Cordoglio per la scomparsa di Luca De Filippo

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“L’ho  visto  tante  volte in teatro da spettatore e ho avuto il piacere di conoscerlo  più  da vicino e apprezzarlo come persona mentre preparavamo la celebrazione   di   Eduardo   in  Senato.  Un  grande  artista,  un  attore straordinario, un uomo simpaticissimo e colto.” Così  il  Presidente  del Senato, Pietro Grasso, in una dichiarazione, dopo aver appreso la notizia della scomparsa di Luca De Filippo. “Il  mio pensiero in questo momento – aggiunge il Presidente Grasso – va ai familiari,  in  particolar  modo  ai  figli e a sua moglie Carolina, e agli attori della sua compagnia che hanno perso un vero maestro”.

La mafia c’è ed è un fenomeno globale. L’antimafia è legalità, sviluppo e giustizia sociale

Intervento al vertice della Fondazione Caponnetto

La tesi generale è che l’economia riconducibile alla criminalità (e più in genere derivante dall’illecito) influenzi gli equilibri mondiali, non solo economici, ma anche di sicurezza e geopolitici. Nella mia passata funzione di Procuratore Nazionale Antimafia ho avuto modo di viaggiare e sottoscrivere una serie di accordi di cooperazione con decine di paesi del mondo, una sorta di “diplomazia penale”, si potrebbe dire. Oggi da Presidente del Senato ho l’opportunità di viaggi istituzionali e di dialogo con esponenti di paesi di diversi quadranti regionali, e così ho maturato alcune convinzioni. Le mafie si lasciano guidare nella ricerca del profitto dai fattori geopolitici, servendosi ai propri fini di mutamenti e tendenze; e allo stesso tempo agiscono da attori geopolitici producendo in via diretta o indiretta processi di natura geopolitica. Le mafie così possono determinare o risolvere conflitti, controllare territori, fare e disfare alleanze, ridisegnare confini, tenere in vita o soffocare intere economie o istituzioni politiche di interi Stati.

La criminalità organizzata, il terrorismo, il crimine economico transnazionale presuppongono delle vere relazioni internazionali. Così mentre gli Stati sono tenuti al rispetto di forme legali, rallentati da meccanismi farraginosi e faticano a cooperare fra loro, in una assurda ridda di frontiere giuridiche, le politiche delle organizzazioni criminali transnazionali nelle scelte di merci, mercati, rotte, investimento dei profitti sono favorite da vantaggi competitivi straordinari: la capacità di accedere ed elaborare informazioni e notizie riservate, rapidissimi meccanismi decisionali; disponibilità di sistemi di attuazione ed esecuzione garantiti da sanzioni efficaci e inappellabili, e di una vastissima rete di collaborazione internazionale che pragmaticamente prescinde da schemi nazionalistici, etnici e politici.(cellule etnie insospettabili) Le vere mafie possono poi contare su una forma immateriale di potere: il prestigio ed il consenso sociale conquistato tramite la dipendenza economica dall’organizzazione mafiosa degli abitanti dei territori democraticamente politicamente ed economicamente fragili e trascurati dalle istituzioni e la proposta di attraenti modelli di successo economico e sociale, fatalmente temporanei e illusori.

La globalizzazione dei mercati finanziari ha mutato profondamente le strategie economiche mafiose ma la comunità internazionale non vi ha opposto adeguate azioni comuni. In Italia abbiamo imparato prima di altri, fu Giovanni Falcone ad intuirlo per primo, che la lotta alle mafie transnazionali si gioca attraverso le indagini finanziarie e aggredendo i patrimoni illeciti, con la confisca e la prevenzione e repressione del riciclaggio. Ma è proprio su questo tema che la cooperazione fra gli Stati incontra le maggiori difficoltà. Rintracciare, identificare, riconoscere il denaro delle mafie e quello derivante dall’economia sommersa, ripulito da decine di transazioni, è la sfida del nuovo millennio.

Anche sul piano nazionale la recessione economica rappresenta per le mafie occasione di consolidamento e di arricchimento. L’ampia disponibilità di liquidità rispetto all’aggravarsi della stretta creditizia per le imprese e le famiglie determina un incremento esponenziale degli investimenti mafiosi nell’economia legale. Si è evidenziato negli ultimi anni un particolare attivismo in operazioni diversificate su mercati più o meno tradizionali (azionario, alimentare, immobiliare, edile, eolico, della ristorazione) e nell’acquisizione di migliaia di imprese in stato di dissesto. Un dramma epocale che permette ai detentori di ricchezze mafiose, provenienti da corruzione, o comunque ingiustificate, di inquinare irrimediabilmente il sistema economico. Si é venuto così a creare, una sorta di blocco sociale, una lobby economico-finanziaria, un sistema di reti interconnesse e integrabili fra di loro, dalle dimensioni indefinibili e di difficile accertamento, portatore di interessi personali, politici e mafiosi, costituito da una parte della classe dirigente: tecnici, avvocati, imprenditori, ingegneri, architetti, commercialisti, consulenti in genere, come interfaccia di collegamento tra mafie, da un lato, e imprenditoria, pubblica amministrazione e politica, dall’altro.

I risultati sono devastanti. Mentre si accentua la penetrazione criminale nel tessuto economico del paese, si incrementa la dipendenza e la lealtà alle mafie, si legittima l’ingresso nei circuiti legali e il riciclaggio dei capitali illeciti che inquinano, drogano il sistema finanziario. In un infernale meccanismo autoalimentato, l’impresa originariamente mafiosa, poi ripulita e resa legale grazie a operazioni finanziarie e societarie, produce altra crisi danneggiando la competitività e i mercati attraverso la concorrenza sleale con le imprese legittime. Può permettersi di condurre l’attività anche sottocosto o in perdita; non ha bisogno di ricorrere al sistema creditizio ufficiale e attraverso l’intimidazione e la violenza – usate solo quando assolutamente indispensabili – la corruzione, che sempre più tende a sostituire le prime, o il coinvolgimento nei profitti illeciti, beneficia di artificiali oligopoli e monopoli. E’ una forma di ingerenza che si evolve progressivamente nell’impresa e nella pubblica amministrazione sino ad una diretta infiltrazione nei gangli dell’economia e della politica locale e nazionale. È preoccupante che ormai tale rapporto si sia diffuso anche al Centro e al Nord, in regioni più produttive e ricche rispetto a quelle di origine delle mafie. Il prolungarsi della recessione determina una riduzione di certe voci di entrata  inducendo le organizzazioni a differenziare. Poiché la contrazione dei mercati riduce i proventi delle estorsioni e i tagli al bilancio pubblico i profitti derivanti direttamente (appalti, subappalti, noli) e indirettamente (tangenti, estorsioni) da lavori pubblici, la lobby economico-politico-mafiosa tende a finanziarsi inserendosi nel terziario, nella produzione di servizi privati e pubblici (ad esempio gestione dell’emergenza migranti)  o rivolgendosi a quei mercati che in periodi di recessione tendono ad espandersi: lo smaltimento illegale dei rifiuti pericolosi, la produzione e il commercio di beni contraffatti, il caporalato e il lavoro forzato.

Mi avvio a concludere. Credo che un giudizio storico sereno ed obiettivo ci consenta di dire che la mafia ha avuto un ruolo decisivo nelle sorti del Paese e che gioca una parte primaria nella profonda crisi politica, economica, etica in cui l’Italia si dibatte in questi anni difficili. Le politiche pubbliche hanno affrontato la questione mafiosa a fasi alterne. Mai strategicamente. Molti interventi normativi e organizzativi sono nati solo sull’onda di stragi e arresti, sulla scia di dolori collettivi o di scandali. Le tensioni si sono poi allentate e tutto è ritornato verso la normalizzazione.

Il degrado etico e morale del sistema politico e amministrativo, di cui inchieste, indagini e processi ci danno quotidiana testimonianza, evidenziano l’intreccio tra criminalità, politica, imprenditoria e amministrazioni pubbliche, trame sempre simili tra loro e accomunate dal disprezzo della cosa pubblica per fini privati. E’ all’interno di questo degrado che vicende come quelle di Mafia Capitale trovano terreno fertile. Una cappa criminale che ha attanagliato Roma, un sistema che ha speculato sul disagio e sui migranti, sugli appalti pubblici, sulle municipalizzate, che ha impoverito la Capitale e negato ai cittadini livelli di decenza dei servizi pubblici grazie a un uso sistematico di tangenti, sperpero di denaro pubblico, minacce e violenza. Per superare il degrado, per liberare la politica e le amministrazioni dal malaffare,  abbiamo bisogno di una classe dirigente credibile e trasparente ma anche, lo dico con dolore, di un’antimafia che sappia guardare al proprio interno e abbandonare il sensazionalismo, il protagonismo, la pretesa primazia di ogni attore, la corsa al finanziamento pubblico e privato. Negli ultimi mesi abbiamo visto emergere scandali che infangano questo mondo e che offrono lo spunto a chi vuole cavalcare questi episodi per chiudere definitivamente una lunga storia di riscatto sociale e morale.

Serve un’antimafia unita, determinata ma anche umile, che collabori con le forze dell’ordine e la magistratura ma soprattutto che persegua il fine comune, che non è quello di essere l’associazione più visibile, o la più finanziata, o che meglio catalizza il consenso. L’obiettivo, non dimentichiamolo, è il cambiamento culturale diffuso, il rifiuto del compromesso, è fare terra bruciata intorno alle mafie per isolarle e poterle colpire meglio con gli strumenti dello stato di diritto. Abbiamo bisogno di un’antimafia che vada avanti con  coraggio, passione, determinazione, che sia di stimolo e pungolo per le istituzioni locali, nazionali e internazionali, che non consenta di abbassare la soglia dell’attenzione e del contrasto ai padrini, siano mafiosi che politici.

Solo partendo da questi valori possiamo pretendere il cambiamento della società e della politica, che deve tornare ad animare spinte ideologiche, soprattutto fra i più giovani: deve ispirare, deve plasmare, deve realizzare validi progetti strategici di cambiamento per il futuro del Paese e delle giovani generazioni. E questo, vi assicuro, come politico, io considero il mio più importante impegno.

Terrorismo, non bastano gli interventi militari

Intervento al Seminario Congiunto del Gruppo Speciale sul Mediterraneo e il Medio Oriente e della Sottocommissione per le Relazioni Economiche Transatlantiche dell’Assemblea Parlamentare della NATO

Autorità, cari colleghi, cari amici,

partecipo con molto piacere anche quest’anno al Seminario congiunto del Gruppo speciale sul Mediterraneo e Medio Oriente e della Sottocommissione sulle relazioni economiche transatlantiche dell’Assemblea Parlamentare della Nato. Ringrazio il presidente della Delegazione italiana Andrea Manciulli per l’invito, l’Onorevole Gilbert Le Bris che presiede il GSM, e il Sindaco di Firenze Dario Nardella per l’accoglienza calorosa che ogni volta ci riserva a Firenze (e devo dire che per fortuna mi capita molto spesso di venirci).

Per una dolorosa coincidenza questo incontro si svolge a pochi giorni dai fatti di Parigi e vorrei aprire il mio intervento con un pensiero di affetto e vicinanza a tutti coloro che soffrono a Parigi, a Bamako, a Beirut, a Garissa, e ovunque nel mondo cittadini inermi sono stati cinicamente trasformati in obiettivi politici. Credo sia particolarmente importante che di questi temi possa discutersi nel contesto di un incontro parlamentare sul Mediterraneo e Medio Oriente perché le assemblee rappresentative sono la più alta espressione della democrazia e noi, cari colleghi, abbiamo la speciale responsabilità di garantire i diritti e le libertà delle persone e di stimolare e controllare la politica estera e di sicurezza dei governi. Considero molto significativo che il seminario sia stato strutturato in modo tale da aprirsi sul tema del terrorismo di matrice jihadista, proseguendo con sessioni dedicate a diversi aspetti regionali: il finanziamento del terrorismo, i flussi e la protezione dei rifugiati, le questioni energetiche, i diritti delle donne, la Libia, l’Iran e gli equilibri geopolitici dell’area.

Per comprendere e agire correttamente è fondamentale considerare nel suo complesso questa vasta area geografica nella quale siamo immersi. I fenomeni negativi che ci troviamo ad affrontare sono tutti intimamente connessi e io credo derivino essenzialmente da quella debolezza politica e istituzionale che, generando vuoti geopolitici, ha consentito a poteri illegittimi, criminali e informali di occuparli. Una situazione che ha determinato profonde fratture: politiche, economiche, sociali. Tutti i nostri Paesi condividono la precisa responsabilità di non avere saputo predisporre credibili strategie e politiche comuni per influire sul corso degli eventi, risparmiare morti, sofferenza, crisi economica, instabilità. Per quanto attiene specificamente allo Stato Islamico, non può sottacersi come i gravi errori di calcolo di chi ha sostenuto milizie di vario genere, perdendone spesso il controllo, siano stati una concausa del radicamento territoriale del gruppo terroristico con le conseguenze drammatiche che conosciamo.

Anche di fronte alle tensioni di questi giorni fra Turchia e Russia, dobbiamo oggi fare appello alla calma e alla ragione sforzandoci di trovare nei rischi per la democrazia e la pace una ragione superiore e ineludibile di unità. In questo momento gli interessi particolari di ogni paese devono passare in secondo piano e dobbiamo essere compatti nello sforzo di ricomporre le fratture e trovare soluzioni politiche per la regione, con il pieno concorso di tutti gli attori regionali e internazionali, nessuno escluso. Credo che l’Unione Europea e l’Alleanza Atlantica abbiano in questo senso un forte dovere di unire, attraverso esercizi di prudenza e di dialogo. In questa direzione si muove decisamente e convintamente l’Italia.

Inoltre, considero miope parlare di Mediterraneo e di Medio Oriente focalizzando l’attenzione solo sulle instabilità, sulle minacce e sui fenomeni negativi. Da questa regione derivano opportunità vitali per tutti e, proprio in questo momento di crisi, dobbiamo avere la lucidità di guardare con speranza al futuro edificando ponti, ideali e materiali. L’agenda dei lavori soddisfa perfettamente questa visione e credo che questo sia lo spirito giusto con cui affrontare questi due giorni di dibattiti.

A proposito della lotta allo Stato Islamico vorrei proporre alcune considerazioni. La prima è che l’uso spregiudicato dei metodi terroristici e della violenza e il richiamo abusivo a ideologie e valori religiosi non devono sviarci sulla reale natura di questa organizzazione. Lo Stato Islamico è un soggetto geopolitico che, a differenza di altre organizzazioni terroristiche, ha fatto della dimensione territoriale la propria principale caratteristica, occupando territori fra l’Iraq e la Siria ed effettuando una feroce pulizia etnico-religiosa per costituire uno pseudo stato illegittimo di natura confessionale.

La differenza strategica con altre esperienze del terrorismo jihadista è che lo Stato Islamico adotta una più visione moderna e concreta, e dunque più pericolosa, focalizzata sulla stabilità territoriale e sul tentativo di divenire la forza di attrazione dei fondamentalisti di tutto il mondo, compresi quelli occidentali. In questo senso la narrativa propagandistica dello Stato Islamico, l’uso sapiente dei mezzi di comunicazione e dei social media assumono una funzione motivazionale soprattutto delle giovani generazioni. I giovani del Medio Oriente e dell’Occidente disoccupati, marginalizzati, delusi dalla società sono fatalmente attratti da questi messaggi che si richiamano a gesta eroiche e a distorti valori di giustizia.

Un’altra dimensione di questo soggetto terroristico è quella criminale. Lo Stato Islamico ha bisogno di attività criminali per sopravvivere: traffici di idrocarburi, di droga, di esseri umani, di armi, di beni culturali. D’altronde le interconnessioni fra terrorismo, criminalità organizzata e traffici sono note da tempo e le indagini, in Italia, hanno svelato particolari diverse forme di rapporto fra le mafie e segmenti del terrorismo.

Emerge nella nostra esperienza che i gruppi terroristici ricorrono a delitti a fini di profitto per finanziare la propria esistenza e le proprie azioni; che spesso convergono le rotte e le modalità di spostamento di beni e persone, nel caso di traffici e in quello di azioni terroristiche ed eversive; che le mafie hanno sperimentato modalità di attacco allo Stato tipiche del terrorismo, usando mezzi e strumenti che determinano la morte indiscriminata di vittime estranee ed inermi.

In una di queste indagini è emerso che a Milano, già quindici anni fa, si svolgevano attività delittuose che servivano a finanziare i campi di addestramento in Iraq di Abu Musab al Zarqawi in Iraq: colui che nel 1998 fondò un gruppo militante jihadista in Iraq, trasformatosi nel 2004 in Al Qaeda in Iraq, e che poi istituì una formazione siriana, Jahbat al Nusra, che darà poi vita all’ISIS.

Questo implica che per sconfiggere lo Stato Islamico e il terrorismo non basterà l’intervento militare ma serviranno almeno tre linee di azione. In primo luogo, programmare il futuro istituzionale e politico della regione, in modo da assicurare che le diverse componenti etniche e religiose dell’area geografica occupata dallo Stato Islamico abbiano un proprio spazio. A questo fine sarà necessario rafforzare il governo in Iraq e mettere fine alla guerra civile in Siria, attraverso un profondo impegno diplomatico.

In secondo luogo, rigettare la logica dello scontro di civiltà, che i terroristi, e purtroppo anche alcuni poco accorti politici occidentali, usano per spiegare quella che è una guerra di interesse fra rivali regionali, e che è linfa per la retorica dello Stato Islamico. In terzo luogo, mettere in campo contro gli affari illeciti dei terroristi l’armamentario giuridico e operativo sviluppato per colpire la criminalità organizzata transnazionale. In questo senso sarà necessario rafforzare la cooperazione giudiziaria, investigativa ed informativa.

A proposito del tema dei rifugiati penso che stabilire un nesso fra la sicurezza dei cittadini e l’arrivo dei profughi sia un errore inaccettabile: i giovani terroristi a Parigi erano purtroppo cittadini europei. Certo, devono essere rafforzati i controlli dei transiti, migliorate le procedure di asilo, usati i mezzi di polizia e prevenzione per evitare possibili infiltrazioni terroristiche. Dobbiamo incrementare al massimo la cooperazione fra gli Stati. Ma non possiamo mettere in discussione il dovere, morale e giuridico, di accogliere le persone incolpevoli che fuggono da guerre e persecuzioni. La nostra comune responsabilità è proteggere la vita e la serenità dei cittadini, combattendo la barbarie solo con gli strumenti dello Stato di diritto, della democrazia, del multilateralismo e della diplomazia e proteggendo in ogni circostanza i diritti fondamentali e la libertà di credo di ogni persona, che sia cittadino, residente, ospite, profugo o migrante.

Grazie.

 

Giudici Corte, dichiarazione congiunta dei presidenti delle Camere

Ventisette scrutini non sono stati sufficienti per eleggere i Giudici della Corte  Costituzionale.  Ventisette  sedute  che  le Camere avrebbero potuto diversamente impiegare per affrontare questioni dirimenti per il futuro del Paese. La prima seduta si è svolta 12 giugno 2014 per eleggere due Giudici. Oggi,  a  17  mesi  di  distanza,  il Parlamento era chiamato ad eleggere 3 componenti della Consulta.

E’ grave che il Parlamento ancora una volta non sia riuscito ad esprimere i suoi   rappresentanti  alla  Corte,   il  cui  funzionamento  è  seriamente compromesso dalla mancanza di un accordo efficace tra le forze politiche. E’  nostra  convinzione  che,  per  di più in un momento di grande tensione internazionale come quello che stiamo vivendo in queste settimane, i Gruppi Parlamentari  debbano  impegnare  tutte  le proprie forze per consentire la massima operatività delle Istituzioni. Ancora  una  volta,  facciamo  nostro  l’appello  che  il  Presidente della Repubblica  Sergio Mattarella ha rivolto il 2 ottobre scorso al Parlamento, affinché   “provveda,   con   la  massima  urgenza,  a  questo  doveroso  e fondamentale  adempimento,  a tutela del buon funzionamento e del prestigio della  Corte  Costituzionale  e a salvaguardia della propria responsabilità istituzionale”. Nelle  prossime ore comunicheremo la data della nuova seduta comune, che si terrà a breve.

Io non taccio. L’Italia dell’informazione che dà fastidio

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Il Presidente del Senato, Pietro Grasso, ha ricevuto oggi a Palazzo Madama due co-autori del libro “Io non taccio. L’Italia dell’informazione che dà fastidio”, Federica Angeli e Paolo Borrometi. Erano presenti il curatore della collana “Fatti e Misfatti” delle Edizioni Cento Autori, Nico Pirozzi, il Presidente e  il Segretario di “Ossigeno per l’informazione”, Alberto Spampinato e Giuseppe Federico Mennella. Il libro racconta la storia di otto giornalisti che hanno subito minacce e intimidazioni a causa del loro lavoro di cronisti. Il Presidente Grasso ha espresso il proprio apprezzamento per le testimonianze  raccolte e narrate nel volume, ribadendo nell’occasione la vicinanza ai giornalisti che svolgono la propria attività in condizioni difficili, a volte anche a rischio dell’incolumità  personale.

In ricordo di Carlo Levi uno sguardo partecipato sull’emigrazione italiana

Gentili Ospiti, colleghi,

è con molto piacere che ho accolto l’invito che il senatore Micheloni mi ha rivolto chiedendomi di intervenire a questo incontro su Carlo Levi, figura di intellettuale complessa e dai molti talenti, nel quarantesimo anniversario dalla morte e settantesimo dalla pubblicazione della sua opera più nota, “Cristo si è fermato a Eboli”.

Come si evince dal titolo, colui che ricordiamo principalmente come scrittore in questa sede sarà oggetto di relazioni che esamineranno le sue diverse sfaccettature, perché Levi fu anche apprezzato pittore e politico attivamente impegnato. Il suo capolavoro scritto a Firenze durante l’occupazione tedesca della città, “Cristo si è fermato a Eboli”, è una rielaborazione dell’esperienza del confino prima a Grassano e poi ad Aliano, in provincia di Matera. Ebbe immediato successo, suscitando dibattiti e analisi sul rapporto tra civiltà contadina e modernizzazione, e divenne il soggetto del noto film di Francesco Rosi del 1979, prestandosi perfettamente alla trasposizione da parte del grande regista recentemente scomparso date le sue forti analogie con il filone di narrativa neorealista.

C’è una frase in quel libro che colpisce il nervo più scoperto per chi, come me, ha servito le Istituzioni, in forme diverse, per tutta la vita:  “Che cosa avevano essi a che fare con il Governo, con il Potere, con lo Stato? Lo Stato, qualunque sia, sono «quelli di Roma», e quelli di Roma, si sa, non vogliono che noi si viva da cristiani. C’è la grandine, le frane, la siccità, la malaria, e c’è lo Stato. Sono dei mali inevitabili, ci sono sempre stati e ci saranno sempre.”

Mi viene da dire che Cristo può fermarsi dove crede, nella sua onnipotenza, ma lo Stato non può certo fermarsi ad Eboli, o a Roma. Così ogni volta che leggo di un viadotto crollato in Calabria o in Sicilia, di trasporti veloci che si fermano a Salerno, di strade che sono in perenne costruzione o, come nei giorni scorsi, di intere città senz’acqua, come Messina, o in cui esce dai rubinetti acqua gialla, come a Olbia, mi chiedo quando le Istituzioni – nazionali, regionali, locali – saranno davvero in grado di creare le condizioni per uno sviluppo che vada oltre lo 0,1% e metta in condizione di vera parità e uguaglianza, almeno in partenza, tutti i cittadini del nostro Paese. Sono state procrastinate alla seconda lettura alla Camera le misure per il sud, attendiamo fiduciosi.

Torniamo a Carlo Levi: nel 1963 entrò in politica, risultando eletto senatore nel collegio di Civitavecchia come indipendente del Partito comunista italiano e, nel 1968, nel collegio di Velletri nelle liste del PCI – PSIUP (Partito socialista di unità proletaria). Nei nove anni di mandato parlamentare nella IV e nella V legislatura fu membro di Commissioni diverse e, come documentato nella raccolta dei “Discorsi parlamentari” edita dal Senato,  intervenne sulle più importanti questioni di politica interna e di politica estera dell’epoca: il varo dei primi governi di centrosinistra (che lealmente contrastò), i problemi del Sud, dell’emigrazione e della programmazione economica, la contestazione studentesca, la “primavera di Praga”, la guerra del Vietnam, i rapporti con la Cina. Essendo stato anche componente della Commissione di indagine sul patrimonio culturale, tema a lui caro, intervenne a più riprese anche in quest’ambito, in particolare in occasione delle celebrazioni del settimo centenario della nascita di Dante, della morte di Giorgio Morandi e per la tutela dei beni artistici e paesaggistici. Conoscendo a fondo la realtà e le problematiche che hanno origini storiche lontane, giudico, inoltre, di particolare rilievo i discorsi riguardanti le condizioni della Sicilia, indubbiamente sollecitati dalla consonanza intellettuale e dall’amicizia tra Carlo Levi e Danilo Dolci. La risonanza che ebbe il romanzo scritto in seguito all’esperienza del confino mise in ombra la sua attività di pittore – anch’essa sotto molti profili influenzata dal soggiorno coatto in Basilicata – ma non è affatto da escludere che, se il corso della sua vita non fosse stato profondamente segnato e mutato dall’improvvisa notorietà in ambito letterario, probabilmente lo ricorderemmo principalmente come pittore di nature morte, nudi, paesaggi e ritratti, pittore assolutamente riconosciuto, tant’è che espose nell’ambito di manifestazioni prestigiose quali la Biennale Venezia del 1924 e  quella successiva.

Come si è visto, le angolazioni da cui esaminare l’opera di Carlo Levi sono molteplici. Molto è già stato scritto e detto rispetto ad ognuna di esse. Per questo trovo particolarmente originale il taglio che si è voluto dare all’incontro odierno, il rapporto Levi-emigrazione, e mi complimento vivamente per la scelta. In attesa dei nuovi elementi che i vostri contributi ci forniranno anche su questo aspetto meno noto, vi auguro buon lavoro.

Indottrinamento mafioso e responsabilità genitoriale

Autorità, cari amici, gentili ospiti,

è davvero un piacere per me ospitare in Senato questo incontro sul tema dell’indottrinamento mafioso e la responsabilità genitoriale. Nelle ultime settimane, complice la ricorrenza della Giornata mondiale per i diritti dell’infanzia e dell’adoloscenza, ho avuto modo di parlare della situazione dei minori nel nostro Paese da diversi punti di vista. Giorni fa abbiamo presentato la Costituzione raccontata ai bambini da Geronimo Stilton promossa dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adoloscenza; la settimana scorsa l’Atlante dei “Bambini senza” di Save the Children, con dati da far tremare le vene ai polsi; affrontato il tema dei minori non accompagnati che arrivano in Italia insieme alla Commissione parlamentare per l’infanzia;  oggi siamo qui per capire come l’orientamento del Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria abbia funzionato e possa essere usato come modello. E’ il segno di un’attenzione profonda e costante sulla situazione dei più giovani tra i nostri cittadini, un lavoro che vede insieme istituzioni e volontariato in tutto il Paese e che aspetta di tradursi in norme ma soprattutto in investimenti strutturali e non episodici.

Il rapporto tra i legami di sangue e quelli criminali è stato oggetto di interessanti studi e di elaborazioni teoriche sia da un punto di vista sociologico che psicologico. Le diverse forme della criminalità organizzata hanno sempre utilizzato un “codice familiare”: penso a Cosa nostra, ad esempio, la cui regola base, non a caso, recita: “Quannu mamma cumanna, picciotto ubbirisci”, quando la mamma (mafia) comanda, il picciotto (uomo d’onore) ubbidisce, o l’abitudine di chiamare “famiglia” il proprio clan di appartenenza. Il caso calabrese è ancora più emblematico in questo senso: le ‘ndrine sono vere e proprie famiglie di sangue, da cui è ancora più difficile immaginare di liberarsi per collaborare con la giustizia. Anzi, spesso si allevano i figli fin dalla più tenera età con l’idea della faida, della vendetta, dell’odio nei confronti della famiglia rivale. Come Stato però non possiamo accettare l’idea che la nascita rechi le tracce di un destino segnato, che nel dna sia impresso il comportamento criminale, che non possa darsi speranza per i figli dei criminali. Sono tanti i casi di figlie e figli che si sono allontanati dall’ascendenza mafiosa dei propri genitori: ciascuno di loro ha dovuto affrontare dilemmi profondi e laceranti, ma con il sostegno di figure adulte di riferimento – penso soprattutto a tante madri coraggiose, a tantissimi insegnanti testardi, a molti sacerdoti impegnati – sono riusciti a liberarsi dallo stigma familiare.

Non posso dimenticare il caso di Carmela Iuculano che, dopo aver sostituito a tutti gli effetti il marito mafioso detenuto, fu dapprima arrestata e poi messa ai domiciliari perché madre di un bambino piccolo, e venne poi convinta dalle due figlie di dieci e tredici anni, che a scuola avevano seguito un percorso di legalità, a collaborare con la giustizia anche a costo di accusare il loro padre. Quale altro esempio può darci maggiore speranza nel cambiamento? Io credo fortemente in questa possibilità di cambiamento che nasce dalla consapevolezza, dalla cultura, dall’amore verso i propri figli. Recidere i legami familiari con un provvedimento giuridico è possibile, ma nessun sentimento si dissolve per decreto. Lavorare con determinazione, pazienza e impegno con queste ragazze e questi ragazzi è senza dubbio più difficile, ma è l’unica strada che possa davvero liberare i figli dalle colpe dei padri.  Ringrazio di cuore tutti i presenti, tra i quali vedo amici ed ex colleghi, e vi auguro un proficuo lavoro.

Grazie.

750 anni di Alighieri. Presentazione del facsimile dell’Officiolo

Autorità, Colleghi, gentili ospiti,

è per me un’emozione e un vivo piacere poter ospitare qui in Senato un ulteriore momento di celebrazione dei 750 anni della nascita di Dante Alighieri. Da quando abbiamo inaugurato le celebrazioni in Aula lo scorso maggio ho avuto notizia di iniziative di ogni tipo in tutto il Paese e all’estero, segno che il Sommo Poeta  è sentito, come avevamo auspicato allora, un simbolo imprescindibile della identità culturale dell’Italia e degli italiani. Oggi abbiamo l’occasione di presentare il facsimile dell’ “Officiolo” di Francesco da Barberino: ringrazio per questo i relatori presenti ed in particolare il professor Enrico Malato per l’impegno profuso nella realizzazione di questo pregiatissimo progetto editoriale.

L’ “Officiolo” è un’opera estremamente preziosa, che si temeva perduta e che fortunatamente è riapparsa nel 2003. Una volta riconsciuta l’autenticità venne messo all’asta e fu acquistato da un collezionista anonimo che, in occasione della solennità di questo anniversario, non solo ha rotto il muro della riservatezza ma ha acconsentito a che di quest’opera unica si producessero i facsimile, allargando in questo modo ad un vasto pubblico la possibilità di goderne le bellezze. Tante sono le sue peculiarità. Innanzitutto risulta essere il primo “Libro d’Ore” italiano a noi noto di quel periodo, ovvero la prima raccolta delle preghiere alle quali il fedele era tenuto per ciascuna delle ore canoniche in cui era divisa la giornata.

In secondo luogo, il motivo per cui siamo qui oggi,  l’ “Officiolo” costituisce, come da illustri autori evidenziato, la prima testimonianza documentale della suggestione e del fascino esercitati dall’Inferno dantesco sui lettori della Commedia da un lato, e da Giotto sull’arte pittorica dall’altro. Se il suo autore, Francesco da Barberino, risulta essere il primo autore ad aver menzionato la Commedia di Dante, tra la fine del 1313 e l’inizio del 1314, in una chiosa autografa alla sua opera “Documenti d’Amore“, l'”Officiolo” – che è di pochi anni più antico – per le numerose raffigurazioni allegoriche che contiene e che richiamano con evidenza suggestioni dantesche e giottesche, è la testimonianza straordinaria del successo che l’opera del Sommo Poeta ebbe sin da subito, addirittura forse mentre era ancora in corso di scrittura.

Lascio a studiosi ben più qualificati di me, agli esperti della materia, illustrare le raffinate decorazioni, il mirabile apparato iconografico e le altre caratteristiche che rendono questo “Officiolo” un unicum che va ben al di là della sua stessa natura di libro d’ore, un vero e proprio gioiello dell’arte italiana. Voglio però ringraziare Guido Rossi, il suo fortunato possessore, per aver consentito, in occasione del 750° Anniversario della nascita di Dante e in vista del 700° Anniversario della sua morte, la riproduzione in facsimile. E ringrazio nuovamente il professor Malato e tutti gli studiosi che si sono adoperati e si adopereranno per portare avanti questo importante progetto editoriale che consentirà a studiosi e appassionati di arte e cultura dantesca di conquistare una ulteriore chiave di accesso all’universo dei valori che il Sommo Poeta ci ha lasciato.

Grazie.

Premio Giustolisi. C’è bisogno di giornalismo coraggioso

Signor sindaco, autorità, gentili ospiti,

è davvero un’emozione essere qui oggi con voi al Museo storico della Resistenza di Sant’Anna di Stazzema. In questo borgo si è verificata una delle stragi più atroci delle tante che, tra l’autunno del 1943 e la primavera del 1945, videro l’esercito tedesco  distruggere paesi, uccidere civili, fare terra bruciata sul percorso di quella che era una fuga rivalendosi soprattutto su donne, bambini, anziani. Si stimano più di 15.000 vittime, centinaia di comuni colpiti: non posso citarli tutti ma da questo luogo il nostro ricordo è rivolto a ciascuno di quei “borghi inermi straziati dallo sterminio”, parafrasando le parole di Calamandrei scolpite all’ingresso, e il mio saluto più affettuoso va ai sopravvissuti presenti in sala.

Commuove vedere il vostro affetto e la vostra presenza oggi qui per ricordare chi si è battuto affinché non venissero dimenticate le vostre storie e quelle dei vostri familiari. A fronte di atti così spaventosi, abbiamo dovuto attendere quasi 50 anni per vedere nelle aule processuali i responsabili di quei crimini, ovvero il ritrovamento dei 695 fascicoli d’inchiesta occultati in un armadio presso l’Archivio della Procura generale militare di Roma. Se siamo qui oggi è perché un giovane cronista di circa 70 anni diede per primo conto della scoperta del procuratore Antonio Intelisano e sintetizzò quella vicenda con un’immagine talmente evocativa da essere entrata ormai nell’immaginario collettivo: “L’Armadio della Vergogna”. Continuò fino all’ultimo giorno a battersi con grinta, denunciando non solo le responsabilità ma anche i silenzi contro cui si imbatteva nella ricerca di verità e giustizia per i pochi sopravvissuti e le tantissime vittime.

L’ho già ricordato parlando di lui alla presentazione di questo premio, l’immagine che più mi ha colpito di Franco Giustolisi è stata la frase con cui ha esordito quando in Senato si è tenuto per la prima volta un incontro nazionale su questo tema in una sede istituzionale: “da oggi entriamo nel futuro”. Proprio per onorare questa sua idea di futuro ho aderito con entusiasmo alla proposta di istituire il premio per il giornalismo d’inchiesta “Franco Giustolisi – Giustizia e Verità”, affiancando a questo il premio “Franco Giustolisi – Fuori dall’Armadio”.

Nella sua sessantennale carriera Franco Giustolisi di armadi ne ha aperti tanti, e di vergogne ne ha raccontate molte, a cominciare da Paese Sera e da quel giornale eretico che era L’Ora di Palermo – giornale che ha visto ben tre giornalisti uccisi dalla mafia: Cosimo Cristina, Mauro de Mauro e Giovanni Spampinato – poi al Giorno, alla Rai, infine all’Espresso, ben rappresentato qui oggi, dove ha lavorato per più di 30 anni. Rileggere i suoi articoli, che mi piacerebbe poter vedere presto riuniti in una sorta di antologia, significa infatti riportare alla memoria, o far conoscere ai più giovani, alcune delle pagine più drammatiche della storia del nostro Paese.

La giuria ha scelto quattro professionisti che si sono impegnati su temi diversi: Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo per il racconto a puntate sul degrado di Roma pubblicato dal Corriere della Sera, Lirio Abbate per le inchieste su Mafia Capitale che sono state pubblicate a partire dal 2012 sull’Espresso e a Francesca Mannocchi per lo splendido reportage dalla Libia andato in onda su La7 all’interno di Piazza Pulita, che anche nei giorni scorsi ci ha mostrato immagini forti della città di Sinjar appena liberata dall’Isis.

Oltre ai miei complimenti ai vincitori vorrei provare a legare questi temi diversi in un unico ragionamento. Il degrado etico e morale del sistema politico e amministrativo, di cui inchieste, indagini e processi ci danno quotidiana testimonianza, evidenziano l’intreccio tra criminalità, politica, imprenditoria e amministrazioni pubbliche, trame sempre simili tra loro e accomunate dal disprezzo della cosa pubblica per fini privati. E’ all’interno di questo degrado che vicende come quelle di Mafia Capitale trovano terreno fertile. Una cappa criminale che ha attanagliato Roma, un sistema che ha speculato sul disagio e sui migranti, sugli appalti pubblici, sulle municipalizzate, che ha impoverito la Capitale e negato ai cittadini livelli di decenza dei servizi pubblici grazie a un uso sistematico di tangenti, sperpero di denaro pubblico, minacce e violenza.

La follia del terrorismo ci tocca in queste ore in modo particolare: come ho scritto al promotore della manifestazione lanciata dalle comunità islamiche in Italia, che proprio in questo momento è in corso a Roma, lo sgomento che sentiamo può essere sconfitto solo con la ragione. Lo abbiamo già dimostrato con il terrorismo politico e con le stragi di mafia: per sconfiggere chi pensa di condizionare il nostro modo di vivere e di pensare dobbiamo reagire uniti, contrastando con le armi del diritto, della democrazia e della giustizia la follia di pochi.

Dobbiamo rigettare lo scontro di civiltà e la guerra di religione, isolare chi usa in modo perverso il suo credo, accogliere chi fugge dai territori dove sventola la bandiera nera dell’Isis e dimostrare che siamo consapevoli delle difficoltà che dovremo affrontare nel nostro presente ma certi che sapremo vincere anche questa sfida attraverso, per tornare a Calamandrei, “un patto giurato fra uomini liberi / che volontari si adunarono / per dignità e non per odio / decisi a riscattare / la vergogna e il terrore del mondo”.

Per superare il degrado, per liberare la politica e le amministrazioni dal malaffare, per spegnere l’arma principale del terrorismo che è la nostra paura, abbiamo bisogno di una classe dirigente credibile e trasparente e di un giornalismo che non si abbandoni al sensazionalismo ma vada avanti con coraggio, passione, determinazione, verifica scrupolosa delle notizie e soprattutto schiena dritta, sia di fronte ai padroni che ai padrini.

E’ un lavoro difficile, ma è il lavoro che avete scelto. Fatelo con lo stesso spirito con cui lo ha sempre fatto Franco, che oggi tutti ricordiamo non con tristezza ma, come credo piacerebbe a lui, con rabbia e con amore.

Grazie.

Solidarietà al Ministro Alfano

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Il Presidente del Senato Pietro Grasso ha espresso, nel corso di una conversazione telefonica, la propria solidarietà e vicinanza al Ministro dell’Interno Angelino Alfano, destinatario delle pesanti minacce mafiose riportate oggi dagli organi di informazione.