Sfide politiche attuali e opportunità nella Regione Mediterranea

Cari colleghi, Autorità, Signore e Signori,

Desidero per prima cosa augurare a tutte le delegazioni un cordiale benvenuto e ringraziare il Presidente della Delegazione italiana presso l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, On. Michele Nicoletti, per l’invito ad aprire questi importanti lavori dedicati al Mediterraneo. Il tema è di importanza cruciale per l’Europa e per ciascuno dei nostri Paesi e credo che la dimensione parlamentare del Consiglio d’Europa sia la sede più adatta a dibattere delle nostre politiche comuni e dei valori in cui ci riconosciamo e che ci legano, con la profondità e la serenità che i ritmi e le rigidità dei contesti governativi non sempre consentono. Di Mediterraneo recentemente si è parlato molto, e giustamente, sia per la drammatica catastrofe umanitaria collegata ai flussi migratori; sia per le minacce di sicurezza che provengono dalla sponda sud e sud-orientale di questa vasta area geografica.

 

Per noi europei lavorare nel Mediterraneo e per il Mediterraneo non è una opzione. Come amava ripetere un nostro grande statista, Aldo Moro: “nessuno è chiamato a scegliere tra l’essere in Europa o nel Mediterraneo, poiché l’Europa intera è nel Mediterraneo”. Storicamente, nonostante non siano mai mancati conflitti e instabilità, la regione mediterranea è stata attraversata da fruttuosi scambi commerciali e culturali che hanno forgiato tratti di identità comune fra le due sponde. Oggi transitano per il Mediterraneo il 19% dei traffici di merci globali, cifra in costante aumento; e l’interscambio economico fra i Paesi della sponda sud e nord è in continua crescita, nonostante il freno dovuto alle crisi economico-politiche. Al tempo stesso, il Grande Mediterraneo è divenuto il punto più nevralgico di un sistema globale mai così frammentato e disgregato. Penso ai vuoti geopolitici determinati dalla dissoluzione di stati e di istituzioni; all’influenza di poteri informali sulla politica e le relazioni internazionali: crimine organizzato, terrorismo, economia illegale. Penso ai diversi livelli di conflitto in corso: economici, geopolitici, confessionali, etnici. Penso alle minacce del jihad globale, al cui interno si vive un confronto generazionale-ideologico fra strategie di lotta al “nemico lontano” (l’Occidente) e lotta al “nemico vicino” (i governi del Medio Oriente), attraverso i metodi del terrorismo, dell’instabilità, della comunicazione e dell’offesa ai diritti e alla dignità umana. Penso agli squilibri economici e alle diseguaglianze, che tanta parte hanno nella genesi delle rivolte arabe; che pregiudicano la coesione sociale, consegnando larga parte delle popolazioni all’esclusione e alla marginalizzazione; che generano frustrazione e rancore incoraggiando soprattutto nei più giovani l’adesione a ideologie distruttive. Penso ai migranti in fuga da conflitti, da persecuzioni, da malgoverno. A questo proposito, non è possibile affrontare ora tutti i complessi risvolti del tema. Personalmente sostengo i piani che la Commissione Europea ha presentato come un primo passo importante. Più in genere, io credo che la storia che sarà scritta sui tempi che viviamo misurerà la coerenza e la visione politica dell’Unione Europea e dell’Europa intera, sul grado di responsabilità e di solidarietà con cui sapremo affrontare il tema migratorio, nel pieno rispetto del diritto internazionale, della vita umana e dei nostri valori costitutivi.

Per quanto riguarda le diverse crisi in atto, credo sia necessario muovere dalla realistica consapevolezza che non possiamo stabilizzare rapidamente i focolai di guerra in Siria, in Libia, in Yemen e altrove; e nemmeno determinare presto condizioni di vita e governo accettabili in altri aree della regione. E’ ineludibile una strategia comune rivolta al medio termine, con azioni di stabilizzazione politica delle crisi e di sostegno allo sviluppo. Un processo che comporterà la complessiva ricomposizione degli equilibri geopolitici fra le grandi potenze regionali, che ora dobbiamo sostenere con determinazione. Oggi affronterete in dettaglio il caso della Libia, sconvolta dalla guerra civile e divenuta crocevia dei traffici di ogni tipo, droga, armi e persone, e possibile base operativa dello Stato Islamico. Io sono convinto che l’obiettivo debba essere promuovere, come l’Italia sta facendo, una soluzione politica affidata alle Nazioni Unite: la costituzione di un governo di unità nazionale che interrompa le ostilità militari, riacquisti progressivamente il controllo del territorio e il potere di spesa e che diventi un credibile interlocutore per l’Europa. Sulla lotta allo Stato Islamico io penso che alle azioni militari già in corso per contenerne l’espansione territoriale, debbano affiancarsi strategie per dare vita progressivamente a istituzioni, a luoghi della politica, che riempiano i vuoti geopolitici occupati dal terrorismo.

Concludo. Il Mediterraneo ha unito le due sponde molto più di quanto non dica la vuota retorica dello scontro di civiltà. Ripartire dalla storia per costruire il futuro è un dovere che spetta a noi, alla politica. Credo questo sia un terreno naturale di lavoro per l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, che ci consente di dedicarci a riflessioni congiunte sulle prospettive di medio e lungo periodo e di confrontarci sui grandi temi dell’umanità visti attraverso la lente di quei principi e valori che noi parlamentari abbiamo l’alto compito di proteggere e promuovere, e che sono il nostro indelebile comune patrimonio.

Grazie.

Studenti lettori e interpreti della Costituzione

Care ragazze, cari ragazzi, cari docenti,

è davvero con gioia, anche a nome del presidente Baldelli, che vi do il benvenuto nell’Aula del Senato della Repubblica.

Il Senato, così come la Camera dei Deputati e il Miur, è da sempre molto sensibile a tutti quei progetti che hanno l’obiettivo di avvicinare i ragazzi alle Istituzioni, rendendoli protagonisti e non spettatori della vita del nostro Paese. Ormai sono poco più di due anni che sono Presidente del Senato e molte volte ho partecipato a giornate come questa eppure, ogni volta che agli studenti è data l’opportunità di esprimere i propri talenti e la propria visione del mondo, con l’entusiasmo e la passione di cui sono capaci, rimango stupito dai risultati.Avete approfondito con fantasia e acume molti aspetti cruciali della vita quotidiana e delle prospettive del nostro Paese: penso all’attenzione che avete dedicato al tema della giustizia sociale, della solidarietà e del lavoro; a quello  della legalità, a me molto caro; all’esercizio delle libertà individuali e collettive sancite dalla nostra carta fondamentale; alle soluzioni che avete elaborato per tutelare e valorizzare il nostro unico e straordinario patrimonio paesaggistico e culturale. Mi hanno colpito il vostro coraggio e la vostra maturità nell’affrontare con considerazioni profonde e per nulla banali temi complessi come immigrazione, accoglienza e integrazione.

In questo senso siete già stati, proprio attraverso il lavoro che avete svolto, non solo lettori ma interpreti della Costituzione: sono lieto che nei vostri elaborati voi l’abbiate “vissuta” e abbracciata completamente rendendo questo giorno non solo un piacevole diversivo rispetto alla quotidianità dello stare in classe ma anche e soprattutto un’esperienza intellettuale e civica che, ne sono certo, farà fiorire in voi una consapevolezza più forte dei vostri diritti e delle vostre responsabilità. E’ allora proprio a partire dalla vostra ormai acquisita dimestichezza con la Costituzione che voglio riflettere insieme a voi sull’aspetto che, a mio parere, rende la nostra carta fondamentale così affascinante: essa è infatti capace di disegnare un orizzonte cui tendere piuttosto che definire solo un insieme di regole e principi cui doversi attenere. Ad esempio, l’articolo 2 recita:

La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.”

I “diritti inviolabili” non cadono quindi dal cielo, non sono dati per sempre ma richiedono un impegno quotidiano, tanto individuale quanto collettivo, attraverso il quale consolidarli, aumentarli, allargarli, difenderli ogni volta  riteniamo siano minacciati dalle contingenze della storia. Nello stesso articolo, appena dopo aver menzionato i diritti inviolabili, si citano i “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. I diritti non vengono da soli, vengono subito messi in relazione ad alcuni doveri cui un cittadino non può sottrarsi. E’ come se la nostra carta fondamentale volesse subito darci una lezione che possa essere applicata a tutti gli aspetti della nostra vita: non esiste diritto senza dovere, non esiste risultato senza sforzo, non esiste vittoria senza impegno. In una parola possiamo dire questo: in un sistema democratico non esistono “scorciatoie”: ogni deviazione da questa regola fondamentale presuppone un torto, una scorrettezza, a volte un reato. Tenetelo a mente ogni volta che vi troverete, come tutti ci siamo trovati nella vita, di fronte a un bivio: da una parte un favore, una raccomandazione, un sopruso. Dall’altra la dignità, la bellezza e la fierezza di un comportamento onesto, etico, responsabile. Non abbiate dubbi, magari all’inizio potrà sembrarvi più facile e più comodo cedere, ma alla lunga scoprirete che la competizione vera è solo con voi stessi e vi assicuro che non c’è moneta che valga il rifiuto di quello che Paolo Borsellino definiva “il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”.

Ma dobbiamo fare attenzione: non possiamo ridurre la cittadinanza solo a un insieme di diritti e di doveri. Un cittadino non può davvero considerarsi tale senza una partecipazione attiva e consapevole, sia come singolo che come associato, alla vita della comunità. E dunque la vera cittadinanza non può prescindere dall’assunzione di responsabilità e di poteri nei confronti della comunità di appartenenza, deve essere “cittadinanza attiva”. È questo il senso – ben più profondo e più autentico – che l’essere cittadino porta con sé. È la consapevolezza, da parte di ciascuno di noi, del proprio ruolo sociale, è il riconoscimento della responsabilità di ogni individuo rispetto alle scelte collettive. È il coinvolgimento dei cittadini nella vita delle loro comunità, e quindi nella democrazia, nelle politiche pubbliche e nel processo decisionale.

La politica è un’attività antica e nobile, è l’amministrazione della comunità ai fini del bene comune, è la creazione di uno spazio pubblico al quale tutti i cittadini partecipano. Tutti voi siete chiamati a partecipare, a esprimere la vostra opinione, che concorre a formare l’opinione della comunità di cui siamo parte e a orientare e determinare la decisione politica. Solo così si riduce il divario tra i cittadini e le istituzioni, si accorciano le distanze tra la società e la politica. Per queste ragioni non lasciatevi mai convincere che la politica – e con essa lo Stato e le Istituzioni – sia una dimensione lontana dalle vostre vite, dai vostri progetti, dalle vostre speranze. In un momento storico in cui i giovani disertano le elezioni e si allontanano dalla vita pubblica e dalla politica, il vostro impegno è fondamentale per il progresso della nostra società e del nostro Paese. Alcuni di voi domenica saranno chiamati per la prima volta ad esprimere il proprio voto alle elezioni amministrative: fatelo, non lasciate che siano altri a decidere per voi.

Strage di Piazza della Loggia: fondamentale tenere viva la memoria

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“Una  tragedia che sembra ormai lontana nel tempo, ma che deve rimanere più che mai viva nelle nostre coscienze, per ricordarci che il nostro convivere civile  e  democratico  è  un  bene  che deve essere difeso e tutelato ogni giorno,  lottando  contro  ogni  forma di violenza”. E’ quanto si legge nel messaggio  che  il  Presidente  del  Senato,  Pietro Grasso,  ha inviato al sindaco  di  Brescia,  Emilio  Del Bono, in occasione del 41mo anniversario della strage di Piazza della Loggia. 

“Dopo  molti anni – aggiunge il Presidente del Senato – sono ancora vivi il dolore  e  lo  sconcerto  per  un  atto di violenza efferato che ha colpito l’intera  città di Brescia. In questa ricorrenza, desidero unirmi a voi nel ricordo  e nella lotta per giungere alla verità e alla giustizia. Ringrazio tutti  coloro  che  si  mobilitano  ogni anno per tenere viva la memoria di quell’evento:   cittadini,   familiari  delle  vittime,  magistrati,  forze dell’ordine, istituzioni”. “Oggi siamo chiamati ad affrontare nuove sfide, nuove minacce e nuove forme di  sopraffazione,  ma ciò che è stato ci rende più forti e tenerne viva la memoria  è fondamentale. Con questa convinzione – conclude il messaggio del Presidente  Grasso  –  la  prego  di  portare  il mio più affettuoso saluto all’associazione  dei  familiari  delle  vittime  e a tutta la cittadinanza bresciana”.

 

Lezione morale: il peccato dell’indifferenza. L’Europa, la Shoah, la strage nel Mediterraneo

Cari Colleghi, Autorità, Signore e Signori,

permettetemi di ringraziare i relatori, e in special modo il Presidente della Commissione straordinaria per i diritti umani, Sen. Manconi, per aver voluto organizzare questo incontro. Per me è un grande piacere essere qui oggi per parlare di diritti umani e doveri morali nell’ottica europea, proprio nel momento di forte disorientamento e di sofferenza sociale per i cittadini dell’Unione. Tutto nasce da una telefonata tra me e il Presidente Manconi dopo la lettura di un articolo di Gad Lerner, che riprendeva un discorso da lui già affrontato in precedenza. Era il 2009 quando per la prima volta, almeno a mia memoria, una giornalista dell’Avvenire, Marina Corradi, azzardò il paragone tra l’indifferenza dei popoli europei alla persecuzione nazista degli ebrei e l’indifferenza attuale e quotidiana nei confronti della disperazione e della morte di migliaia di migranti nel Mediterraneo. Riporto quel passaggio, che venne immediatamente ripreso e rinforzato proprio da Gad Lerner su Vanity Fair: “La nuova legge del non vedere. Come in un’abitudine, in un’assuefazione. Quando, oggi, leggiamo delle deportazioni degli ebrei sotto il nazismo, ci chiediamo: certo, le popolazioni non sapevano; ma quei convogli piombati, le voci, le grida, nelle stazioni di transito nessuno li vedeva e sentiva? Allora erano il totalitarismo e il terrore, a far chiudere gli occhi. Oggi no. Una quieta, rassegnata indifferenza, se non anche una infastidita avversione, sul Mediterraneo. L’Occidente a occhi chiusi.” Ora, dopo le due drammatiche stragi del 3 ottobre 2013 e dello scorso 18 aprile, con centinaia di migranti persi in fondo al mare, nessun paese, nessun governo, ma voglio dire anche nessun cittadino può dire di “non sapere”.

L’indifferenza è stata una componente centrale degli anni bui dei totalitarismi: lo ricorda spesso Liliana Segre. Una sua frase mi ha molto colpito: “Sui vostri monumenti alla Shoah non scrivete violenza, razzismo, dittatura e altre parole ovvie, scrivete ‘indifferenza’: perché nei giorni in cui ci rastrellarono, più che la violenza delle SS e dei loro aguzzini fascisti, furono le finestre socchiuse del quartiere, i silenzi di chi avrebbe potuto gridare anziché origliare dalle porte, a ucciderci prima del campo di sterminio”. Il legame tra memoria e impegno contro l’indifferenza è presente in molti interventi di chi è riuscito a sopravvivere, ma lacerato nel corpo e nell’animo. Invitato a parlare nel 2000 a Roma su “La fisica nel XXI secolo”, il premio Nobel per la chimica Walter Kohn iniziò la sua relazione ricordando i familiari e i suoi docenti morti nei campi di sterminio, e alla fine disse: “ricordo queste persone non per recriminare su ciò che avreste potuto dire e fare, e non avete fatto, ma solo per chiedervi che cosa farete la prossima volta”.

Voglio dirlo chiaramente: la Shoah rappresenta un “unicum” che non ha paragoni nella storia perché mai si è ideata, progettata e realizzata una vera e propria industria della morte così efficiente e spietata. Eppure il monito di Kohn suona comunque come un severo e atroce rimprovero se si guarda a quanto è successo da allora in Europa e altrove. Stupri; deportazioni; omicidi di civili e di prigionieri di guerra; esecuzioni di massa; torture; persecuzioni razziali, politiche, religiose; genocidi: a queste atrocità la comunità internazionale ha spesso opposto una colpevole indifferenza, per disinteresse, per calcolo politico o per rispettare il principio della “non interferenza” negli affari interni degli altri stati. L’elenco è lungo: Jugoslavia, Ruanda, Darfur, Iraq, Sierra Leone, Afghanistan e molti altri luoghi. Abbiamo dovuto assistere alle barbarie dei conflitti in Jugoslavia e in Ruanda, perché nel 1993 e 1994 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite costituisse i Tribunali ad hoc. E abbiamo dovuto attendere altri dieci anni, e innumerevoli violazioni dei diritti fondamentali, per l’istituzionalizzazione di un sistema di giustizia penale internazionale. La Corte Penale Internazionale, che ho visitato proprio la scorsa settimana, si misura con grandi difficoltà tecniche e diplomatiche ma rappresenta un passo storico universale, una speranza per il futuro dei popoli, per la pace, per i diritti, la giustizia e la dignità umana.

Torniamo al Mediterraneo. I migranti che trovano la morte cercando di traversare il nostro mare  fuggono per la quasi totalità da barbarie, atrocità e persecuzioni. A queste persone, è importante ripeterlo, noi non dobbiamo concedere solidarietà per pietà o per bontà d’animo ma perché ne hanno diritto, un diritto previsto dalle norme internazionali sui rifugiati e scolpito nelle coscienze di ciascuno di noi. Ebbene, credo che anche su questo terreno, sulla capacità di gestire il fenomeno migratorio nel rispetto dei diritti fondamentali, si misurerà la fedeltà dell’Unione Europea alla sua storia e al suo fondamento morale e giuridico.

Lasciatemi ricordare le parole del Trattato sull’Unione Europea. Art. 2: “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello stato diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze”. Art. 3: “Nelle relazioni con il resto del mondo l’Unione afferma e promuove i suoi valori.. contribuisce alla pace, alla sicurezza.. alla solidarietà”. Art 21: “L’azione dell’Unione sulla scena internazionale si fonda sui principi che ne hanno informato la creazione.. e che essa si prefigge di promuovere nel resto del mondo: democrazia, Stato di diritto, universalità e indivisibilità dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, rispetto della dignità umana, principi di uguaglianza e di solidarietà e rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale”. Essere indifferenti significa quindi tradire le regole che ci siamo dati e i valori cui ci ispiriamo.

Un ultimo spunto di riflessione per il prosieguo dell’incontro: a me colpisce molto il modo in cui il dibattito sui migranti e sui rifugiati è stato impostato. A fronte di tragedie umane che colpiscono intere popolazioni, di guerre in cui a cadere sono innanzitutto i civili – e tra loro in primis donne e bambini -, in cui si parla di torture che nulla hanno di umano, di viaggi senza speranza, di naufragi senza salvezza, di migliaia di morti senza nome, ma con affetti, sogni e legami che vengono spezzati, il focus di centinaia di ore di trasmissioni televisive e di articoli è tutto concentrato sui costi, a partire dai famosi trenta euro al giorno, che in vari casi abbiamo visto finire in tasche criminali. Questo ridurre le storie, le sofferenze, le vite degli “altri” al mero dato economico, ridurre il valore della vita umana a un’analisi costi benefici significa ridurre l’altro a “untermensch”, a sub-umano, premessa del cinismo che fa calcolare ad alcuni il “risparmio” per lo Stato dopo un naufragio. Sono convinto che se la metà del tempo speso a indagare i costi fosse utilizzato per raccontare le loro storie qualcosa inizierebbe a cambiare. Sono convinto che anche l’opinione pubblica di quei Paesi che stanno dando una pessima prova di indifferenza, uscirebbe dalla paura, dall’egoismo, e  incoraggerebbe i propri governi ad agire con decisione e tempestività.

Dovremmo davvero tutti tradurre in azioni concrete, quotidiane e diffuse le parole di Papa Francesco, che contro l’indifferenza ha tuonato proprio da Lampedusa, quando sottolinea che i migranti “sono uomini e donne come noi, fratelli nostri che cercano una vita migliore: affamati, perseguitati, feriti, sfruttati, vittime di guerre”, dobbiamo tornare a riconoscerci in loro, perché siamo tutti fatti della stessa viva e pulsante umanità.

 

Commissioni Senato: designazioni coerenti con il Regolamento

La  Presidenza  del  Senato  non  è  entrata  nel  merito  specifico  della designazione  della senatrice Mussini a componente della 7a Commissione. La Presidenza  si  è  limitata a chiedere alla senatrice De Petris, Presidente del   Gruppo  Misto  cui  appartiene  la  senatrice  Mussini,  di  proporre designazioni  coerenti  con  il Regolamento, ricordando che è il Presidente del   Senato  a  distribuire  i  senatori  cosiddetti  “eccedentari”  nelle Commissioni  permanenti  sulla base delle “proposte” dei Gruppi e secondo i criteri   stabiliti  dall’articolo  21,  comma  3,  del  Regolamento,  come interpretato  dalla Giunta per il Regolamento l’11 ottobre 2011, con parere approvato all’unanimità. In  forza  di  tali criteri, l’indicazione da parte dei Gruppi dei senatori eccedentari a componenti delle Commissioni permanenti obbliga il Presidente del  Senato  a una verifica circa il rispetto, in ciascuna Commissione, del rapporto  tra maggioranza e opposizione quale risultante in Assemblea sulla base del voto espresso dai senatori in occasione di votazioni di fiducia.

La  Presidenza  del  Senato  non  è  entrata  nel  merito  specifico  della designazione  della senatrice Mussini a componente della 7a Commissione. La Presidenza  si  è  limitata a chiedere alla senatrice De Petris, Presidente del   Gruppo  Misto  cui  appartiene  la  senatrice  Mussini,  di  proporre designazioni  coerenti  con  il Regolamento, ricordando che è il Presidente del   Senato  a  distribuire  i  senatori  cosiddetti  “eccedentari”  nelle Commissioni  permanenti  sulla base delle “proposte” dei Gruppi e secondo i criteri   stabiliti  dall’articolo  21,  comma  3,  del  Regolamento,  come interpretato  dalla Giunta per il Regolamento l’11 ottobre 2011, con parere approvato all’unanimità. In  forza  di  tali criteri, l’indicazione da parte dei Gruppi dei senatori eccedentari a componenti delle Commissioni permanenti obbliga il Presidente del  Senato  a una verifica circa il rispetto, in ciascuna Commissione, del rapporto  tra maggioranza e opposizione quale risultante in Assemblea sulla base del voto espresso dai senatori in occasione di votazioni di fiducia.

II edizione del Premio Nenni

Autorità, cari amici, caro Don Palmiro,

sono davvero molto lieto di aprire questa cerimonia di conferimento del premio Nenni, giunto alla seconda edizione, nella suggestiva cornice della Biblioteca del Senato, un luogo intriso di storia e cultura.

Vorrei innanzitutto ringraziare Giorgio Benvenuto, Presidente della Fondazione Nenni, insieme a tutti coloro che, con passione e impegno, hanno dato vita alla iniziativa di questo riconoscimento, “di buona politica, democrazia e pace”, che viene conferito a coloro che si distinguono per qualità morali umane e politiche nel perseguimento del bene comune, nella difesa dei deboli, nella salvaguardia dell’ambiente. E’ anche una bella occasione per ricordare Pietro Nenni, grande statista, giornalista e scrittore, uno dei padri fondatori della Repubblica. La sua vicenda umana e politica è lo specchio del Novecento italiano e delle grandi trasformazioni politiche e sociali che si vissero in quei decenni. Seppe sempre rimanere fedele a se stesso, sia durante il fascismo come durante l’egemonia comunista nella politica della sinistra italiana, fino alla svolta del Congresso socialista del 1957.

Ho ricordi personali molto vivi degli appassionanti comizi di Pietro Nenni, cui mi portava mio padre, che ne ammirava il tratto morale: erano i primissimi anni 60, io ero intorno ai 15 anni e Nenni era segretario del Partito Socialista. Ho memoria di un episodio in particolare: Palermo, il palco dinanzi l’ingresso del famoso teatro Massimo nell’omonima piazza. Nenni, con la sua grande capacità oratoria, arringava la folla alla lotta contro il potere dei ricchi, contro coloro che sfruttavano i lavoratori, prospettando una nuova società socialista che avrebbe abolito le diseguaglianze sociali. Parlava con tono sommesso con un crescendo incalzante che si concluse al grido che i socialisti non si sarebbero mai venduti, accompagnato dal continuo agitare del basco che era solito portare sul capo, mentre la folla esplodeva in una fragorosa ovazione. Ne rimasi suggestionato al punto da pensare che nella mia vita non avrei potuto fare a meno di lottare per la libertà, l’eguaglianza e la giustizia.

Memorabile il suo ultimo atto politico, il 20 giugno 1979, quando presiedette in qualità di decano la prima seduta del Senato dell’VIII legislatura ed esortò i parlamentari e non rimanere indifferenti davanti ai problemi dello sviluppo e pose con forza il valore della responsabilità collettiva. Il suo pensiero mantiene del tutto intatta la sua forza morale e ideale, anche grazie all’istituzione di questo premio da parte della Fondazione Nenni.

Oggi questo speciale riconoscimento verrà conferito a una persona altrettanto speciale: Don Palmiro Prisutto, parroco di Augusta. Don Palmiro, la ringrazio di essere qui con noi. Lei è diventato negli anni un punto di riferimento per la sua comunità, martoriata dall’inquinamento del polo petrolchimico, il più grande di Europa. Purtroppo quello che negli anni ’50 ha rappresentato un forte fattore di crescita economica e sociale, oggi si rivela causa di un terribile inquinamento ambientale: falde idriche infiltrate, anomalie negli alimenti, deformazioni nei pesci e tanti, troppi casi di patologie tumorali nella popolazione. E lei, caro Don Palmiro, tiene senza sosta questa triste, drammatica contabilità: elencando i nomi delle persone morte di tumore. Una situazione che non può rimanere un problema di coscienza personale, è una questione che riguarda proprio quella coscienza collettiva tanto cara a Nenni.

Finalmente dopo anni e anni di stallo, qualcosa si sta muovendo, qualcosa sta cambiando. Proprio oggi l’Aula del Senato ha al suo esame il disegno di legge sui cosiddetti ecoreati, che, prevedendo strumenti giuridici sinora carenti, risponde ad una insopprimibile esigenza di giustizia e di tutela dell’ambiente che alta si leva da tutto il Paese, da nord a sud. In questo momento il pensiero non può non andare a tutti coloro, vittime e familiari, che hanno tanto sofferto e che soffrono. E’ purtroppo troppo tardi per alcuni, ma ho piena fiducia che almeno le nuove generazioni potranno vedere i risultati di questa azione. Pertanto, auspico che il provvedimento legislativo possa essere rapidamente approvato in via definitiva, così che finalmente l’Italia sia dotata di norme per punire chi inquina l’ambiente, deturpa la bellezza della nostra terra, minaccia la nostra salute e ruba il futuro alle giovani generazioni.

Grazie.

Incontro con Corrado Passera

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Il  Presidente del Senato, Pietro Grasso, ha ricevuto oggi a Palazzo Madama il  Presidente  di  Italia  Unica,  Corrado  Passera.  L’incontro era stato chiesto  negli  scorsi giorni dallo stesso Passera allo scopo di presentare al  Presidente  del  Senato  le iniziative e il programma del nuovo partito politico che si è ufficialmente costituito il 31 gennaio di quest’anno.

 

Diritti omosessuali, diversità come valore

Cari Colleghi, Autorità, Signore e Signori,

permettetemi di ringraziare la Vice Presidente Valeria Fedeli per aver organizzato questo convegno e per il suo quotidiano impegno politico e istituzionale sui diritti degli omosessuali. Come sapete l’occasione di questa giornata di riflessione e confronto è data dalla “Giornata Internazionale contro l’omofobia”, istituita dall’Unione Europa nel 2007: si è scelto come giorno simbolo il 17 maggio per rievocare la storica decisione con la quale l’Organizzazione Mondiale della Sanità rimosse l’omosessualità dal suo elenco di malattie mentali. A dire la verità, confesso di non essere affatto felice di essere qui: trovo frustrante l’idea che nel 2015, in un Paese occidentale che si ritiene civile e moderno, siano ancora necessarie occasioni come quella di oggi, eppure è così, tanto è diffuso e radicato il pregiudizio omofobico.

Molta strada è stata fatta se pensiamo che solo 25 anni fa l’omosessualità era ancora considerata una malattia mentale ma molta ancora bisogna percorrerne per poter assicurare a chiunque, a prescindere dal suo orientamento sessuale, pari dignità e pari diritti. Mentre a pochi chilometri da noi il premier del Lussemburgo, Xavier Bettel, politico cattolico e di centrodestra, si sposa con il suo compagno – e facciamo a entrambi i nostri migliori auguri – in Italia dobbiamo ancora assistere alle lotte tra sindaci e prefetture per un semplice registro delle unioni civili, o discutere oggi come si possa trasformare la diversità in valore. Sembra incredibile ma è così.

Si può guardare all’omofobia e ai diritti degli omosessuali da molte prospettive; io vorrei partire da due dati che trovo particolarmente preoccupanti. Il primo. L’annuale rapporto dell’ILGA, una ONG impegnata in tutto il mondo e da oltre 30 anni nella promozione dei diritti LGBTI, segnala che il nostro Paese sia fanalino di coda europeo per quel che riguarda la tutela dei diritti e gli episodi di discriminazione, che registrano un sensibile aumento. Un simile quadro deve indurci ad una seria riflessione e testimonia come, purtroppo, sia necessario e urgente agire tanto sul piano culturale che su quello politico.

Il secondo. Uno studio condotto dall’Università di Edimburgo afferma che almeno il 25% dei suicidi tra i ragazzi europei dai 16 ai 25 anni è conseguente all’omofobia. È certo che gli adolescenti sono più esposti degli adulti, poiché per il riconoscimento e l’affermazione di sé hanno bisogno di identificarsi in base alla sessualità e, per loro, è essenziale l’approvazione degli altri, soprattutto dei coetanei. Ho trovato estremamente interessante, a questo proposito, leggere quanto spiega Vittorio Lingiardi, psichiatra e Direttore della Scuola di Specializzazione in Psicologia alla Sapienza di Roma: “Il suicidio è l’espressione estrema di un’esperienza comune per gay, lesbiche e trans: la percezione di un ambiente ostile, la paura di essere rifiutati, che diventa convinzione di essere sbagliati. Si chiama “stress da minoranza” e colpisce chi appartiene a gruppi emarginati”. E aggiunge “Chi ha un orientamento sessuale minoritario ha una difficoltà in più: se ti discriminano perché sei nero o ebreo, quando torni a casa trovi il sostegno della famiglia. I gay molto spesso sono costretti a “nascondersi” anche lì”.

Il grado di civiltà di una società si misura nella sua capacità di assicurare la libera espressione di ciascuno dei suoi componenti e nell’effettiva tutela dei diritti che si propone di difendere. In questa legislatura, come anche in precedenza, è stato ampio e molto acceso il dibattito sulle azioni che le Istituzioni dovrebbero intraprendere: troppo spesso ci si è avvicinati a questo tema con atteggiamenti intransigenti, pieni di pregiudizi e con una controproducente carica emotiva. In questo modo, si è perso di vista il vero obiettivo che dovremmo perseguire: impedire, per sempre, che qualcuno debba nascondersi o vedersi negato un diritto in ragione del suo orientamento sessuale. I diritti non sono un giuoco a somma zero: allargarli per comprendere  quanti più cittadini possibile non tocca in alcun modo i diritti già riconosciuti: al contrario la democrazia trova il suo più alto compimento nella valorizzazione e nell’arricchimento della vita di ogni cittadino. Ho apprezzato il significativo e non simbolico passo in avanti compiuto dalla Commissione Giustizia del Senato il 26 marzo scorso, quando si è finalmente giunti all’adozione di un testo unificato su unioni civili e convivenze di fatto, un testo che mira a risolvere definitivamente il problema dell’uguaglianza formale tra coppie omosessuali ed eterosessuali, così come vorrebbe l’articolo 3 della Costituzione, laddove dice che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, […..] di condizioni personali e sociali.”

Arrivare a dotarsi di strumenti normativi non solo per il riconoscimento, ma anche per la concreta protezione dei diritti degli omosessuali, come in questo caso, è, inoltre, in linea con l’osservazione della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui il dilagare della discriminazione sessuale o legata all’identità di genere è inversamente proporzionale al livello di tutela giuridica riconosciuto alle coppie omosessuali.

L’azione normativa non può e non deve essere rallentata ma da sola non è  sufficiente per combattere l’odioso fenomeno dell’omofobia. Bisogna in primo luogo combattere una battaglia culturale che sappia coinvolgere tutti gli strati della società; mostrare quanti danni, a volte irreparabili, può causare l’ignoranza; impegnarsi quotidianamente, ciascuno secondo le proprie competenze, per abbattere l’idea sbagliata che l’amore verso una persona dello stesso sesso abbia meno cittadinanza nel nostro Paese.

Il primo luogo da cui partire è senza dubbio la scuola. Educare i nostri figli e nipoti è vitale per sradicare all’origine quell’ostilità che crea così tante difficoltà a chi subisce la violenza di un pregiudizio. Due anni fa, in un’occasione simile a quella di oggi, chiudevo il mio intervento con una battuta, esprimendo la mia personale preoccupazione per chi, nel ventunesimo secolo, vive ancora nella paura di quelli che, ai suoi occhi, sono diversi. Al di là dell’ironia ritengo sia giunto il momento di rovesciare la prospettiva, così come avvenuto per altri fenomeni discriminatori. Se qualcuno si lasciasse andare ad un insulto razzista o contro un diversamente abile saremmo tutti concordi nel ritenere che sia proprio chi lo pronuncia ad avere un problema. Mi auguro che lo stesso possa presto avvenire quando si offende un omosessuale, a volte con una leggerezza e una superficialità che è ancora più dolorosa di un intimo e profondamente sbagliato convincimento. 

Sono sicuro che gli interventi degli illustri oratori che prenderanno la parola sapranno fare il punto della situazione: l’obiettivo per tutti noi, l’ho detto in apertura di questo mio breve saluto, è e rimane quello di non dover mai più organizzare convegni come quello di oggi.

Grazie.

Immigrazione: lavorare uniti per arginare la catastrofe umanitaria

“In  questo  momento,  per  arginare  la  catastrofe  umanitaria  in corso, l’intero  sistema  Paese  deve  lavorare  unito  per sostenere ognuna delle priorità  di  brevissimo  termine: salvare le vite umane in mare; stabilire meccanismi  di  ripartizione  equa e solidale per assicurare accoglienza ai profughi;  colpire  i  trafficanti,  con  modalità  rispettose  del diritto internazionale.  Al tempo stesso occorre un impegno, necessariamente di più lungo  termine,  per  favorire  una progressiva soluzione delle crisi e dei conflitti,  la  Libia in primo luogo”.

E’ quanto dichiara il Presidente del Senato,  Pietro  Grasso, da Lisbona dove si trova per il Secondo Summit dei Presidenti dell’Assemblea Parlamentare dell’Unione per il Mediterraneo. “Dobbiamo  sostenere, anche con i paesi confinanti, l’assoluta necessità di un  governo  di  unità  nazionale  in  Libia.  E’  necessario – aggiunge il Presidente  del Senato – un interlocutore con cui dialogare e cooperare, ma deve  essere  al  tempo  stesso legittimo ed effettivo, deve controllare il territorio  libico.  Il  Presidente Mattarella con la sua autorevolezza sta sostenendo l’ottimo lavoro del Presidente del Consiglio Renzi e di tutto il governo,  a  Bruxelles  e a New York. Anche la diplomazia parlamentare è in moto. Qui a Lisbona è in corso, fino a domani, un summit dei Parlamenti del Mediterraneo,  anche  con  la presenza del Parlamento europeo e di numerosi parlamentari  italiani.  Ieri con la Presidente Boldrini abbiamo incontrato 28 delegazioni e ottenuto una dichiarazione condivisa e significativa nella direzione auspicata dall’Italia, che verrà inviata alla Commissione europea e ai governi”.

Dopo  aver  incontrato  il Presidente della Repubblica Anibal Cavaco Silva, il  Primo  Ministro  portoghese, Pedro Passos Coelho, e il Presidente della Corte  costituzionale  portoghese, Joaquin Josè Coelho de Sousa Ribeiro, il Presidente  Grasso  ha  proseguito  la  sua  missione  e  fra oggi e domani incontrerà  la  Ministra  dell’interno,  Anabela Rodrigues, e il Vice Primo Ministro, Paulo Portas, per discutere di migrazioni e di cooperazione fra i due paesi e con l’Unione. Oggi  il  Presidente  del  Senato ha tenuto una lectio magistralis sul tema “Migrazioni  e  diritti  umani  nel  Mediterraneo:  una sfida per il futuro dell’Unione   europea”,  all’Istituto  di  studi  politici  dell’Università Cattolica di Lisbona.

Migrazioni e diritti umani nel Mediterraneo: una sfida per il futuro dell’Unione europea

Gentile Rettore, Gentili professori, Carissimi studenti,

è per me motivo di sincera gioia essere oggi in mezzo a tanti giovani studenti di relazioni internazionali. Gli incontri con l’Università e con i suoi giovani protagonisti sono sempre uno dei momenti più emozionanti e intensi delle mie visite all’estero. Sono particolarmente lieto di poter svolgere questa lectio magistralis in un Ateneo noto per essere impegnato ad alimentare nei giovani la capacità di pensiero critico e a promuovere le tematiche internazionali. Ringrazio dunque davvero di cuore il Rettore Maria da Gloria Garci e tutti i docenti per l’ospitalità e la partecipazione a questo bel momento di confronto.

Quando abbiamo concordato con la vostra Università di dedicare il nostro incontro di oggi al tema delle migrazioni, ci ha spinto la convinzione che questo costituisse il problema prioritario per i popoli del Mediterraneo e l’intera Unione europea. La tragedia che lo scorso aprile si è verificata nelle acque del Canale di Sicilia, seguita a poche ore di distanza e senza interruzione fino agli scorsi giorni da altri naufragi sulla costa di Rodi e al largo della Libia, ha trasformato la priorità in emergenza. A fronte di questa catastrofe umanitaria non possiamo fermarci al turbamento delle coscienze e ai sentimenti di umana pietà, ma dobbiamo comprendere le dinamiche profonde del fenomeno per assumere risposte immediate che spettano all’intera comunità internazionale, in particolare all’Unione Europea e agli altri Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Vorrei  affrontare questo tema ponendo a confronto dimensioni diverse che l’immaginario comune considera contrapposte ma che, io penso, dobbiamo imparare a leggere insieme: identità, comunità e accoglienza; pluralità e unità; solidarietà, legalità e sicurezza; interesse nazionale e coesione sovranazionale. Le chiavi di lettura sono varie e complesse: storiche, giuridiche, economico-sociali, statistico-demografiche, geopolitiche.

Partiamo dal contesto geografico e geopolitico. La sponda sud e sud-orientale del Mediterraneo è un’area eterogenea e vasta che convenzionalmente comprende Al-Maghrib (la regione a occidente dell’Egitto, cioè Marocco, Tunisia, Libia e Algeria) e Al-Mashriq (la regione a oriente dell’Egitto: Libano, Palestina, Israele, Giordania e Siria). Mi sembra importante stabilire subito che questa vasta area non determina per noi europei solo vulnerabilità, come spesso sentiamo dire, ma presenta grandi opportunità. Basti riflettere su un dato. Il 19% dei traffici di merci a livello globale transita per il Mediterraneo: una cifra aumentata rispetto al 15% della fine degli anni 90; così come sono in costante crescita le economie dei Paesi della sponda sud e gli scambi economici con la sponda nord, e questo nonostante l’impatto della crisi economica del 2008-2009 e delle crisi politiche del 2011. Non si tratta di una novità storica. Le comunità del Mediterraneo hanno saputo da sempre, grazie agli scambi commerciali, sviluppare nei secoli tratti di comune identità.

Di recente, e il fenomeno migratorio ne è esempio, il Mediterraneo è attraversato da interessi e atteggiamenti contrapposti: sponda sud e sponda nord sembrano a tratti universi contrapposti che si guardano e non si comprendono. La sponda sud, anche per l’effetto delle crisi del Grande Mediterraneo, è scossa da uno tsunami che propaga instabilità. Profondissime fratture geopolitiche si aprono fra Oriente e Occidente e fra Levante e Golfo, lungo linee di faglia vecchie e nuove. Penso alle competizioni per gli idrocarburi e le infrastrutture; e ai vari conflitti: confessionali (principalmente, sunniti contro sciiti), etniche (arabi contro persiani), geopolitiche (Iran contro Arabia Saudita).  Penso alle minacce del jihad globale che sperimenta disegni di lotta al nemico lontano (l’Occidente, bersaglio della galassia qaedista) e al nemico vicino (i governi della regione, obiettivo dello Stato Islamico) attraverso i metodi del terrorismo, dell’instabilità, dell’offesa alla dignità umana. Penso agli effetti della collisione fra le obsolete strutture sociopolitiche dei regimi e le giovani energie che hanno innescato le rivoluzioni delle primavere arabe. Penso agli effetti dell’instabilità sull’economia; all’aumento delle diseguaglianze, che genera, specie nei giovani, frustrazione e marginalizzazione e incoraggia l’adesione a movimenti ideologici distruttivi. Penso agli epocali movimenti di profughi causati dai conflitti in Siria, in Libia, in Yemen, in Iraq e in molti altri paesi della regione; e a quelli di migranti “economici”, che fuggono dalla miseria e dalla disperazione.

I dati sono eloquenti. Secondo le cifre rese note dall’Agenzia Onu per i rifugiati, l’UNHCR, nel 2014 almeno 207.000 migranti hanno tentato di attraversare il Mar Mediterraneo: un numero triplo rispetto al precedente del 2011, quando, nel corso delle “primavere arabe”, 70.000 migranti avevano abbandonato i Paesi di origine. Nel 2014 si è registrato anche l’infausto record di 3.500 vittime in mare e sono già molte centinaia coloro che hanno perso la vita nell’anno in corso. Il crollo della Libia, in particolare, ha trasformato questo vasto territorio nel crocevia ideale per traffici illeciti di ogni tipo, droga, armi e persone. Le rotte che questa “tratta dei nuovi schiavi” percorre sono molteplici: la rotta orientale, praticata da profughi sudanesi, somali, etiopi, eritrei, siriani; le rotte occidentali, che congiungono l’Africa centrale e occidentale alla Libia o che percorrendo le tradizionali piste transahariane dei Tuareg, attraversano il Mali, dirette all’Algeria, al Marocco, alla Libia. Proprio nel Sahel libico il traffico dei migranti è comandato dai nomadi Tebu. I proventi di questo “mercato” sono altissimi; le stime disponibili parlano di milioni di euro al mese. I migranti pagano costi altissimi: quelli monetari del “servizio” di trasporto, ma prima ancora la soggezione ai soprusi di autisti, miliziani, capi tribù, poliziotti cui “vendono” la propria vita, conoscendo per due, a volte tre settimane la fame, la sete, l’umiliazione, la perdita di ogni forma di dignità umana. L’Europa è la principale destinazione dei migranti via mare che per l’80% ha come prima destinazione le coste dell’Italia. Per la prima volta, nel 2014, i migranti provenienti da Paesi fonte di rifugiati, come la Siria e l’Eritrea, sono diventati la componente principale del fenomeno migratorio, coprendo circa la metà dei flussi.

La seconda dimensione del fenomeno migratorio di cui vorrei occuparmi è sociale e culturale. Il primo dovere è avversare le ideologie dell’indifferenza secondo cui gli immigrati sottrarrebbero lavoro ai cittadini europei, alimenterebbero il crimine, diffonderebbero l’accattonaggio, metterebbero a repentaglio la nostra sicurezza. I dati dicono l’opposto. Gli stranieri costituiscono una componente strutturale delle nostra comunità nazionali, che contribuisce attivamente al benessere delle società occidentali. Nella nostra vecchia Europa, la ricchezza generata dagli immigrati è in costante crescita; quella prodotta dai cittadini in diminuzione. Professioni e attività disdegnate dalla società del benessere conoscono nuova fortuna proprio grazie alle comunità straniere: colf, badanti, artigiani, falegnami, idraulici, muratori, portieri e camerieri hanno sempre più spesso il volto delle tante etnie che convivono sul territorio europeo. Il fenomeno migratorio ha donato all’intera Europa afflitta dalla rallentata crescita demografica rinnovata giovinezza. Le statistiche smentiscono poi decisamente che gli stranieri siano collegati alla criminalità: nel mio Paese e in genere in Europa, gli stranieri delinquono proporzionalmente meno dei nativi. Io credo che conoscere questi dati aiuti a sconfiggere quella paura della diversità che domina i paesi occidentali ricchi e stabili verso i quali i flussi migratori si rivolgono, per evitare, per dirla con Tzvetan Todorov che sia “la paura dei barbari a renderci barbari”.

Vorrei offrivi un’immagine. Siamo a Lampedusa, un’isola bellissima, metafora della molteplicità. Politicamente e culturalmente è italiana, parte della regione Sicilia e provincia di Agrigento, ma vi hanno vissuto in tanti: Fenici, Greci, Romani, Arabi. Geologicamente appartiene all’Africa: è un lembo di crosta terreste della placca continentale africana rialzatasi due milioni di anni fa; si trova nel Canale di Sicilia, più vicino alla Tunisia che alla Sicilia. Quest’isola negli ultimi anni ha visto arrivare barconi stipati e malandati, da cui vengono fatti scendere donne, bambini, uomini tremanti dal passo malfermo. Hanno negli occhi il buio del terrore, della morte per fame, sete, affogamento dei propri compagni durante la traversata, e la luce della speranza di un futuro per se e i propri bambini. Una sequenza che si è replicata centinaia, migliaia di volte; ne conservo memoria personale e diretta dai tempi in cui da magistrato dirigevo le indagini contro i mercanti di esseri umani. Su questa isola Papa Francesco sta pronunciando un discorso: per altare ha una barca, per leggio un timone. Ha il volto contratto, severo, alza forte la voce: “La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone che sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, alla globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro”. Parole che rileggo spesso, che richiamano al dovere di affrontare il tema migratorio pensando non a ciò che è conveniente, ma a ciò che è giusto.

Sul piano etico, ma anche su quello, politico, sono convinto che le possibili risposte a questa drammatica sfida siano racchiuse in due parole chiave: solidarietà e responsabilità. La solidarietà impone di guardare al migrante come persona umana che, in quanto tale e indipendentemente dal suo status giuridico, è portatore di diritti. Diritti, lo avete certamente studiato, che definiamo “inviolabili”, perché la loro tutela supera le stesse esigenze di sicurezza e protezione dei confini. Valori che vengono prima di ogni altro valore. Vedete, carissimi ragazzi, io ho studiato e praticato il diritto per cinquant’anni e ho compreso che nessuna regola giuridica può ignorare le storie e i valori umani: è la realtà a dovere forgiare il diritto e non certo il contrario. La legge, qualsiasi legge, che ignori le tragedie umane snatura la propria autentica missione. Una lezione dimenticata da chi, anche nell’Europa dei diritti, oppone alla sofferenza, codicilli, regole, egoismo. Per questo dico che oggi in Europa dobbiamo ripartire dalla solidarietà e dalla responsabilità. Nessuno può considerarsi estraneo, a prescindere dalla propria esposizione geografica, politica, economica e sociale al problema.

Giungiamo alla dimensione politica. La prima constatazione è che finora l’Unione Europea non è stata in grado di fornire risposta comuni ed efficaci all’emergenza dei flussi migratori, mentre gli Stati membri più esposti sono incapaci di gestire il problema da soli. Nonostante significativi progressi registrati sul piano giuridico, l’azione dell’Unione europea si scontra con palesi limiti politici. La legislazione e la giurisprudenza della Corte di giustizia hanno già raggiunto alcuni importanti punti di convergenza: grazie alle direttive sulla condizione dei rifugiati e la concessione dell’asilo politico, sui permessi di soggiorno e sui ricongiungimenti familiari si sono armonizzate le condizioni di ingresso e soggiorno sul territorio europeo. Si tratta, però, di una forma di regolazione strumentale all’attuazione del principio di libera circolazione all’interno dell’Unione europea. Inoltre, molti Paesi non hanno ancora dato piena attuazione alle procedure europee. Ora serve una politica europea dell’immigrazione capace di superare gli approcci parziali che fino ad oggi hanno cercato di “porre argine” al fenomeno migratorio, senza affrontarne le complesse implicazioni con una visione d’insieme. Poiché le migrazioni odierne, a differenza di quelle degli anni Novanta, sono determinate da fattori politici più che economici, l’Unione non può esimersi da una coerente presa di coscienza politica del problema. Il Consiglio europeo straordinario dello scorso 23 aprile, richiesto dal mio Paese all’indomani della strage di migranti al largo della Libia, si è concluso con una Dichiarazione finale che sembra presupporre una presa di coscienza della situazione, e pone azioni prioritarie che si collocano lungo due principali direttrici.

Da un lato, vi è il tema della sorveglianza e del soccorso in mare, che fino alla fine del 2014 è stato coperto dall’operazione italiana nel Mar Mediterraneo meridionale denominata Mare Nostrum. Un’operazione italiana, del costo di 9,3 milioni di euro al mese, cui si aggiungeva un finanziamento integrativo di 1,8 milioni a valere sul Fondo dell’Unione europea per le Frontiere Esterne che dal 18 ottobre 2013 al 31 dicembre 2014 Mare Nostrum ha soccorso in mare 104.937 migranti. Conclusa Mare Nostrum, è stata avviata Triton, coordinata dall’Agenzia dell’Unione europea Frontex, che ha un raggio di azione molto più limitato (entro 30 miglia dalla costa italiana) e diverse regole di ingaggio: persegue obiettivi solo di sorveglianza delle frontiere marittime e contrasto all’immigrazione irregolare, non invece di soccorso in mare. Una differenza cruciale per quello che riguarda la tutela della vita umana. Il 23 aprile il Consiglio europeo ha deciso di finanziare in modo più consistente l’operazione e di incrementare la dotazione di mezzi. Una decisione che considero importante, il sintomo di una rinnovata sensibilità della politica europea al tema delle migrazioni. Ma in una prospettiva di medio-lungo periodo, è auspicabile che l’Unione cessi di considerare la questione come un fenomeno stagionale, rendendo strutturali gli interventi sul campo. Ed è opportuno che siano riconsiderate bene le funzioni della missione, dato che l’onere dei soccorsi continua a gravare sui singoli Paesi e sui mercantili privati che, in virtù delle normative internazionali, spesso si incaricano, completamente a proprie spese, delle operazioni di salvataggio. Solo il 2 maggio, l’Italia da sola ha soccorso 3690 persone nel Canale di Sicilia.

La seconda direttrice che guida l’azione europea è quella della prevenzione delle migrazioni irregolari attraverso il dialogo e la cooperazione con i Paesi di origine e transito dei flussi migratori. L’Unione europea ha sottoscritto una serie di accordi detti “Partenariati di Mobilità” con molti Paesi del vicinato orientale e mediterraneo e promuove meccanismi di dialogo regionale con i Paesi dell’Africa Occidentale e del Corno d’Africa. Io sono convinto non solo che le diverse forme di cooperazione regionale debbano essere approfondite ed estese, ma che l’Unione debba prendere coscienza che è necessaria una nuova politica per il Mediterraneo, che non può più essere considerato una delle tante priorità europee. Una delle priorità assolute è la questione libica che deve essere affrontata dalle Nazioni Unite e dall’Unione con un impegno unitario e ragionato. L’obiettivo ineludibile, per non trovarsi impantanati nelle sabbie libiche, è promuovere una soluzione politica: rifiutarsi di lavorare con uno dei due governi (Al-Bayta/Tobruk e Tripoli) e di intervenire nella guerra civile, richiedere come precondizione un governo di unità nazionale che ponga fine alle ostilità militari. Inutile nascondersi che questo non spegnerebbe automaticamente i micro-conflitti fra le tante milizie informali; ma un governo unitario consentirebbe all’Europa di avere un interlocutore, progressivamente acquisterebbe il controllo del territorio e guadagnerebbe quel potere di spesa che oggi non è nelle mani di nessuno.

La terza linea di azione europea non può che riguardare il contrasto ai trafficanti di persone, attraverso strategie condivise, operazioni congiunte, la cooperazione con i Paesi della sponda sud. L’Italia sta già facendo la sua parte: le forze di polizia e la magistratura stanno perseguendo energicamente scafisti e trafficanti. Ma serve un impegno comune per risalire alle linee direttive delle organizzazioni, che ormai agiscono da associazioni transnazionali, gestendo ogni fase del turpe commercio. Vi è poi una quarta dimensione della strategia europea relativa alle migrazioni, su cui è intervenuto il Consiglio europeo di aprile, ma che registra ancora resistenze a livello politico. Mi riferisco alla dimensione della solidarietà e responsabilità interne all’Unione europea, che si fonda sul potenziamento degli aiuti d’urgenza agli Stati “in prima linea” e sull’organizzazione di un sistema di ricollocazione di emergenza dei migranti fra gli Stati membri, su base volontaria. Spetterà alla Commissione definire i contorni di un progetto pilota volontario in materia di insediamento. A me sembra che sia questo il terreno su cui si misurerà il senso di responsabilità di ciascun Paese, data la natura volontaria del meccanismo di burden-sharing. La realizzazione di questo progetto, per altro verso, richiederà agli Stati membri uno sforzo concreto per dare effettiva attuazione al sistema europeo comune di asilo, che finora ancora stenta a consolidarsi.

Concludo tornando al punto di partenza.  

I paesi più ricchi, l’Unione europea, devono imparare a considerare l’immigrazione come una risorsa e un’opportunità, economiche ma soprattutto ideali, per edificare nuovi modelli sociali: comunità che siano coese, ma anche plurali e inclusive. In questo lungo percorso non dobbiamo temere le contaminazioni, la diversità. La nostra identità, ciò in cui ci riconosciamo e che giustamente amiamo e difendiamo, non è ferma, solida e immutabile, ma è il risultato di un confronto continuo e fecondo fra noi stessi, il tempo e gli altri. La stessa identità europea, edificata su quei valori e quella memoria comune che noi, portoghesi e italiani, sentiamo così fraternamente unirci, è stata forgiata anche dal confronto con l’alterità. L’Europa e il cosiddetto “Occidente” devono al cosiddetto “Oriente” e all’Islam la definizione di se stessi, almeno quanto gli “altri” devono la propria a noi. Il Mediterraneo, padre ed epicentro di queste esperienze, ha unito le due sponde molto più di quanto non dica la vuota retorica dello scontro di civiltà. Le due facce di una medaglia si rincorrono ruotandola, ma insieme restituiscono un’indissolubile unità, nella quale ciascuna componente ha senso se esiste l’altra. Il vostro dovere, cari ragazzi, è credere fermamente nella bellezza di un Mare nel quale le civiltà non si scontrano, ma si riconoscono, si rispettano, si contaminano; un luogo in cui le diversità non sono contrapposizioni ma declinazioni della nostra comune identità mediterranea e, in definitiva, della nostra incancellabile, preziosa umanità. E questa, cari ragazzi, è la grande speranza che ripongo in voi.

Grazie.