzione. Le parti politiche dovrebbero evitare la barbarie dello scontro esasperato e personalizzato, che porterebbe a delegittimare le Istituzioni indipendentemente dal risultato».

Se il «sì» vince, a questo tipo di Senato restano ancora due anni. Di qui al 2018 lei che «mission» si è dato?

«Una missione doppia. Da un lato preparare la transizione verso il Senato futuro come disegnato dalla riforma, con una serie di decisioni che saranno utili comunque e a prescindere dall’esito referendario. Abbiamo svolto seminari di studio, ho firmato un Protocollo di Intesa con i Presidenti dei consigli regionali, avviato la formazione del personale sulle funzioni di indirizzo, controllo e valutazione delll’impatto delle leggi. Non solo, ma è in atto l’integrazione tra servizi e risorse delle due Camere per razionalizzare le spese, entro il mese si darà avvio al processo di unificazione dei dipendenti in un ruolo unico… Semplificare il sistema sarà uno sforzo epocale».

Su questo non c’è dubbio. Dall’altro lato?

«Proseguiremo l’attività legislativa ordinaria, ancora bicamerale, che in questa legislatura ci ha permesso di migliorare molti provvedimenti: dalla responsabilità civile dei magistrati al voto di scambio, agli eco-reati per citarne solo alcuni».

Tra breve discuterete di unioni civili, tema che divide. Qual è la sua posizione?

«La dico anche se so che sarò criticato. Ma quando si tratta di diritti anche il presidente del Senato rivendica il diritto di esprimersi».

Per segnalare cosa?

«Che se ne parla ormai da troppi anni. È venuto il tempo di prendere atto della realtà sociale e riconoscere piena cittadinanza ai diritti delle coppie omosessuali. Nessuno va a toccare i diritti di chi già ne ha. Semmai si cambia la vita a chi finalmente se li vede riconoscere».

Il dibattito però si è spostato altrove, sulla cosiddetta «stepchild adoption»

«Tradotto in italiano fa meno paura perché significa: prendersi cura del figlio del partner, ad esempio in caso di morte del genitore naturale. Più che un diritto, a me sembra un dovere».

Non teme, come qualcuno, che diventi il cavallo di troia per l’«utero in affitto»?

«La maternità surrogata riguarda, per la quasi totalità, coppie eterosessuali. E comunque in Italia è un reato e tale resterà. Quindi poco c’entra con le unioni civili».

Altro tema controverso: l’immigrazione. Come giudica la chiusura di alcune frontiere?

«Sigillare le proprie frontiere davanti alla storia è un’illusione e un atto di egoismo che indebolisce l’Europa: accogliere i rifugiati è un dovere morale e giuridico. Non si può tornare indietro su Schengen, ma andrebbero rivisti gli accordi di Dublino che penalizzano i Paesi di prima accoglienza».

Chi non vuole i profughi cita il caso di Colonia e delle donne minacciate

«E’ stata una vergogna inqualificabile e inaccettabile, per la quale servono condanne spero esemplari. Certo, occorre capire se vi sia stata una regia, di che tipo e volta a quale scopo: domande inquietanti che esigono una risposta. Ma sulla libertà di tutti e sui diritti delle donne siamo disponibili solo a passi avanti, non indietro. Su questi valori non possono esistere mediazioni o giustificazioni».