Presentazione del Volume di Limes “Moneta e Impero”

Cari amici, Autorità, Signore e Signori,

Per prima cosa desidero salutare con vivo piacere Sua Eminenza il Cardinale Parolin; e ringraziare di cuore Mons. Andreatta, il direttore Caracciolo e il dott. Schiavazzi per avermi invitato nella meravigliosa cornice di Palazzo Maffei Marescotti. L’incontro di questo pomeriggio ci fornisce un’occasione eccellente per dialogare di etica e finanza; di economia e legalità; di fede e politica e ancora etica. Sullo sfondo, vi sono l’essenza e i bisogni dell’umanità, nella sua complessità e fragilità.

Il titolo del volume di Limes che presentiamo, “Moneta e impero”, mi ha riportato alla mente l’immagine di quelle monete romane, coniate a partire da Vespasiano e Tito nel 77-78 d.C., che da un lato recano il profilo dell’imperatore e dall’altro quello dell’Equità, di regola rappresentata da una figura femminile che regge nella mano destra una bilancia, simbolo della giustizia. Al volto dell’imperatore che si riflette nella ricchezza, potenza e forza, si affianca il simbolo dell’Aequitas Augusti, della giustizia del principe, che segna al contempo il limite e il fine del potere, e in ultima istanza anche dell’uso del denaro. Una visione molto lontana. Come anche la Rivista in edicola mostra, oggi parlare di moneta e impero significa confrontarsi con i meriti, ma anche con le debolezze e i fallimenti del modello dell’economia di mercato proiettato su scala globale. Modello che ha reso possibile realizzare una “società del benessere” in ristrette aree del mondo, mentre al tempo stesso ha aumentato le diseguaglianze, accentuando i fattori di emarginazione, aggravando la povertà. In questo scenario di impero della moneta, di dominio della finanza, siamo chiamati a confrontarci in chiave globale con i più vistosi peccati umani: la ricerca del profitto e del potere, da vizi individuali, della persona, sembrano essere divenuti difetti del sistema globale, vizi geopolitici. In altri termini, a me sembra che sia proprio la diffusa perdita di valori soggettivi e collettivi che affligge le nostre società ad avere determinato il degrado della geo-economia globale che si ripercuote nei rapporti fra democrazia, finanza, economia; fra ricchezza e povertà; fra economia reale, sommersa e illecita. Non dimentichiamo che anche da un punto di vista etimologico la parola economia indica lo strumento, le regole, il modo di organizzare i beni della terra per le esigenze dell’uomo, di tutti gli uomini.

 

Proviamo a partire dalle parole di Papa Francesco richiamate nell’invito per questo incontro, tratte dal discorso al Parlamento europeo e dall’Evangelii Gaudium. Ne emerge la duplice tensione dell’economia capitalistica globale, dominata dai poteri finanziari: da un lato, tensione con i valori fondanti la democrazia sostanziale e la sovranità popolare, e dall’altro con l’equità sociale. Ciò che Papa Francesco sembra denunciare sono le forti contraddizioni dell’economia e della finanza attuali con il principio democratico, il principio di eguaglianza sostanziale e di solidarietà, valori che per il loro significato universale trascendono i confini degli Stati. In questo colgo una sintonia significativa e feconda fra il codice simbolico della religione e quello della democrazia, non più due ideal-tipi opposti come era nella concezione illuministica ma due sfere che si affiancano e spesso si sovrappongono. Lo conferma la stessa esistenza di valori e di principi che uniscono ad una valenza etica, e di fede, un profondo significato politico e istituzionale: il principio personalistico, la solidarietà politica ed economica, il canone dell’eguaglianza sostanziale, il criterio dell’equità sociale; la stessa idea di giustizia, alla quale ho dedicato la mia vita, da magistrato e da politico. Non è casuale che questi ideali, cui si ispira la dottrina sociale della Chiesa, abbiano contribuito così tanto a costituire i pilastri dell’identità costituzionale della Repubblica italiana, e di quella dell’Europa, che nella tradizione giudaico-cristiana affonda buona parte del proprio patrimonio giuridico, filosofico e letterario.

Nell’Europa sopravvissuta alle devastazioni del Secondo conflitto e alle nefandezze dei totalitarismi, le aspettative per società fondate sul riconoscimento delle libertà individuali, e sulla coesione sociale, hanno ispirato le esperienze di ricostruzione delle democrazie nazionali ponendo le premesse per un nuovo cammino di dialogo fra i popoli, preordinato alla pace e alla cooperazione economica. In questa cornice di valori e ideali, l’Europa del secondo dopoguerra è riuscita a liberarsi dallo spettro della guerra, realizzando per più di sessant’anni un sogno di pace, stabilità  e benessere fino ad allora inconcepibile. Oggi però altri terreni di scontro e altre armi rischiano di minare il grande sogno europeo. Le manovre oscure della finanza speculativa globale, le crisi dei debiti pubblici, la mobilità dei cambi, l’insufficienza dei controlli sui movimenti internazionali di capitali si riflettono pericolosamente sul futuro dell’Unione europea originando sentimenti di disaffezione e avversione, populismi, estremismi che speravamo di avere lasciato indietro per sempre.

I conflitti economici e finanziari dei nostri giorni sono tanto più pericolosi in quanto combattuti con capitali creati non dall’economia reale ma dalla smaterializzazione del lavoro e della produzione. Capitali che vengono trasferiti nell’empireo anonimo e oscuro della finanza sovranazionale, dove non ci sono persone, nomi, volti, ma, ad esempio, banche centrali, fondi sovrani che amministrano migliaia di miliardi di dollari, compiendo solo operazioni virtuali e improduttive, che, seguendo segnali imprevedibili, generano insicurezza ed incertezza nei mercati. L’immaterialità e l’anonimato della finanza globale è ciò che la rende immune da responsabilità e  contraria alla stessa coscienza umana, in quanto devota all’unica etica del profitto.

La prima sfida che dobbiamo porci, etica ed economica, è dunque il ritorno all’economia reale, alla produzione di beni e valori tangibili. La seconda sfida è riaffermare il ruolo pubblico rispetto alle imprese di carattere strategico, che soddisfano bisogni sociali primari. Penso all’appello lanciato da papa Francesco il 22 marzo affinché l’acqua, bene comune per eccellenza, sia pubblica e nessuno sia escluso o discriminato nel suo uso. Penso a settori e beni strategici come i servizi sociali, la sanità e l’istruzione, ma anche all’energia, all’ambiente, al trasporto pubblico. Il sociologo Luciano Gallino ha descritto con un’efficace immagine il “finanz-capitalismo” come una “mega-macchina” per estrarre e per accumulare capitale e potere, sfruttando il valore prodotto dal maggior numero possibile di esseri umani. Secondo stime dell’ONU 35 milioni di persone vivono in situazioni di lavoro forzato, di schiavitù, di dipendenza fisica e psicologica da altri uomini che li sfruttano. Si pensi alla tratta di esseri umani, alla prostituzione, alla droga, ai traffici di organi, al gioco d’azzardo, alle mafie. Per questo, la terza e più difficile sfida è proprio orientare il fine ultimo della produzione diversamente: ripartire dalla persona umana, dalle sue necessità, dalle sue aspettative.

Affrontando il tema in prospettiva macro-economica, la più grande innovazione dei nostri tempi consiste nello slittamento dell’indirizzo politico economico-finanziario dall’ambito tradizionale dello Stato-Nazione allo scenario sovra-nazionale, l’Unione europea per quanto ci riguarda. La risposta europea alla crisi economica si è materializzata in una nuova dimensione di governance economica e finanziaria, che si regge sull’imposizione di forti limitazioni alla sovranità nazionale. Gli Stati membri hanno visto trasferire a Bruxelles molte delle decisioni strategiche che tradizionalmente componevano la politica economica e finanziaria nazionale. Scelte necessarie, che io ho condiviso. Ma sul piano politico-istituzionale non può mancarsi di segnalare il limite della nuova governance economica europea: l’affidamento delle grandi scelte macro-economiche a strutture e a sedi decisionali prevalentemente tecniche – l’Euro-gruppo, l’Eco-fin, la Banca centrale europea – soggetti che hanno legami deboli con le tradizionali strutture rappresentative: le assemblee legislative.

Oggi, mentre la ripresa comincia a realizzarsi, si pone dunque l’esigenza di riaffermare il controllo democratico sulle politiche economico-finanziarie in modo da riportare l’attenzione ai fattori e ai valori dell’economia reale, dell’occupazione e produzione, senza trascurare, naturalmente, il rigore della disciplina di bilancio. Una sfida esistenziale per l’Unione europea, che impone anzitutto di riscoprire il ruolo del Parlamento europeo. Mi sembra significativo a questo proposito il contributo strategico offerto di recente da questa istituzione all’instaurazione di un’autentica Unione bancaria europea, che affiderà proprio al Parlamento la funzione di controllo sull’operato della Banca centrale europea e degli altri organismi di settore. Io sono convinto che anche i Parlamenti nazionali possono offrire a questa causa un contributo importante, orientando la politica economica e finanziaria dell’Unione europea verso una strategia di crescita più attenta ai bisogni reali dei consumatori e dei lavoratori, alle aspirazioni dei giovani inoccupati, alle esigenze creditizie delle imprese, al sostegno del reddito e delle prospettive dei più svantaggiati. La capacità di dare voce a questi bisogni deve essere al cuore del lavoro delle assemblee elettive, che devono consentire la partecipazione di tutte le istanze e tutti gli interessi, con il pluralismo della rappresentanza, la trasparenza delle procedure, la tutela delle minoranze.

Nella mappa dei problemi è determinante il peso dell’illegalità sull’economia e sulla democrazia: vorrei definirlo il “capitalismo criminale“. Mi riferisco all’impalpabile confine fra violenza, intimidazione, paura e convenienza; al coinvolgimento dei sistemi economico-finanziari che accolgono senza scrupoli qualsiasi investimento, senza guadare all’origine, anche illecita, dei capitali. Se il sistema finanziario nascondesse solo la ricchezza sarebbe un modo per sottrarla al fisco e renderla improduttiva, ma gli investimenti nell’economia lecita di danaro a costo zero  inquinano il tessuto produttivo dell’economia e, talvolta, finiscono col controllare interi Stati e governi, e col generare crisi della democrazia, ingiustizie, povertà e miseria. Penso all’economia sommersa e al lavoro nero che garantiscono misere possibilità di sopravvivenza ai più deboli e al tempo stesso impediscono lo sviluppo, corrodono la concorrenza, rafforzano la lealtà dei territori alle mafie. Il degrado etico della nostra società sta poi producendo una crescente confusione degli ambiti del lecito e dell’illecito, una forte caduta morale nella quale si fatica a distinguere il giusto dall’ingiusto, il Bene dal Male.

Le più recenti indagini svelano trame nell’ombra, reti opache di relazioni che uniscono mafiosi e criminali a politici, imprenditori, professionisti, funzionari pubblici: avvinti dal disinteresse per il bene comune, dalla collusione e dalla corruzione. Un tema questo cui è dedicato il libro Corrupción y pecado dell’allora Cardinale Bergoglio, di cui ho avuto il grande privilegio di scrivere la post-fazione per l’edizione italiana. Il Santo Padre vi è tornato molto spesso, sia in chiave morale dicendo che la corruzione “puzza” e che i corrotti danno da mangiare ai loro figli “pane sporco”, sia in chiave di danno sociale dicendo che la corruzione “la paga il povero; gli ospedali senza medicine, la pagano gli ammalati che non hanno cura, i bambini senza educazione”. E’ questa la ragione per cui io mi sono impegnato con tanta energia in Parlamento su questo argomento: perché la corruttela, il “nero”, l’economia sommersa, l’evasione fiscale sottraggono risorse destinate alla spesa sociale, aumentano le diseguaglianze, tolgono voce e forza ai più deboli e ai giovani, condannandoli alla marginalità, all’incertezza e alla disperazione.

Ma non possiamo dimenticare che sono gli egoismi e le disunioni fra gli Stati a perpetuare le derive della finanza internazionale e la sostanziale impunità di cui godono i capitali criminali e illeciti, un giro di ricchezze che vale molte centinaia di migliaia di miliardi. Gli interessi di singoli stati e gruppi di persone hanno tenuto in vita i cosiddetti “paradisi fiscali e bancari”, che faccio fatica a considerare paradisi e non esito a definire piuttosto “inferni”: ordinamenti che proteggono l’identità dei titolari delle ricchezze e si trovano ovunque nel mondo, anche nel fragile sistema finanziario europeo. Rintracciare e riconoscere il denaro illecito è quindi la sfida del nuovo millennio. E per questo plaudo agli accordi che il Governo italiano conclude con i Paesi ove presumibilmente si trovano ricchezze celate al fisco e alla giustizia italiane. Bisogna però essere consapevoli che queste azioni potranno in definitiva avere successo solo se condotte da tutti i Paesi e su scala globale. Un impegno che deve estendersi – lo si sta facendo proprio su iniziativa italiana – al contrasto al terrorismo, soprattutto quello dello Stato Islamico. La comunità internazionale, oltre a dovere stabilizzare politicamente l’area, ad intervenire militarmente e a curare un’adeguata contro-comunicazione anche contro il proselitismo informatico, deve operare per impedire che il Califfato e le sue varie diramazioni si servano del sistema finanziario internazionale. Bisogna intercettare i flussi di finanziamento dello Stato Islamico, inclusi quelli riconducibili a donazioni, alle estorsioni e allo sfruttamento di beni economici e di risorse: petrolio, prodotti agricoli, stupefacenti e altri traffici illegali. Così come bisogna assolutamente impedire che lo Stato Islamico possa prestare assistenza finanziaria e supporto materiale ad altri gruppi terroristici operanti altrove, in Libia, in Tunisia, nel Maghreb, luoghi così vicini ai confini dell’Europa.

Concludo. Il grande nemico da battere è l’ipocrisia. L’ipocrisia che, in nome del profitto, non distingue il denaro che viene dal lavoro, dall’ingegno, dalla produzione, dalla fatica; dal denaro di origine occulta, che viene dall’illecito, dallo sfruttamento dei poveri, o dal denaro sporco di sangue. Per questo c’è bisogno del massimo della cooperazione internazionale soprattutto da parte di quei Paesi che si trincerano dietro l’ipocrita affermazione che nei loro confini questi problemi non esistono, mentre non si vogliono vedere. Per questo accolgo come un monito universale e un incoraggiamento di grande forza morale la vera rivoluzione impressa dal profondo impegno di Papa Francesco a dare trasparenza all’assetto economico e finanziario, rivolto all’unico fine di combattere la povertà e la miseria  con il coerente valore della solidarietà umana e cristiana, della misericordia, destinando i profitti ad aiutare gli ultimi, i deboli, gli emarginati. Credo che alla finanza globale bisogna rispondere con la politica globale.

Nella società odierna, deplorevolmente inadeguata ad affrontare le sfide dell’economia globale, la sfida suprema è fissare codici di comportamento universalmente validi, che ruotino intorno ai diritti dell’individuo. Serve un vero sussulto etico della società civile e della politica che imponga agli Stati nuovi linguaggi e nuovi modelli di relazione fondati non sugli interessi, ma sui principi e sui valori. Sulla nostra comune e indelebile umanità. Questa, cari amici, è la mia speranza; e questo è il mio impegno. Grazie.

Incontro con la Presidente dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa

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Il  Presidente del Senato, Pietro Grasso, ha ricevuto oggi a Palazzo Madama la  Presidente  dell’Assemblea  Parlamentare  del  Consiglio d’Europa, Anne Brasseur.  Al centro del cordiale colloquio: la minaccia del terrorismo, la lotta  alla corruzione, le tematiche dei diritti umani e dell’immigrazione, con particolare riguardo al problema dei richiedenti asilo.

Presidente Grasso premia scuole vincitrici del Concorso “Vorrei una legge che…”

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I  bambini  delle scuole primarie italiane saranno i protagonisti a Palazzo Madama  per  la  settima edizione del progetto ”Vorrei una legge che…”, un’iniziativa promossa dal Senato della Repubblica in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Venerdì  27  marzo alle 11.30 si svolgerà la cerimonia di premiazione. Sarà il  Presidente  del  Senato Pietro Grasso a consegnare nell’Aula di Palazzo Madama,  che  per l’occasione ospiterà più di duecento bambini accompagnati dai loro docenti, i riconoscimenti ai primi classificati. Lasciati  liberi  di  esprimersi  i giovanissimi hanno avanzato proposte di legge  attraverso filmati, disegni, poesie, canti e cartelloni corredati da un ‘diario delle discussioni’ che testimonia il percorso di approfondimento e  le  modalità  di  decisione  adottati dagli studenti nelle varie fasi di realizzazione.

Otto i lavori selezionati, che otterranno il riconoscimento per questa settima  edizione.  Gli elaborati saranno esposti il 26 e il 27 marzo nella Sala Garibaldi di Palazzo Madama. Riceveranno  i  riconoscimenti  le  scuole  primarie  provenienti  da Massa Lombarda  (Ravenna); Sulmona (L’Aquila); Cormons (Gorizia);  Roma;  La Martella  (Matera); Battipaglia (Salerno). Tutti  i  lavori selezionati  sono  consultabili dal  sito www.senatoperiragazzi.it.  Ma  non  è  tutto. Il progetto ‘Vorrei una legge che…”  proseguirà  nei  prossimi  mesi  quando  saranno  i  senatori  ad incontrare i giovanissimi nelle loro scuole. La  cerimonia  di  premiazione  verrà  trasmessa  in diretta televisiva sul canale satellitare e webtv del Senato.

Il contrasto alle mafie nella dimensione nazionale, regionale e locale

Signor Presidente della Repubblica, Autorità, Signore e Signori,

ho accolto con piacere l’invito della Presidente Bindi ad intervenire a questa giornata dedicata al contrasto alle mafie nella prospettiva territoriale. Un’iniziativa apprezzabile perché la questione mafiosa assume caratteri distinti nelle diverse realtà locali, ma è nazionale perché riguarda il Paese in ogni sua componente: sociale, politica, economica ed istituzionale. A proposito del ruolo delle autorità locali, ha appena concluso i lavori una Commissione di inchiesta del Senato sulle intimidazioni nei confronti degli amministratori locali, evidenziando un quadro complesso e preoccupante e presentando diverse proposte per “rompere la solitudine degli amministratori locali”.

Vorrei approfittare di questa occasione per tracciare una breve analisi delle evoluzioni della minaccia mafiosa. Per prima cosa, si sono ridimensionati gli episodi violenti e visibilmente di matrice mafiosa, il che ha contribuito a ridurre l’attenzione politica sul fenomeno. In secondo luogo, si è estesa la presenza mafiosa in attività economiche legali. Infine, si sono consolidati quei fenomeni, in atto da tempo, di espansione dell’influenza mafiosa in aree non tradizionali del centro-nord Italia, attraverso nuove modalità di interazione e pressione sui diversi contesti locali: istituzionali, economici e sociali locali. La presenza delle mafie in economia non è fenomeno nuovo. Ciò che negli ultimi anni ha cambiato lo scenario sono le nuove opportunità connesse alla prolungata crisi economica mondiale, che ha indotto le mafie a perseguire l’accumulazione di ricchezza sempre meno attraverso le tradizionali attività di tipo predatorio-parassitario, e molto più mediante investimenti in mercati legali e acquisizioni di imprese in dissesto. A fronte del consistente rischio di gravi sanzioni penali connesso ai tradizionali mercati illegali (droga, estorsioni, traffici), fra i criminali è considerazione comune (purtroppo fondata) che sia estremamente improbabile incorrere nella repressione e quindi più redditizio effettuare operazioni nell’economia legale, per via delle grandi difficoltà del controllo statuale sul riciclaggio e sull’origine dei patrimoni illeciti. Qui vorrei segnare un primo punto politico. Per contrastare le mafie la politica deve fare una scelta di campo chiara e inequivocabile contro l’economia sommersa, il riciclaggio, i capitali illeciti, l’evasione fiscale, i delitti societari.

Ma l’aspetto evolutivo più preoccupante, messo in luce da diverse indagini nel centro e nord Italia, ma anche dalla recente inchiesta della Procura di Roma nota come “Mafia Capitale”, deriva dal consolidamento di un’area che coinvolge insieme a mafiosi e criminali, politici, imprenditori, professionisti e amministratori pubblici: complesse reti di relazioni inizialmente inquinate da intimidazione e violenza che poi lasciano il posto alla convenienza, alla collusione, alla corruzione, al favoritismo, e più in generale alla coincidenza e fusione di interessi diversi. La diffusione mafiosa così non è determinata da fenomeni esogeni alle società del centro-nord: non esiste, come in certe rappresentazioni retoriche e interessate un aggressore che inocula il germe mafioso nel corpo sano della vittima, ma un coacervo di collusioni, interessi e affari. I mafiosi e i criminali si inseriscono fra la sfera dell’economia e quella della politica offrendo alle imprese e a segmenti delle istituzioni quei servizi che esse richiedono.Una nuova forma di organizzazione mafiosa, quella descritta da “Mafia Capitale” nella quale si determina una saldatura fra il “sottomondo” criminale e il “sopramondo” sociale, politico, economico garantita dalla corruttela, dal perseguimento del profitto ad ogni costo, dal disprezzo per la cosa pubblica e per l’interesse generale, attraverso gli appalti e le commesse pubbliche, le concessioni, l’acquisizione di imprese. E quando serve, l’organizzazione ritorna all’uso dei consueti sistemi mafiosi della violenza e dell’intimidazione.

E qui vorrei segnare un secondo punto politico. I dati sulle condanne per i reati “dei colletti bianchi”, corruzione, peculato, riciclaggio, falso in bilancio, dimostrano che il rischio penale è infinitamente più basso di quello legato ai delitti più tradizionalmente commessi dalle mafie, nonostante tutti siano concordi nel segnalare un aumento esponenziale del fenomeno. Questa è la ragione per la quale mi sono impegnato così energicamente per rafforzare la risposta sanzionatoria e preventiva dello Stato, e finalmente in questi giorni siamo riusciti a dare avvio al dibattito parlamentare alla legge sulla corruzione, dopo tanti, troppi rinvii. C’è di più. La corruzione è il principale strumento utilizzato dalle mafie transnazionali per garantire i propri affari e condizionare interi governi; abbatte la competitività internazionale delle imprese e del Paese; disincentiva gli investimenti dall’estero; infine, sottrae risorse alla spesa sociale e così accentua le diseguaglianze, mettendo in pericolo democrazia e coesione sociale e allontanando dalla cittadinanza attiva larghe fasce della popolazione, specie le più giovani, consegnandole alla marginalità e all’incertezza. Al tempo stesso, sono convinto che occorra ridurre le opportunità criminali inavvertitamente generate da legislazioni caotiche e ridondanti, soprattutto in materia di appalti e di procedure pubbliche. Insomma servono prevenzione e repressione insieme. L’una non esclude ma anzi impone l’altra.

Concludo. In quasi mezzo secolo di impegno contro le mafie ho compreso che sono necessarie buone leggi, strumenti legali e operativi per le forze di polizia, la magistratura e le istituzioni. Necessarie ma non sufficienti. Si impone una trasformazione culturale nella gestione della cosa pubblica; un ritorno alla cura dell’interesse generale, ai bisogni dei deboli, degli ultimi; la realizzazione di progetti strategici per il futuro del Paese. Di questo non può che incaricarsi la politica, alla quale si richiede un vero sussulto etico.

E questo, Signor Presidente della Repubblica, Signore e Signori, credo sia il nostro comune e più importante dovere. Grazie.

 

Delitti contro l’ambiente. Prospettive di una riforma attesa

Autorità, Ministri, gentili ospiti,

è per me un grande piacere ospitare questo convegno dedicato al tema dei delitti contro l’ambiente. Non è la prima volta che ci confrontiamo su questa tematica di drammatica attualità e urgenza, che incide sulla tutela di un bene comune a tutti noi: il nostro territorio e, di conseguenza, la nostra salute.

Il tema della protezione in sede legale dell’ambiente è stato oggetto di attenzione, dibattiti, appelli, che per lungo tempo sono rimasti inascoltati. Gli illeciti ambientali sono particolarmente insidiosi perché offendono una pluralità di beni che possiamo davvero definire comuni – dalla salute all’incolumità pubblica, dalla conservazione dell’ecosistema all’economia del Paese. Eppure per molto tempo sono stati considerati reati “minori”. Per imprenditori e associazioni criminali privi di scrupoli, gli illeciti ambientali costituiscono una preziosa opportunità di lucro. Il fenomeno delle “Ecomafie” è ormai presente da molti anni e io stesso ho avuto modo più volte di denunciarlo nelle introduzioni ai rapporti annuali di Legambiente, che spesso negli anni scorsi ho firmato in veste di Procuratore Nazionale Antimafia. Quante audizioni, quanti documenti lasciati agli atti delle commissioni parlamentari sui rifiuti delle varie legislature…!!!

Negli ultimi tempi nel nostro paese si è diffusa la piena consapevolezza dell’entità del fenomeno per colpa di dolorosi fatti di cronaca cui abbiamo assistito impotenti, come il processo Ilva, il caso Eternit, la Terra dei Fuochi e il tragico destino del poliziotto che ne è divenuto vittima e simbolo, Roberto Mancini.

Non potrò mai dimenticare l’incontro con la delegazione dei parenti delle vittime dell’amianto e lo sguardo di Romana Blasotti, che ha perso 5 familiari  a causa di malattie connesse all’amianto, e mi ha detto: “non ho più lacrime”. Da più parti, a forte voce, si è chiesto un cambio di prospettiva, un approccio strategico diverso, a cominciare dagli strumenti giuridici che finora si sono dimostrati del tutto carenti. E finalmente qualcosa è cambiato.

Anche su questo tema il percorso non è stato né breve né facile, molte resistenze, tante paure, critiche ingenerose all’impianto sanzionatorio – giudicato troppo duro – e agli aspetti preventivi, – ritenuti, al contrario, troppo carenti. Le stesse difficoltà e le stesse critiche incontrate nel percorso delle norme anticorruzione. C’è sempre qualcuno pronto a dire che non servono, che ci vuole ben altro, che occorre semplificare altre leggi, rivedere altri codici. Bene, facciamolo, muoviamoci in parallelo su tutti i fronti: da parte mia posso assicurare  massima attenzione e massimo impegno nel sostenere queste riforme, a cominciare da quella del Codice degli appalti attualmente in (VIII) Commissione in Senato. L’altra risposta sempre pronta è: “se scoppia lo scandalo si vede che le norme ci sono e funzionano, quindi non ne sono necessarie di nuove”. Vero, ma fino a un certo punto. Anche lo scandalo Eternit è scoppiato, ma abbiamo visto come è andato a finire, almeno per ora. Ogni cambiamento, ogni legge che ci fa fare un passo avanti nella serietà e nella forza di contrasto a questi fenomeni è necessario, nessuno è da solo sufficiente.

Per questo sono orgoglioso di poter dire che un primo importantissimo passo contro gli ecoreati è stato compiuto. Il disegno di legge sui reati ambientali è stato approvato in Senato e attende adesso la lettura definitiva da parte della Camera dei deputati. Sono molte le novità, direi rivoluzionarie, che mi auguro verranno confermate, come se lo augurano le decine di associazioni che hanno lanciato una campagna affinché non si cambi “neanche una virgola” del testo per farle diventare definitivamente legge. Qui mi limiterò a citarne qualcuna. Il testo inserisce nel codice penale un nuovo titolo, dedicato ai delitti contro l’ambiente, all’interno del quale vengono previsti i nuovi delitti di inquinamento ambientale, di disastro ambientale, di traffico e abbandono di materiale radioattivo e di impedimento al controllo.

Da domani si potrà contare su un termine di prescrizione più ampio per questi reati, così da non avere mai più un secondo caso Eternit. Un’ulteriore aggravante riguarda i casi di associazione per delinquere o associazione mafiosa finalizzate a commettere delitti ambientali. E’ ormai noto che i proventi generati dall’illecito ambientale rafforzano le mafie e inoculano nel tessuto economico e finanziario enormi capitali illeciti. Ulteriori circostanze aggravanti riguardano i casi in cui siano coinvolti pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio. Seguendo, infatti, l’evoluzione di questo triste fenomeno, ci si è resi conto che il mondo dei rifiuti si è andato popolando di una pluralità di soggetti esterni al mondo criminale: uomini d’affari, imprese legali, operatori del settore, trasportatori, mediatori, tecnici di laboratorio, dipendenti pubblici e così via.

Inoltre, nel corso dell’esame del provvedimento in Senato è stato introdotto il delitto di ispezione di fondali marini con l’uso di tecniche esplosive, come l’air gun, al fine di coltivare idrocarburi. Ora la magistratura e le forze di polizia avranno più strumenti per indagare e per condannare chi specula sul traffico e l’illecito smaltimento dei rifiuti pericolosi, sull’abusivismo edilizio, il saccheggio dei beni archeologici, il commercio illegale di specie animali e vegetali protette, i traffici nella filiera agroalimentare, gli incendi dolosi e le altre attività comprese nel termine “ecoreati”. Le organizzazioni criminali ormai si possono paragonare a “multiservizi” che si mettono a disposizione degli imprenditori fornendo intermediari, faccendieri, società di comodo, partite di giro che hanno sostenuto l’infiltrazione della criminalità fuori dalle originarie aree d’influenza, grazie alla leva della convenzienza – non quella dell’intimidazione – con la formula magica del “che vi serve? ci pensiamo noi”. Con i proventi generati dai reati ambientali le mafie ottengono il duplice scopo di rafforzarsi e di ripulire enormi capitali illeciti inoculandoli nel tessuto economico e finanziario, mentre gli imprenditori senza scrupoli  abbattono i costi, risparmiando risorse funzionali anche alla creazione di fondi neri da utilizzare per tangenti e corruzione.

Questo consesso vede oggi riuniti gli attori politici, le parti sociali, gli esperti tecnico-giuridici e le associazioni e le forze operative; tutti hanno , ho la presunzione di dire abbiamo, contribuito a raggiungere questo prezioso, sebbene ancora fragile, risultato. Desidero ringraziare la Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali ad esse correlati per questa iniziativa; l’incontro di oggi rappresenterà un’occasione per fare il punto e analizzare, tutti insieme, ognuno con il proprio specifico contributo, quanto finora siamo riusciti fare e per capire come le nuove norme potranno influenzare il nostro futuro. Ancora molto si può fare, ne siamo consapevoli, ma siamo sulla buona strada. Buon lavoro.

 

Marco Biagi. La sua vita è per tutti gli italiani una preziosa e viva testimonianza

Autorità, cari colleghi, gentili ospiti,

è con viva emozione che il Senato della Repubblica ospita, nella bella sala Zuccari, questo convegno dedicato alla memoria del Professor Marco Biagi, barbaramente ucciso per mano terrorista la sera del 19 marzo 2002. Desidero ringraziare l’Associazione per gli Studi Internazionali e Comparati sul Diritto del Lavoro e sulle Relazioni Industriali, fondata nel 2000 da Biagi, e l’Associazione Amici di Marco, che ci forniscono una preziosa occasione per riflettere su temi di grande attualità del mondo del lavoro, come quello della contrattazione collettiva, alla luce anche dei più recenti interventi del legislatore, nel ricordo di uno fra i più stimati giuslavoristi del nostro Paese.

Marco Biagi, bolognese, ha costruito e condotto a Bologna e in Emilia la sua carriera accademica. Formatosi alla “Scuola di Bologna” di Giuseppe Federico Mancini, dopo un periodo di perfezionamento a Pisa, sotto la guida di Luigi Montuschi, divenne nel 1984 professore straordinario di Diritto del lavoro e di Diritto Sindacale Italiano e Comparato presso il Dipartimento di Economia aziendale dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Nel 1987 e fino al 2002 fu professore ordinario presso la stessa Facoltà di Economia. La sua predilezione per gli studi comparati lo condusse ad approfondire il sistema sindacale inglese, e le relazioni industriali dei principali Paesi europei. Collaborò con istituti americani attivi a Bologna e approfondì anche lo studio del mondo del lavoro in Cina e Giappone, dove è molto conosciuto per i suoi studi comparatistici. Non possiamo dimenticare i suoi numerosi incarichi internazionali e nazionali; il lavoro con i Governi Prodi e D’Alema; le consulenze per la Commissione Europea, l’Organizzazione Internazionale sul Lavoro, i Comuni di Modena e di Milano; le collaborazioni con Il Sole 24 Ore e riviste come The International Journal of Comparative Labour Law & Industrial Relations.

Marco Biagi, socialista e cattolico, ebbe un altissimo senso dello Stato. Seppe concretizzare la passione per l’insegnamento e la dedizione assidua all’attività di ricerca e di studio del mondo del lavoro e sindacale in un contributo appassionato e razionale volto a regolare secondo modernità ed equilibrio i meccanismi del mercato del lavoro. A lui dobbiamo riconoscere il merito di essere stato uno dei primi, già 20 anni fa, a rendersi conto della necessità di riforme del sistema delle regole alla base del rapporto di lavoro: un nodo cruciale per lo sviluppo dell’intero sistema economico. Da “riformista progettuale”, come lo ha definito il suo allievo e amico Michele Tiraboschi, che oggi offrirà una sua testimonianza, Marco Biagi studiava e osservava gli altri sistemi per migliorare il nostro e rendere più competitivo il Paese.

Al di là di qualsiasi giudizio sul contenuto delle sue proposte, non si può negare che Biagi sia stato un vero riformista, per la misura e lo stile, anche nella polemica, per la sua visione aperta ed internazionale, per l’attenzione alle esigenze dei lavoratori e delle imprese e per aver cercato un equilibrio fra le esigenze della competitività e la tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori. Il suo impegno ed il suo esempio sono saldamente impressi nella memoria dei suoi cari, e di tutti coloro che si impegnano per restituire alle giovani generazioni un sentimento di speranza in un futuro migliore.

Concludo auspicando che la vicenda personale di Biagi resti per tutti gli italiani una preziosa e viva testimonianza di comune riconoscimento nei valori democratici della nostra carta costituzionale, e un monito di assoluta condanna di ogni forma di violenza e terrorismo.

Auguro a tutti buon lavoro. Grazie.

 

 

 

Tunisia. La barbarie non fermerà il nostro impegno per la democrazia

“Ho accolto con dolore e orrore le notizie sull’attentato terroristico di oggi a Tunisi nel quale sono stati coinvolti anche cittadini italiani.  In  attesa che si chiariscano i fatti, il pensiero è rivolto alle vittime e  ai loro familiari, nella ferma convinzione che la barbarie non fermerà e anzi   rafforzerà   il  nostro  impegno  per  la  democrazia  e  i  diritti fondamentali delle persone”. Così  il presidente del Senato, Pietro Grasso, in relazione alle tragiche vicende di Tunisi.

Corruzione. Gli scandali sono la punta dell’iceberg, la politica corra per recuperare i ritardi

Intervista di Liana Milella per La Repubblica

L’Italia corrotta? “La maggioranza dei cittadini è onesta, e i corrotti vanno combattuti”. La politica? “Deve correre”. Il Parlamento è in ritardo? “Speriamo di recuperare”. L’emendamento sul falso in bilancio? “Alleluia…”. Pietro Grasso mette i panni del fustigatore e sprona ancora governo e Parlamento a fare presto.

Ancora un’inchiesta sulla corruzione scuote il Paese, ancora arresti e decine di indagati. Ancora la politica coinvolta. Che impressione le ha fatto la notizia?

“Ho pensato a un vecchio libro, Niente di nuovo sul fronte occidentale. La corruzione che viene scoperta, purtroppo, è soltanto la punta dell’iceberg”.

Lei ne ipotizza una molto più profonda e diffusa?

“Le stime portano a pensare proprio questo”.

I corrotti continuano a fare i loro affari, il Parlamento tarda a contrastarli. Non è un’insopportabile contraddizione?

“Il punto vero della corruzione è riuscire a farla emergere. Quand’ero procuratore nazionale antimafia, negli Usa mi spiegarono la loro strategia per arrestare i corrotti. Quando ne individuavano uno non lo arrestavano subito, ma lo convincevano a collaborare per scardinare il sistema corruttivo. Per questo, nella mia proposta di legge, ho inserito un sconto di pena per chi collabora”.

Sabato lei ha usato parole dure, “il tempo dell’attesa è finito” ha detto, si è augurato che Godot potesse giungere questa settimana, ma non sembra che sia così.

“Non erano parole dure: la cronaca mi ha dato ragione con le indagini su Expo, Mose, Roma capitale, fino agli arresti di Firenze”.

Una premonizione?

“Non ho ancora questi poteri… né sapevo nulla dell’inchiesta. Ma non serve la palla di vetro per intuire l’esistenza di una corruzione dilagante”.

La sua legge aspetta da due anni. Non le sembra troppo, soprattutto se il testo dovrà affrontare un cammino parlamentare ancora molto lungo?

“Spero che la presentazione del tanto atteso emendamento sul falso in bilancio in commissione giustizia, che si era ipotizzato di presentare in aula, abbia sbloccato finalmente lo stallo. La moral suasion che mi aveva chiesto il presidente Palma ha funzionato. Adesso si può andare avanti rapidamente e portare il testo in aula già giovedì, e pure con il suo relatore”.

Il procuratore antimafia Roberti dice che la sua legge andava approvata nella versione originale, cosa ormai impossibile. Le dispiace?

“Quando si presenta una proposta di legge si dà per scontato che il testo potrà essere modificato, non resta che attendere per un giudizio complessivo la definitiva approvazione. Sono contento di averla presentata. Quando ho scritto il testo non avrei mai immaginato di diventare presidente del Senato. Se avessi tardato anche un giorno non avrei più potuto farlo”.

Dicono i senatori che nel frattempo hanno fatto altre leggi. Come spiega che la sua non sia passata subito?

“Per me rappresentava la priorità assoluta, non solo per combattere fenomeni criminali diffusi, ma anche per cercare di contribuire a risanare le finanze del Paese. Dentro la legge c’era l’evasione fiscale, il falso in bilancio, l’autoriciclaggio, il voto di scambio e ovviamente le misure per contrastare più efficacemente la corruzione”.

Perché la politica non ha fatto per questa legge quello che ha fatto per le riforme costituzionali e la legge elettorale?

“Qualcosa è stato fatto, la nomina di Cantone all’Anti-corruzione dandogli più poteri di quelli precedenti, la norma sul voto di scambio e sull’autoriciclaggio, già approvate dal Parlamento e in vigore”.

Ne ha parlato con Renzi e Orlando?

Con il ministro sì. Incontrandolo in occasioni pubbliche ho potuto constatare che perseguivamo gli stessi obiettivi.

Lei è stato magistrato. Molti senatori dicono che le leggi contro la corruzione già ci sono e bastano, tant’è che inchieste e processi si fanno. Dicono che la legge Severino è stata approvata da poco e non ne serve una nuova. È un buon argomento per giustificare il ritardo?

“Tutto si può migliorare. E la relazione introduttiva del mio ddl spiega perché sia necessario e urgente fare delle modifiche. Faccio solo tre esempi. Il falso in bilancio, cambiato radicalmente nel 2001 quasi al punto da essere depenalizzato. Una prescrizione più lunga dopo l’intervento della ex-Cirielli nel 2005. Lo sconto per chi collabora”.

Il braccio di ferro su prescrizione e falso in bilancio continua. Sulla prima non c’è ancora intesa. Arriva il testo del governo sul falso in bilancio ed è ammorbidito. Pesa Squinzi (Confindustria) che dice: “Vogliamo dare ai magistrati la licenza di uccidere le imprese?”. L’effetto si vede. Resta una norma efficace o inutile?

“L’emendamento è stato appena presentato e devo ancora studiarlo. Ma ritengo che gli imprenditori, piccoli e grandi, che abbiano commesso degli errori scusabili e di lieve entità, possano stare tranquilli. Chi invece falsifica dolosamente per creare fondi neri o per evadere il fisco è giusto che vada punito più gravemente”.

Le intercettazioni sono o non sono necessarie?

“È evidente che le falsificazioni economicamente più clamorose, in danno di soci e azionisti, possono giustificare l’utilizzo di questo mezzo d’indagine”.

La prescrizione. Basta sospenderla in primo grado o si va incontro a un nuovo fallimento?

“Certamente si tratta di un passo avanti che rappresenta un compromesso rispetto all’ipotizzata sospensione dopo il rinvio a giudizio. Ma servono altre riforme per accelerare i processi”.

Giovedì si vota per i giudici della Consulta. Ben 261 giorni per eleggere quello di Fi. Si preannunciano sedute a vuoto. Tempo sottratto a legge indispensabili…

“Ha detto bene il presidente della Corte Criscuolo, una decisione presa da 13 giudici potrebbe essere diversa se fossero 15. Significa che il Parlamento non deve perdere tempo”.

Vitalizi per i parlamentari condannati per gravi reati. A che punto siete?

“Andiamo avanti”.

 

 

Incontro con il Direttore dell’FBI James B. Comey

Il  Presidente del Senato, Pietro Grasso, ha ricevuto oggi a Palazzo Madama il Direttore dell’FBI, James B. Comey. Al  centro  del  colloquio,  la minaccia del terrorismo internazionale e la lotta alla criminalità organizzata. Il  Presidente Grasso aveva già incontrato Comey nel corso della sua visita negli Stati Uniti, nell’ottobre del 2013.

A vent’anni da Pechino: a che punto siamo con la parità di genere?

Autorità, cari colleghi, gentili ospiti,

è per me un grande piacere ospitare, nella splendida cornice della Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani, il convegno dal titolo “A vent’anni da Pechino: a che punto siamo con la parità di genere?”. L’incontro di oggi è un prezioso momento di riflessione sui progressi finora raggiunti e sugli elementi di criticità che ancora oggi ostacolano la piena realizzazione della parità di genere in Italia, in Europa  e nel mondo.

Ringrazio, dunque, la Vice Presidente del Senato Valeria Fedeli per aver promosso questa iniziativa e per avermi invitato: ho accettato con grande piacere perché sono convinto che il confronto sul tema della parità di genere non possa prescindere da una partecipazione attiva anche degli uomini.

Sapendo che le relatrici che seguiranno sapranno fornire dati, esempi e riflessioni di grande interesse, preferisco fornire solo alcune “spigolature” utili a capire quanto sforzo sia occorso al raggiungimento di questi obiettivi: quando il Ministro dell’interno Ubaldino Peruzzi propose, nel 1863, di estendere il diritto di voto amministrativo alle donne, la risposta del relatore alla Camera del disegno di legge chiuse la questione affermando: “I nostri costumi non consentirebbero alla donna di frammettersi nel comizio degli elettori, per recare il suo voto”.

Una infaticabile sostenitrice del diritto di voto alle donne nell’ottocento fu la giornalista Anna Maria Mozzoni, che nel 1881, durante un Comizio per la riforma della legge elettorale, pronunciò queste parole:

“Proclamando il suffragio universale per voi soli, allargate il privilegio, proclamandolo con noi, lo abolite […] Rivendicando il voto per tutti voi fate un emendamento al presente, rivendicandolo per noi chiedete l’avvenire”.

Questa richiesta di futuro ebbe risposta solo molti anni più tardi, nel 1946. Con qualche perplessità però, in occasione del referendum del 2 giugno, il Corriere della Sera dava alcuni consigli alle donne in vista del loro primo voto con un articolo intitolato “Senza rossetto nella cabina elettorale”, dove si poteva leggere: “Siccome la scheda deve essere incollata e non deve avere alcun segno di riconoscimento, le donne nell’umettare con le labbra il lembo da incollare potrebbero, senza volerlo, lasciarvi un po’ di rossetto e in questo caso rendere nullo il loro voto. Dunque, il rossetto lo si porti con sé, per ravvivare le labbra fuori dal seggio.”

Ma la strada per l’uguaglianza era ancora lunga. Voglio farvi un esempio che riguarda la mia vita precedente di magistrato. L’art. 7 della legge n. 1176 del 1919 ammetteva le donne all’ esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall’ esercizio della giurisdizione. Nell’ordinamento giudiziario del 1941 venne confermata questa esclusione. Durante il dibattito in seno all’Assemblea Costituente ci si interrogò in merito all’accesso delle donne in magistratura, ma la paura prevalse con queste motivazioni: l’on. Cappi sostenne che, cito, “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento”; l’on. Molè invece volle precisare che, testuale, “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’ uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile”. Ci volle una sentenza della Corte Costituzionale del 1960 affinché, finalmente, nel 1963 il Parlamento approvò una norma (L. 66/1963) che consentì l’ accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici,  compresa la magistratura. Quindi solo nel 1963 venne bandito il primo concorso aperto alle donne, e due anni dopo otto di loro risultarono vincitrici. Nel concorso del 2009 le donne vincitrici sono state il 58%, e ora sono circa il 50% del totale.

Queste digressioni servono a renderci chiaro quanto la battaglia per il riconoscimento della parità di genere sia stata lunga, difficile, e ancora in corso.

Il riconoscimento del principio della parità tra i sessi è un tema in cui credo molto e che ho spesso sottolineato anche in occasione di incontri con rappresentanti istituzionali esteri. Ricordo con commozione due incontri che ho avuto nella mia veste di presidente del Senato. A giugno in Palestina, nel Governatorato di Betlemme, al Centro Mehwar per la famiglia e l’empowerment delle donne e dei bambini, dove la cooperazione italiana ha istituito il più grande centro nazionale antiviolenza per la tutela delle donne palestinesi, dove vengono offerti da operatori italiani e locali servizi di assistenza psicologica e legale, iniziative di formazione per la ricerca e la creazione di posti di lavoro, e fondamentali attività di sensibilizzazione rivolte non solo alle vittime ma soprattutto alla comunità, con l’obiettivo di diminuire il verificarsi di violenze domestiche. Un compito difficile, in un luogo dove ancora le donne sono vittime due volte: delle violenze e della riprovazione sociale, e dove per prima cosa vengono sottratti loro i figli.

L’altro incontro, a Natale dell’anno scorso, ancora più duro, in Afghanistan: la visita presso l’Ospedale Esteqlal di Kabul, in parte ricostruito dalla Cooperazione Italiana. Questo ospedale, con i suoi 400 posti letto, è oggi diventato un punto di riferimento per il Paese, per la popolazione di Kabul e per le altre province dell’Afghanistan e vede, come elemento di speranza, circa 1000 parti al mese. Ma quello per cui è famoso è soprattutto la cura delle ustioni per gli incidenti domestici, che hanno come vittime soprattutto i bambini, e il fenomeno dell’auto immolazione di giovani donne, anzi di bambine, che per non andare in spose a vecchi signori preferiscono darsi fuoco o sfigurare per sempre il loro volto e il loro corpo con l’acido. Sono immagini che non posso dimenticare, che hanno lasciato una traccia indelebile nella mia memoria e nella mia coscienza e che oggi mi portano ad appoggiare con convinzione questa battaglia di civiltà.

Tornando al tema: la Dichiarazione e il Programma d’Azione,  adottati al termine della Quarta Conferenza Mondiale sulle Donne, che si svolse nel 1995 a Pechino, hanno segnato un passo in avanti senza precedenti. I lavori si conclusero con il riconoscimento dei diritti delle donne come diritti umani nel significato più ampio del termine e del principio della non discriminazione in ogni settore della vita, pubblica e privata, come valore universale. I rappresentanti di 189 Paesi hanno così riconosciuto che donne e uomini devono avere eguale partecipazione alla vita politica, sociale, economica, culturale e civile. Sicuramente, da allora, i governi, la società civile e l’opinione pubblica hanno messo in atto molte delle promesse del programma d’azione.

Oggi sono sempre più numerose, nel mondo e in Italia, le donne che occupano posizioni di grande rilievo. Anche in politica la presenza delle donne si sta radicando sempre di più. Io sono convinto però che la parità deve essere conseguita andando “oltre le regole”, oltre il concetto di quote, anche perché sappiamo che dove si viene nominati le percentuali premiano gli uomini, mentre dove si accede per regolare concorso sono le donne a prevalere.

Al riconoscimento delle doti e delle qualità del mondo femminile, non è ancora seguito in modo completo quel salto di qualità ulteriore che è costituito dal raggiungimento di posizioni di vertice, in completa parità con l’universo maschile, anche perché permane un divario retributivo inaccettabile per lo stesso lavoro o per un lavoro di pari valore.  Nell’attuale momento di crisi che investe mercati, Stati, società civile, non è un caso che i Paesi a più alta occupazione siano quelli dove la partecipazione femminile al mondo del lavoro è stata garantita in modo efficace.

Sono certo che il ventesimo anniversario della Conferenza di Pechino offrirà nuove opportunità di incontrarsi, di rinnovare l’impegno per rilanciare la volontà politica e di mobilitare l’opinione pubblica. Le premesse ci sono, ma dipenderà anche dalla nostra capacità di trasmetterle alle nuove generazioni. Molto è stato fatto, penso anche alla ratifica della Convenzione di Istanbul, molto resta ancora da fare.

Ogni donna di qualunque età deve vedere riconosciuti e tutelati  i propri diritti: il diritto di vivere libere dalla violenza, il diritto all’istruzione, il diritto di partecipare al processo decisionale e il diritto di ricevere parità di retribuzione per lo stesso lavoro. La parità di genere è una meta di civiltà che tutti dobbiamo perseguire con determinazione e convinzione.  Buon lavoro.