“Donna è…”

Autorità, Signori e signore,

sono particolarmente lieto di essere oggi insieme a voi a condividere questo momento di riflessione e allo stesso tempo di celebrazione del ruolo della donna nella società contemporanea. Ringrazio per l’invito la Presidente della Rai, Anna Maria Tarantola: ho accettato con grande piacere perché sono convinto che il confronto sul tema della parità di genere non possa prescindere da una partecipazione attiva anche degli uomini.   

D’altronde ho nobili antesignani in questo senso: la stessa Millicent Fawcett, fondatrice nel 1872 del movimento delle “suffragette” inglesi, cercò – senza successo – di coinvolgere gli uomini in questo cammino di emancipazione. In circa un secolo e mezzo si è compiuta una lenta, lentissima rivoluzione. Si è concretizzata quella che sembrava una semplice, irrealizzabile utopia. Questa determinazione dovrebbe esserci sempre da esempio.

Voglio ricordare alcuni passaggi, per capire quanto sforzo è occorso al raggiungimento di questi obiettivi: quando il Ministro dell’interno Ubaldino Peruzzi propose, nel 1863, di estendere il diritto di voto amministrativo alle donne, la risposta del relatore alla Camera del disegno di legge chiuse la questione affermando: “I nostri costumi non consentirebbero alla donna di frammettersi nel comizio degli elettori, per recare il suo voto”.

Una infaticabile sostenitrice del diritto di voto alle donne nell’ottocento fu la giornalista Anna Maria Mozzoni, che nel 1881, durante un Comizio per la riforma della legge elettorale, pronunciò queste parole:

“Da un secolo ormai la donna protesta contro questo stato di cose in tutti i paesi civili. Essa afferma il suo diritto al voto perché è persona libera e completa. […] Proclamando il suffragio universale per voi soli, allargate il privilegio, proclamandolo con noi, lo abolite […] Rivendicando il voto per tutti voi fate un emendamento al presente, rivendicandolo per noi chiedete l’avvenire”.

Questa richiesta di futuro ebbe risposta pienamente solo molti anni più tardi, nel 1946. Con qualche perplessità però, in occasione del referendum del 2 giugno, il Corriere della Sera dava alcuni consigli alle donne in vista del loro primo voto con un articolo intitolato “Senza rossetto nella cabina elettorale”, dove si poteva leggere: “Siccome la scheda deve essere incollata e non deve avere alcun segno di riconoscimento, le donne nell’umettare con le labbra il lembo da incollare potrebbero, senza volerlo, lasciarvi un po’ di rossetto e in questo caso rendere nullo il loro voto. Dunque, il rossetto lo si porti con sé, per ravvivare le labbra fuori dal seggio.”

Ma la strada per l’uguaglianza era ancora lunga. Voglio farvi un esempio che riguarda la mia vita precedente di magistrato. L’art. 7 della legge n. 1176 del 1919  ammetteva le donne all’ esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall’ esercizio della giurisdizione. Nell’ordinamento giudiziario del 1941 venne confermata questa esclusione. Durante il dibattito in seno all’Assemblea Costituente ci si interrogò in merito all’accesso delle donne in magistratura, ma la paura prevalse con queste motivazioni: l’on. Cappi sostenne che, cito, “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento”; l’on. Molè invece che volle precisare che, testuale, “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’ uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile”. Ci volle una sentenza della Corte Costituzionale del 1960 affinché, finalmente, nel 1963 il Parlamento approvò una norma (L. 66/1963) che consentì l’ accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici,  compresa la magistratura. Quindi solo nel 1963 venne bandito il primo concorso aperto alle donne, e due anni dopo otto di loro risultarono vincitrici.

Queste digressioni servono a renderci chiaro quanto la battaglia per il riconoscimento della parità di genere sia stata lunga, difficile, e ancora in corso. Oggi sono sempre più numerose, nel mondo e in Italia, le donne che  occupano posizioni di grande rilievo. Anche in politica la presenza delle donne si sta radicando sempre di più. Ad oggi il numero delle Senatrici in carica è circa il 30% dei componenti dell’Assemblea. Un buon risultato, ma confido che con la riforma elettorale attualmente in discussione si possa tranquillamente raggiungere una vera parità di genere. Io sono convinto però che la parità deve essere conseguita andando anche “oltre le regole”, oltre il concetto di quote, anche perché sappiamo che dove si viene nominati le percentuali premiano gli uomini, mentre dove si accede per regolare concorso sono le donne a prevalere.

Al riconoscimento delle doti e delle qualità del mondo femminile, non è ancora seguito in modo completo quel salto di qualità ulteriore che è costituito dal raggiungimento di posizioni di vertice, in completa parità con l’universo maschile. Nell’attuale momento di crisi che investe mercati, Stati, società civile, non è un caso che i Paesi a più alta occupazione siano quelli dove la partecipazione femminile al mondo del lavoro è stata garantita in modo efficace.

Il riconoscimento del principio della parità tra i sessi è un tema in cui credo molto e che ho spesso sottolineato anche in occasione di incontri con rappresentanti istituzionali esteri. Non ho mancato di ribadire questo fondamentale principio anche in quei Paesi, come la Tunisia, che solo di recente, con la nuova Costituzione approvata alla fine del gennaio scorso, stanno riconoscendo alle donne il diritto di studiare, lavorare, il diritto a vivere liberamente le proprie aspirazioni e a dare corso alle proprie capacità.

Non si può immaginare l’evoluzione di una società pienamente democratica senza immaginare l’evoluzione del ruolo della donna: sono due facce della stessa medaglia. E’ quanto ho avuto modo di sottolineare anche nei miei incontri istituzionali in Afghanistan, dove la condizione della donna ancora oggi costituisce un capitolo molto controverso del cammino verso la stabilizzazione democratica del Paese.

E’ necessaria dunque una collaborazione di tutti, istituzioni, scuola, famiglia perché la piena affermazione della dignità della donna e il rispetto della sua persona diventino per tutti noi imperativi categorici.

Un ruolo fondamentale è svolto dalla comunicazione. Gli stereotipi veicolati da televisione, giornali, riviste, hanno prodotto modelli del femminile e del maschile estremi sotto il profilo della differenza di genere. C’è una frase di un critico cinematografico francese, Serge Daney, che descrive bene quello che ormai è accettato come evidente: “La televisione rappresenta l’inconscio a cielo aperto della nostra società”. Se è così, l’inconscio del nostro Paese ha bisogno di un’analisi seria, approfondita e radicale. Occorre fare qualche sforzo in più di immaginazione, di creatività e di rispetto. Non mi riferisco solo al noto discorso sul “corpo delle donne”, che altri e meglio di me hanno già affrontato e discusso in moltissime sedi. Parlo di andare oltre stereotipi e pregiudizi, sia positivi che negativi, che bloccano l’immaginario del nostro sistema mediatico, e quindi il nostro, a parecchi decenni fa. Il ruolo importante che il sistema televisivo dovrebbe assumersi è quello di restituirci, in forma artistica o comunque mediata, la complessità del reale, con tutte le sue sfide, i suoi problemi, le sue soluzioni. Oggi, lo dobbiamo riconoscere, stiamo assistendo ad un’inversione di tendenza, che è frutto anche dell’impegno e della costanza con cui i diversi media stanno affrontando il tema. Sono certo che la radio e la televisione, che oggi celebrano due importanti compleanni, non mancheranno di battersi perché questa sfida comune possa realizzarsi.

Con l’auspicio che questa iniziativa non sia isolata, ma possa incoraggiare altri momenti di riflessione in grado di valorizzare e tutelare sempre di più il mondo femminile, il mio augurio va a tutte le donne, nella speranza che sia sempre più consentito loro, in ogni ambito, la piena realizzazione morale e professionale.

In ricordo di Mario Luzi

Ricorre quest’anno il centenario della nascita di Mario Luzi, una delle figure più eminenti della cultura, della poesia e della letteratura del Novecento. La sua nomina a senatore a vita, il 14 ottobre 2004, rappresenta la sintesi di un lungo percorso culturale e civile: aver illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo letterario ed artistico. Al presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, che gli aveva dato personalmente la notizia della nomina, Mario Luzi così rispondeva commosso: «Grazie, Presidente Ciampi, è proprio un regalo inaspettato per i miei 90 anni».

Nato il 20 ottobre 1914 a Castello, presso Firenze, Mario Luzi ha attraversato e vissuto i momenti più intensi e drammatici della storia d’Italia, dal fascismo alla guerra, dal boom economico al terrorismo. Nella sua poesia, le pulsioni, le tensioni, le aspirazioni dell’Italia costituivano una sorta di melodia continua sottofondo e prospettiva di parole sempre fresche, autentiche, vissute. Fin da giovane, negli anni Trenta, Luzi prese parte all’intensa vita culturale di Firenze, stringendo legami con gli intellettuali che frequentavano il famoso Caffè “Giubbe Rosse”, da Betocchi a Bo, da Pratolini a Bilenchi.

Dal 1938 insegnò nelle scuole medie e dal 1955 nelle università di Firenze e Urbino. Per tutta la vita proseguì la sua opera di maestro e di educatore e la sua fu fino alla fine una «pedagogia della testimonianza».

Il primo momento della poesia di Mario Luzi è stato più propriamente ermetico: al 1935 risale la sua prima raccolta, «La barca», alla quale è seguito «Avvento notturno», testo esemplare di quello che la critica chiamerà «ermetismo fiorentino». Ricchissima la produzione successiva, che scandisce le tappe e gli sviluppi di un itinerario poetico fra i più articolati del Novecento italiano, passando attraverso la fase dell’esperienza, dell’esistenza, della sintesi finale tra l’uomo, la sua coscienza e l’assoluto.

Tutta la sua vita e il suo impegno civico sono stati un continuo dialogo, come sospeso tra poesia, riflessione filosofica, esperienza umana.

Tema dominante della poesia di Mario Luzi è la contrapposizione, piena d’angoscia, tra tempo-eternità ed individuo-cosmo. La sua poesia è una sorta di drammatico conflitto tra un «Io», che aspira al sublime, e la realtà quotidiana. Il discorso che ne nasce si fa dialogo interiore – con se stesso – ed esteriore – con gli altri. Dialogo che trasforma l’interiorità in cassa di risonanza delle storie individuali e della storia collettiva, voce della coscienza dei singoli e della civiltà di un intero popolo.

La sintassi, inizialmente costretta entro moduli chiusi, si accosta gradualmente al parlato fino a raggiungere, da «Onore del vero» in poi, un singolare equilibrio di recitativo e canto. E questo era il destino della sua poesia: dischiudere il dato di realtà, nella sua essenzialità, alla forza ideale ed eterna dell’intuizione artistica.

Alla produzione poetica si affiancano il teatro e la critica letteraria su autori italiani e stranieri. Per Luzi autore di testi teatrali non c’è scissione tra prosa e poesia: tutto è incanto e disincanto, arte ed esperienza, realtà e ideale.

Ma oltre che poeta e critico, Luzi è stato anche un protagonista del suo tempo, sia per l’attività di insegnante di liceo e professore universitario, sia come uomo sempre disponibile al dialogo e al confronto dialettico, dall’intervista all’articolo di giornale, fino al dibattito pubblico. Per Mario Luzi insegnare non rappresentava un esercizio di didattica, non consisteva nella mera trasmissione di nozioni da docente a discente. Insegnare significava testimoniare e, grazie alla sua testimonianza, le giovani generazioni potevano «scoprire» il sapere senza subirlo, facendolo proprio. Il sapere era per lui esercizio di libertà.

Importanti sono stati i suoi viaggi, in Italia e nel mondo, tra i quali ricordiamo quello in Russia nel 1966 e quello in India nel 1968.

Collaborò con molti quotidiani della sua epoca, con il «Corriere della Sera» dal 1967 a 1974 e con «Il Giornale» dell’amico Indro Montanelli, fino ai primi anni Novanta. Dal 1991, a partire dalla prima guerra del Golfo, espresse chiaramente il proprio dissenso verso il ritorno alla pratica armata da parte delle grandi potenze. Il suo convincimento si tradusse in radicato e coerente impegno civile.

Nominato senatore a vita, Luzi fece il suo ingresso a Palazzo Madama il 9 novembre 2004, dove tornò ancora il 15 dicembre e il 10 febbraio successivi. Intese quella nomina con rinnovata responsabilità e impegno. L’ultimo intervento pubblico, pochi giorni prima della sua scomparsa, avvenuta il 28 febbraio 2005, fu per la liberazione della giornalista Giuliana Sgrena rapita in Iraq.

Nella seduta del Senato del 1° marzo 2005, il Presidente del Senato, nel dare all’Assemblea la triste notizia della sua morte, intese rendergli omaggio pubblicando nel resoconto il testo di un intervento che avrebbe voluto pronunciare in Aula. Desidero ricordare oggi un passaggio delle sue riflessioni: «L’Italia è un Paese in fieri, come le cattedrali. Lo è secolarmente, non discende da una potestà di fatto come altre Nazioni europee, viene da lontani movimenti sussultori fino alla vulcanicità dell’Ottocento e del Novecento».

Già nel 1958, in uno studio a lui dedicato, Andrea Zanzotto lo definiva così: «Nessuno come Luzi ha espresso il senso più profondo di questi anni di speranze deluse, sospinte sempre verso un fantomatico futuro, in un clima di “immutabilità del mutamento” storico-politico».

Il suo monito resta per noi di inalterata attualità: recuperare il senso della storia significa innanzitutto costruire una prospettiva. Onorevoli colleghi, in ricordo di Mario Luzi, invito l’Assemblea a rispettare un minuto di silenzio e di raccoglimento.  Salutiamo il figlio di Mario Luzi, che ha seguito con noi la commemorazione e che è presente in tribuna. 

La grande riforma: un atto mancato

Autorità, gentili ospiti, cari Anna e Giuseppe Cossiga,

sono lieto di ospitare in Senato l’incontro di questa mattina, dedicato al ricordo del Presidente emerito Francesco Cossiga in relazione a una sua iniziativa che costituisce un passaggio fondamentale della nostra storia repubblicana.

Il messaggio alle camere sulle riforme costituzionali del 26 giugno 1991 rappresentò e rappresenta tuttora un unicum nel panorama di questa tipologia di atti presidenziali. Ciò sia per la forma, sia per il contenuto. Dopo aver rievocato la cornice storica  e politica della fase costituente della nostra Repubblica, e aver ricostruito le trasformazioni economiche e sociali del paese dal dopoguerra ad allora, il presidente Cossiga sottolinea la necessità di una complessiva revisione dell’assetto istituzionale e indica quali principali questioni la forma di governo, il sistema elettorale, il ruolo delle autonomie, la disciplina dell’ordine giudiziario, i nuovi diritti di cittadinanza e gli strumenti relativi alla finanza pubblica. Più che ad un messaggio, il Parlamento si trovò di fronte quasi a un piccolo trattato che, nelle sue ottanta pagine, affrontava in ogni aspetto il tema delle riforme, con le numerose e delicate questioni connesse. Il tono è alto e appassionato, dotto e a tratti ironico, fa trasparire insomma tutta la straordinaria cultura giuridica e politica e la personalità non comune di Francesco Cossiga.

Il messaggio prendeva avvio dagli sconvolgimenti internazionali di quegli anni che, con la fine del blocco sovietico, avevano inevitabilmente fatto saltare gli equilibri interni al sistema politico del Paese retti sulla conventio ad excludendum e parallela conventio ad consociandum che avevano caratterizzato, nel bene e nel male, i rapporti tra i due principali partiti della Repubblica. Il tema delle riforme costituzionali era in realtà materia già frequentata e assai abusata: l’invecchiamento dell’assetto organizzativo dei poteri dello Stato era cosa riconosciuta quasi unanimemente e vari, ancorché infruttuosi, tentativi erano già stati compiuti in tal senso.

Lo stesso Francesco Cossiga, giurando dinanzi al Parlamento in seduta comune, auspicava, cito,  “adattamenti dell’assetto istituzionale” aventi “come fine un ordinamento più efficiente, più moderno e maggiormente garantito”. Ciò che fino ad allora aveva avuto il carattere dell’opportunità assumeva allora quello dell’urgenza: lo iato tra lo straordinario sviluppo economico e sociale del paese e un sistema costituzionale e amministrativo caratterizzato da palesi disfunzioni sembrava destinato a non reggere a lungo sotto i colpi della storia. Cossiga, con lungimiranza, era preoccupato anche dalle sfide poste dal completamento del Mercato comune europeo e dal rischio, in assenza di strutture pubbliche adeguate, che questo fosse “dominato soltanto dalla grandi forze economiche”. Soprattutto, però, temeva che scoppiasse con virulenza – cito le sue parole – “il problema della corrispondenza tra istituzioni consolidate e realtà sociale” aggravato da una “involuzione oligarchica” del sistema dei partiti: “Il processo riformatore, pertanto,  deve anzitutto trarre alimento dalla primaria esigenza di recuperare la fiducia del popolo nelle istituzioni democratiche e rappresentative, a cominciare dagli stessi partiti”. (Fine della citazione)

L’appello del presidente rimase inascoltato, la grande riforma non ebbe luogo e, di lì a poco, un intero sistema sarebbe franato sotto la spinta convergente delle inchieste giudiziarie, dell’insostenibile situazione dei conti pubblici, delle stragi di mafia, aprendo la strada a una singolare “seconda repubblica” a Costituzione invariata. Non possiamo sapere cosa sarebbe successo se il Parlamento avesse dato corso alle riforme auspicate, o comunque se avesse posto le basi per avviare, nell’XI legislatura, una reale fase costituente, come auspicato da Francesco Cossiga nella consapevolezza che il tempo a disposizione fosse ormai poco, pochissimo: di sicuro l’urgenza di allora non è venuta meno. Anzi: si è aggravata.

Gli ultimi ventitré anni, costellati di nuovi, ripetuti e falliti tentativi di rivedere in profondità l’assetto delle nostre istituzioni, non hanno potuto che accrescere questa urgenza. Se il sistema non è più rispondente alle esigenze di oggi, così come non lo era già nel 1991 e ancor prima di allora, è perché il cammino di questi anni è costellato di occasioni mancate. Il fatto che l’unica riforma organica entrata in vigore, quella del titolo V, abbia sollevato e sollevi innumerevoli questioni applicative, necessitando essa stessa di una nuova revisione, non può certo essere un argomento a favore dell’immobilismo, ma semmai un monito sul metodo da utilizzare per giungere al traguardo. Faccio mie queste parole di Francesco Cossiga, la cui validità resta estremamente attuale: “La richiesta di riforme istituzionali non è una richiesta solo ‘politica’ o tanto meno ‘ di ingegneria costituzionale’, ma è una richiesta civile, morale e sociale di governo, di libertà, di ordine, di progresso da parte della gente comune”.

Oggi più che allora c’è una forte domanda di cambiamento da parte dei cittadini: questa domanda deve essere ascoltata e soddisfatta nella sostanza di ciò che chiede. Se il processo di riforma che apprestiamo ad avviare in Parlamento fosse guidato dall’intento di compiacere superficialmente l’opinione pubblica, senza affrontare i problemi in chiave organica, si consumerebbe un tradimento del Paese e dei cittadini. Parliamo, ad esempio, del bicameralismo. La sua revisione, oggetto di dibattito già dai primi tempi della Repubblica, è oggi volontà condivisa. Ho già avuto modo di esprimermi sul tema, ma ritengo giusto tornarci ora che il processo di riforma sembra più vicino. La riduzione dei costi dell’intera macchina dello Stato è un obiettivo da perseguire con coerenza e determinazione: non si può però ripensare il bicameralismo solo con la calcolatrice alla mano. Al Paese servono istituzioni efficienti: queste, poi, devono anche contenere i costi di funzionamento. Dico questo perché anche nell’ipotesi di scuola in cui avesse un bilancio pari a zero, un’istituzione che non riesce ad ottenere gli obiettivi prefissati e a garantire rapidità di intervento rappresenterebbe comunque un freno rilevante per il Paese.

La società di oggi è più complessa rispetto a quella della metà del secolo scorso e solo un sistema bicamerale può garantire un efficiente governo della complessità. Le esperienze dei maggiori Paesi, europei e non solo, lo testimoniano.

In un momento storico in cui le duplicazioni e gli sprechi non possono essere più tollerati, ogni istituzione, deve avere una sempre maggiore legittimazione popolare. Tale legittimazione deve trasparire innanzitutto dalle funzioni dell’organo assembleare, e in base a queste dalla definizione della sua composizione. Occorre trovare un nuovo equilibrio, ferma restando la necessità di una significativa riduzione del numero dei parlamentari. Se, da un lato, si intende attribuire alla Camera, in via esclusiva, il rapporto fiduciario con l’esecutivo, dall’altro il Senato, libero dalle implicazioni di tale rapporto, potrebbe esercitare, sempre in via esclusiva, le funzioni del Parlamento inerenti il rapporto con le autonomie territoriali, lo svolgimento della funzione di controllo, comprese le commissioni d’inchiesta, le nomine, i rapporti con il Parlamento europeo. Una volta identificati gli ambiti di competenza tra le due Camere, sarà più agevole rivedere il procedimento legislativo, sia nei modi sia nei tempi, garantendo le dovute corsie preferenziali ai disegni di legge di iniziativa governativa, ponendo così un limite all’irrefrenabile dilagare della decretazione d’urgenza.

Che sia una “grande” o una “piccola” riforma, “nessuna riforma istituzionale – concludo con le parole del Presidente Cossiga – ha mai da sola risolto i problemi di una società: a questo fine, è necessario l’impegno della società stessa, a tutti i livelli. […] Una sola opera di ingegneria costituzionale […] non molto potrebbe ai fini di un mutamento profondo del modo di essere e di operare di uno Stato moderno, se non si combinasse con una reale metànoia (ripensamento, ndr) del modo di fare politica, che coinvolga partiti, movimenti, cittadini, gruppi, ed insieme rinnovi concezioni, mentalità ed abitudini: […] metànoia (ripensamento, ndr) della politica e riformismo istituzionale debbono essere momenti distinti ma sinergici di un’unica ed autentica rivoluzione democratica”. Un monito profetico, parole cariche di consigli utili in questi giorni così carichi di attesa.

Personale Camera e Senato: incontro dei Presidenti

I  presidenti  del  Senato  e della Camera, Pietro Grasso e Laura Boldrini, unitamente  alle  vice  presidenti responsabili degli affari del personale, Valeria  Fedeli  e  Marina  Sereni,  si  sono  incontrati oggi pomeriggio a Palazzo Madama per esaminare i diversi aspetti del processo di integrazione delle  attività  svolte dalle due amministrazioni e di armonizzazione delle normative concernenti il personale.

E’  stato  definito  un  calendario  fino  al mese di giugno per i relativi adempimenti.

Giovanni Spadolini: la questione ebraica e lo Stato d’Israele

Cari amici, gentili ospiti,

è con vivo piacere che oggi ospitiamo la cerimonia di presentazione del libro di Valentino Baldacci “Giovanni Spadolini: la questione ebraica e lo stato d’Israele”, edito nella collana “Nuova Antologia” della Fondazione Spadolini diretta dal Presidente Cosimo Ciccuti, che saluto e ringrazio. L’opera presenta un excursus accurato dell’articolata posizione di Spadolini nei confronti della questione ebraica, consentendo di ripercorrere il percorso del giornalista, dello storico, del politico e dello statista, uno dei protagonisti indiscussi della storia delle nostre Istituzioni.

I legami tra Spadolini e il mondo ebraico furono intensi e costanti nel tempo, al punto che lo Stato di Israele gli intitolò un bosco e che gli furono concesse due lauree honoris causa in filosofia, dall’Università di Tel Aviv nel 1987 e dall’Università di Gerusalemme nel 1992, due anni prima della sua scomparsa. Un forte legame intellettuale che passò attraverso l’amicizia con Shimon Peres, e una coerenza politica che spesso lo portò in contrasto con vasta parte dell’opinione pubblica del nostro Paese e dei suoi più autorevoli esponenti politici del tempo.

La posizione di Spadolini nei riguardi del sionismo e della questione ebraica era frutto di un approccio culturale maturato negli anni. Il suo pensiero assunse diverse sfumature, articolandosi su più dimensioni: storica, etica e di politica internazionale. La sua fine sensibilità di storico lo indusse a individuare un parallelismo tra il Risorgimento italiano e quello ebraico, sottolineando le affinità che legavano i nostri “padri della patria”, Giuseppe Mazzini e Carlo Cattaneo, e il “padre di Israele”, Theodor Herzl. Egli vedeva nella formazione dello Stato d’Israele l’incarnazione di principi etici che devono guidare l’azione politica, quali lo spirito di libertà e di tolleranza universali.

La sua visione di politica internazionale fu coerente nel corso degli anni e in costanza dei numerosi incarichi istituzionali che egli ricoprì. Come Ministro, in varie occasioni, come Presidente del Consiglio dei Ministri e infine come Presidente del Senato e Senatore a vita rimase sempre fedele alle sue opinioni, anche in momenti cruciali che lo misero alla prova.

In occasione dell’attentato alla Sinagoga di Roma, nel 1982, fu l’unico politico italiano ammesso dalla comunità ebraica al funerale del bambino Stefano Taché. Nello stesso anno, da Presidente del Consiglio, rifiutò di ricevere Arafat a Palazzo Chigi e lo fece solo nel 1990, da Presidente del Senato, in seguito alla Dichiarazione di Algeri del 1988 con cui l’Olp accettò le risoluzioni delle Nazioni Unite, riconoscendo così il diritto all’esistenza per tutti gli Stati della regione, compreso Israele. Fu uno dei protagonisti della crisi di Sigonella nel 1986 e dissentì dalla linea tenuta dal Presidente del Consiglio Craxi e dal Ministro degli Affari esteri Andreotti.

Mi piace ricordare che una parte rilevante dello straordinario percorso politico e istituzionale di Spadolini si è svolta proprio qui, fra Palazzo Giustiniani e Palazzo Madama. Come Presidente del Senato, dal 1987 al 1994, si fece portavoce di una visione più ampia, riflettendo sui problemi dell’ebraismo e dell’antisemitismo in generale come nella sua prefazione al volume edito dal Senato della Repubblica nel 1998 “L’abrogazione delle leggi razziali in Italia”.

Voglio chiudere ricordando il discorso che pronunciò ad Auschwitz il 27 gennaio del 1994 pochi mesi prima della sua scomparsa, un vero testamento spirituale, un invito a coltivare la memoria del passato ed assumere il dovere del futuro. Il libro che presentiamo ha il grande merito di mostrare il lascito di Giovanni Spadolini: l’ampiezza del suo orizzonte culturale, l’onestà intellettuale e la coerenza. Alla sua vita e alla sua opera guardiamo con ammirazione.

 

Grazie.

Oltre le élite. La politica internazionale in Italia

Cari relatori, gentili ospiti,

sono molto lieto di ospitare in Senato questa Conferenza, dedicata a celebrare la duplice ricorrenza dell’80° anniversario dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale e il 20° anniversario della Rivista Italiana di Geopolitica Limes. Conosco ed apprezzo molto il contributo che entrambe queste realtà negli anni hanno offerto agli studi geopolitici e internazionali, unendo approccio scientifico e divulgativo e rivolgendosi a professionisti, funzionari pubblici, imprenditori, studenti e ricercatori. Lo dico perché credo fermamente che proprio in questo momento di grave crisi, non solo economica e politica ma soprattutto etica ed identitaria, il Paese abbia bisogno di opporre idee, riflessioni, approfondimenti all’autoreferenzialismo, all’approssimazione e al vuoto di strategie.

Il titolo dell’incontro di oggi (Oltre le elite. La Politica internazionale in Italia) denuncia una generale disattenzione da parte della politica, dei media e delle istituzioni per la politica internazionale, che sembra incapace di sollevare  l’interesse della pubblica opinione, se in modo occasionale e superficiale, di animare spinte ideologiche soprattutto tra i giovani e di ispirare progetti strategici per il futuro del Paese.

Non è affatto un fenomeno nuovo. Vi riflettevo oggi, anche con una certa amarezza, rileggendo l’editoriale del primo numero di Limes, datato febbraio 1993. Il direttore Caracciolo segnalava la drammatica caduta del prestigio e della legittimazione delle istituzioni e della politica italiana; denunciava il grave ritardo di cultura nazionale e di pensiero geopolitico; e sollecitava la riflessione sull’interesse nazionale, esortando quindi a “pensare in termini geopolitici” per “stabilire il nostro interesse nazionale”. Come dire: capire chi siamo e definire cosa vogliamo.

Quasi vent’anni più tardi, nel 2011, l’Annuario La politica estera dell’Italia, edito dall’ISPI e dallo IAI, segnalava la duplice vulnerabilità ed insicurezza della politica estera italiana: sia verso l’esterno – per le fragilità che interessano i due versanti obbligati della politica estera italiana, la penisola balcanica e la sponda sud del Mediterraneo -, sia verso l’interno, a causa delle persistenti debolezze del quadro politico interno e dell’identità nazionale e delle croniche carenze di risorse e strumenti destinati alla proiezione internazionale del Paese.

Questa debolezza “genetica” della nostra concezione della geopolitica riguarda al tempo stesso la rappresentazione e la sostanza della nostra politica internazionale. La cultura e l’informazione hanno mancato di approfondire con organicità il quadro di un sistema mondiale in fortissimo cambiamento, sotto il profilo politico, sociale ed economico e a volte hanno restituito solo gli aspetti meno profondi delle crisi e degli eventi, spesso interessandosi delle implicazioni di politica interna italiana piuttosto che dei fenomeni. L’opinione pubblica italiana ha quindi mancato di sviluppare una vera “coscienza geopolitica”, una realistica visione del Paese nel mondo, e al tempo stesso ha continuato a sfuggire la definizione della nostra identità nazionale e dei nostri interessi.

Alle istituzioni e alla politica ha fatto difetto la capacità di guardare oltre la singola crisi, pensando al medio e lungo periodo come normale dimensione temporale della politica estera. Alla politica italiana è mancato il pensiero strategico. Una politica estera solida e lungimirante richiede partiti e istituzioni legittimati e radicati sul territorio, capaci di riconoscersi nella comune identità nazionale, di definire e perseguire insieme gli interessi del Paese nel mondo. Non dobbiamo però rassegnarci a considerare ineluttabile questa tendenza, e dobbiamo invece saper affrontare le criticità odierne come un’opportunità per lavorare sulle aree di fragilità e vulnerabilità, rafforzando gli strumenti, i processi e i valori che il nostro Paese può mettere in campo sullo scenario internazionale.

Il Rapporto introduttivo dell’Annuario La Politica Estera dell’Italia del 2013 ben delinea il quadro internazionale generale, che è segnato dalla crisi economica, dalla redistribuzione del potere e dei baricentri geopolitici e dal moltiplicarsi di domini caotici, sottratti al controllo degli Stati, come il terrorismo, la criminalità organizzata e l’economia illegale. Mentre il numero di dicembre 2013 di Limes “Che mondo fa” individua le tre grandi crisi che trovano convergenza in Italia: crisi dell’Eurozona (e del progetto europeo), crisi del Grande Mediterraneo e crisi dei Balcani. Crisi che investono in profondità l’identità e la stessa sovranità nazionale, con implicazioni nei settori più sensibili: la politica economica e monetaria; la sicurezza interna ed esterna; la stessa tenuta del tessuto sociale e politico.

La strada per affrontare queste sfide con successo è quella di rilanciare la posizione dell’Italia nel mondo, definendo il ruolo che il Paese può e vuole assumere nelle diverse aree, anche in rapporto alle risorse e agli strumenti effettivamente disponibili. Solo scegliendo e prendendo posizione l’Italia potrà svolgere in Unione Europea e nella comunità internazionale il ruolo di rilievo che le spetta. Le potenzialità non mancano. Voglio citare ad esempio il positivo contributo che il nostro Paese sta apportando alla soluzione della crisi siriana, nel quadro dei complessi equilibri nell’area; e il sostegno alla stabilizzazione del Libano e dell’Afghanistan.

Questo processo deve riguardare tutte le istituzioni ed articolazioni dello Stato. Personalmente, già nella mia precedente funzione di Procuratore Nazionale Antimafia ho avuto modo di viaggiare e sottoscrivere una serie di accordi di cooperazione con decine di paesi del mondo, una sorta di “diplomazia penale”, si potrebbe dire.

Nel mio ruolo attuale di Presidente del Senato, mi preme sottolineare l’importanza della funzione che il Parlamento è chiamato a svolgere rispetto alla definizione della politica estera, attraverso la trasparenza e la pubblicità del controllo democratico. La politica estera richiede per sua natura un’unitarietà di indirizzo che trova nell’esecutivo il principale punto di riferimento istituzionale. Ma le Camere devono sapere intensificare l’attività di indirizzo e controllo, utilizzando tutti gli strumenti a disposizione – sindacato ispettivo, mozioni, risoluzioni – per comprendere i fenomeni geopolitici, e quindi orientare e valutare l’operato del Governo in tale ambito. La stessa dimensione della cooperazione interparlamentare, che finora non sembra aver conseguito risultati incoraggianti, in prospettiva potrebbe rivelarsi strategica per rafforzare gli strumenti di lettura ed analisi della politica estera a disposizione del Parlamento.

Se è vero che la crisi di identità internazionale del nostro Paese ha profonde radici interne, nel tessuto economico, politico e sociale, dobbiamo considerare prioritarie due sfide. Quella economica richiede il coraggio di cogliere la crisi come una sfida di rinnovamento delle dinamiche e dei rapporti produttivi in essere, per promuovere la crescita e il lavoro. A questo fine occorrerà anche riformare la giustizia civile la cui inaccettabile lentezza è ostacolo ai diritti delle persone e agli investimenti; semplificare la pubblica amministrazione e le sue procedure; avversare con determinazione i fenomeni di economia sommersa e criminale che alimentano circuiti viziosi di dipendenza e sviliscono i fattori produttivi sani del Paese. La seconda sfida è quella collegata al rinnovamento interno dei partiti, etico e non solo, e alla riforma del sistema elettorale e delle istituzioni.

Come Calamandrei, credo che le riforme debbano sapere guardare lontano. Ma essere lungimiranti presuppone che si salvaguardi sempre la coerenza complessiva del sistema e che si aumenti il tasso di democraticità del Paese, senza alterare il delicato equilibrio costituzionale. Per questo, il nuovo corso della politica estera italiana dovrà radicare il suo apporto innovativo nella continuità e nel rispetto della tradizione, dovrà saper essere inclusivo senza mai compromettere l’unitarietà dell’indirizzo politico. All’Ispi e a Limes spetta il compito di accompagnare la politica e le istituzioni in questo difficile percorso di maturazione. Nel ringraziarvi ancora per il prezioso apporto fornito in questi anni, porgo a tutti voi i miei migliori auguri di buon lavoro.

 

Presentazione del libro “Giovanni Spadolini: la questione ebraica e lo Stato d’Israele”

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Sarà il Presidente del Senato, Pietro Grasso, ad aprire l’incontro dedicato alla  presentazione del libro di Valentino Baldacci “Giovanni Spadolini: la questione  ebraica e lo Stato d’Israele – Una lunga coerenza”, in programma martedì  25  febbraio,  alle  ore  17,  presso la Biblioteca del Senato che prende il nome proprio dall’ex Presidente di Palazzo Madama.

Interverranno  l’Autore,  il  senatore  Luigi  Compagna,  Stefano Folli, il Presidente  dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna, il Presidente  dell’ABI  Antonio  Patuelli,  il Consigliere dell’Ambasciata di Israele   Amit  Zarouk.  L’incontro  sarà  coordinato  da  Cosimo  Ceccuti, Presidente della Fondazione Spadolini Nuova Antologia.

 

Colloquio telefonico con Matteo Renzi

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Il  Presidente  del Senato, Pietro Grasso, ha augurato buon lavoro a Matteo Renzi nel corso di un cordiale colloquio telefonico. Il  Presidente  Grasso  ha   quindi  confermato l’appuntamento di lunedì 24 febbraio  alle  ore 14 nell’Aula del Senato per il dibatttito sulla fiducia al nuovo Governo.

Open data Senato. Una nuova sfida nel segno della trasparenza

“Il  termine ‘trasparenza’ acquista oggi nuovi significati. Essere presenti in Rete con un sito continuamente aggiornato e arricchito di informazioni è il  primo passo, necessario ma non più sufficiente”.  E’ quanto dichiara il Presidente   del   Senato,   Pietro   Grasso,   alla  vigilia  del  secondo International  Open  Data Day che si svolge domani, 22 febbraio, con decine di  appuntamenti  in  4  continenti.  In  Italia esperti e appassionati del settore  si  riuniranno negli incontri programmati in diverse città, con un convegno   che   funzionerà  da  punto  di  raccordo  a  Roma,  nella  sede dell’Archivio  Centrale  dello  Stato.  Il Senato parteciperà all’Open Data Day,  come  già lo scorso anno, illustrando le iniziative di Palazzo Madama in questo settore, a partire dal sito dati.senato.it.

“Il  progresso tecnologico – afferma ancora il Presidente del Senato – pone nuove  sfide, in primo luogo alle Istituzioni che devono rispondere aprendo i  propri  archivi  e  fornendo  informazioni in formati standard e secondo protocolli internazionali che favoriscono l’interscambio, la rielaborazione e il riutilizzo dei dati. E’ quanto sta facendo il Senato della Repubblica, con  il  sito dati.senato.it che aggiunge un nuovo e importante tassello ad una  offerta  informativa  già  molto importante e apprezzata, basata sulle banche dati e sul motore di ricerca del sito www.senato.it che ogni giorno, da  quasi 20 anni, rispondono alle interrogazioni di un numero crescente di utenti”.

Il   sito   dati.senato.it,   come   si   legge  nella  homepage,  fornisce “aggiornamenti  quotidiani  di  informazioni liberamente utilizzabili (dati aperti) che riguardano ogni aspetto dell’attività politica e istituzionale: i  disegni  di legge con il loro iter, le votazioni elettroniche d’Aula, le Commissioni,  i  Gruppi parlamentari e tante altre informazioni”. Si tratta di  “una  base  informativa messa a disposizione di cittadini, ricercatori, giornalisti  e  sviluppatori  per analizzare e condividere la conoscenza di cosa  viene proposto, discusso e votato dai rappresentanti del popolo nella Camera alta del Parlamento italiano”. I  dati  sono  disponibili  in  formato Linked Data e rilasciati in licenza Creative  Commons  per il libero riuso. L’architettura tecnologica è basata su  standard e migliori pratiche internazionali per consentire, ad esempio, lo sviluppo di “app” indipendenti e di terze parti, contenenti informazioni aggiornate in tempo reale. Il  sito,  attivo  sperimentalmente  da  oltre  un  anno,  ha  ricevuto una importante  menzione  nel  rapporto  di  EPSI  Platform,  iniziativa  della Commissione  europea per la diffusione degli Open Data e delle informazioni del  settore  pubblico,  che  segnala  dati.senato.it  come  la  novità più significativa in Italia insieme all’analogo servizio dell’Inps.

 

Formare all’informazione

Signor Rettore, Gentili ospiti, Cari ragazzi,

è con grande piacere che il Senato ospita ancora una volta un convegno sui temi legati all’informazione, momento essenziale per la crescita civile e culturale. L’incontro di oggi dal titolo “Formare all’informazione” sono certo ci aiuterà ancora di più a capire quanto sia importante una corretta attività di informazione, sia come espressione della professionalità di chi la esercita, sia a tutela di coloro che ne sono destinatari.

Saluto innanzitutto i relatori che hanno accettato di partecipare a questo confronto e ringrazio gli organizzatori, nella persona del Magnifico Rettore della Pontificia Università Lateranense, S.E. Monsignor Enrico dal Covolo e del Segretario dell’Associazione Stampa Romana, Paolo Butturini, per l’impegno che hanno dedicato a questa iniziativa.

Il Convegno è anche l’occasione per presentare la seconda edizione del Master in Digital Journalism al quale mi auguro, cari ragazzi, ciascuno di voi si dedicherà con impegno e con passione. L’informazione è il presupposto della conoscenza e della formazione di un’opinione e, dunque, una condizione essenziale per vivere in democrazia. L’informazione nutre il dibattito e la formulazione delle idee. L’informazione è l’anima del vivere civile. Solo un cittadino informato può compiere scelte consapevoli, esercitare i propri diritti e partecipare al processo decisionale. Non si può oggi parlare d’informazione senza tenere conto del significativo cambiamento delle modalità con le quali si raccontano i fatti con l’obiettivo di farli conoscere, ciò che chiamiamo informazione, e di metterli in comune, ciò che chiamiamo comunicazione.

La vita quotidiana di ciascuno di noi vede la presenza sempre più pervasiva di informazioni, contenuti e servizi distribuiti attraverso la rete internet e fruiti in ogni momento della nostra giornata: a casa, in ufficio e in mobilità. L’incessante sviluppo dei social media – Facebook e Twitter in primis – ci consente di estendere le nostre relazioni oltre i confini dei territori nei quali siamo fisicamente presenti, di produrre e condividere contenuti online. Possiamo utilizzare internet come una grande nuvola di dati che contiene i nostri file e ci consente di lavorare a prescindere dal luogo nel quale ci troviamo e dallo strumento che utilizziamo per collegarci online. E ancora, le possibilità di collaborazione offerte dalla capacità di networking della Rete favoriscono la creazione di gruppi di lavoro, stimolano la creatività e l’innovazione, generano nuovi modelli di business e di partecipazione sociale alla vita pubblica.

L’attività dei giornalisti, nella società attuale, alla luce di tali trasformazioni, diventa sempre più rilevante e complessa. Garantire la corretta informazione diventa una precondizione essenziale per il corretto funzionamento della democrazia e l’effettivo godimento delle libertà e dei diritti fondamentali.

Oggi disponiamo di un’enorme quantità d’informazioni e in tempo quasi reale. Ma la quantità e la rapidità delle notizie non ne garantiscono in alcun modo il livello qualitativo. Se poca informazione non consente la comprensione della realtà, allo stesso modo un’eccessiva quantità di notizie può uccidere l’informazione senza generare conoscenza. Non è di informazione quantitativa, di rumore, che la democrazia ha bisogno. Non di un fiume di notizie spesso addirittura superiore a quelle che riusciamo ad assimilare e gestire. Non di una rappresentazione riduttiva, superficiale e manipolatoria della complessità della realtà. Ricordo che ci sono giornali che hanno rubriche dedicate alle “notizie che non lo erano”, ovvero all’analisi degli errori dettati da superficialità e ricerca spasmodica della velocità invece che della verifica e dell’accuratezza.

La democrazia richiede un giornalismo responsabile. È giornalismo responsabile quello che soddisfa il diritto del cittadino a sapere e conoscere, senza trascurare i diritti con esso eventualmente confliggenti e avendo cura dei soggetti deboli coinvolti ed esposti dall’informazione.

Il sistema dei mezzi di informazione dovrebbe riconoscere e rispettare una precisa gerarchia di valori. L’etica e la moralità sono per il giornalismo un dovere assoluto, perché è diritto dei cittadini non solo e non tanto l’essere informati, ma soprattutto l’essere correttamente informati. Perché ciò sia possibile è necessario che le notizie siano “trattate”, contestualizzate, elaborate: un fatto concreto va inserito in un quadro di riferimenti ampi e complessivi, con un’analisi approfondita dei protagonisti, dei presupposti e delle conseguenze. Gli interessi che lo caratterizzano devono essere identificati e valutati in relazione all’interesse generale. Sono questi gli aspetti che qualificano l’informazione nel senso più alto e autentico del termine.

Un giornalismo professionale e qualificato, che esprime autorevolezza e credibilità nel lavoro di ogni giorno, può recuperare prestigio e funzione sociale e trovare di nuovo un ruolo primario nel gioco democratico. Un’informazione corretta e ponderata consente, infatti, ai cittadini di acquisire il ruolo e la forza di opinione pubblica, mettendoli in condizione di concorrere a determinare, orientare e modificare l’indirizzo politico. L’informazione arricchisce la democrazia. Ecco perché formare all’informazione, oggi, significa anche individuare regole efficaci, ma che al contempo non limitino la libertà di espressione. Vista l’importanza che tutti riconosciamo alla rete, credo che possiamo concordare sul fatto che della rete si debba fare un uso pienamente consapevole.

Per concludere mi rivolgo soprattutto a voi giovani, a voi che sarete i giornalisti di domani, perché oggi più che mai dobbiamo tenere a mente l’insegnamento di Joseph Pulitzer:

Un’opinione pubblica bene informata è la nostra corte suprema. Perché ad essa ci si può sempre appellare contro le pubbliche ingiustizie, la corruzione, l’indifferenza popolare o gli errori del governo; una stampa onesta è lo strumento efficace di un simile appello“.

Buon lavoro a tutti.