Cari Colleghi, Autorità, Signore e Signori,
permettetemi di ringraziare i relatori, e in special modo il Presidente della Commissione straordinaria per i diritti umani, Sen. Manconi, per aver voluto organizzare questo incontro. Per me è un grande piacere essere qui oggi per parlare di diritti umani e doveri morali nell’ottica europea, proprio nel momento di forte disorientamento e di sofferenza sociale per i cittadini dell’Unione. Tutto nasce da una telefonata tra me e il Presidente Manconi dopo la lettura di un articolo di Gad Lerner, che riprendeva un discorso da lui già affrontato in precedenza. Era il 2009 quando per la prima volta, almeno a mia memoria, una giornalista dell’Avvenire, Marina Corradi, azzardò il paragone tra l’indifferenza dei popoli europei alla persecuzione nazista degli ebrei e l’indifferenza attuale e quotidiana nei confronti della disperazione e della morte di migliaia di migranti nel Mediterraneo. Riporto quel passaggio, che venne immediatamente ripreso e rinforzato proprio da Gad Lerner su Vanity Fair: “La nuova legge del non vedere. Come in un’abitudine, in un’assuefazione. Quando, oggi, leggiamo delle deportazioni degli ebrei sotto il nazismo, ci chiediamo: certo, le popolazioni non sapevano; ma quei convogli piombati, le voci, le grida, nelle stazioni di transito nessuno li vedeva e sentiva? Allora erano il totalitarismo e il terrore, a far chiudere gli occhi. Oggi no. Una quieta, rassegnata indifferenza, se non anche una infastidita avversione, sul Mediterraneo. L’Occidente a occhi chiusi.” Ora, dopo le due drammatiche stragi del 3 ottobre 2013 e dello scorso 18 aprile, con centinaia di migranti persi in fondo al mare, nessun paese, nessun governo, ma voglio dire anche nessun cittadino può dire di “non sapere”.
L’indifferenza è stata una componente centrale degli anni bui dei totalitarismi: lo ricorda spesso Liliana Segre. Una sua frase mi ha molto colpito: “Sui vostri monumenti alla Shoah non scrivete violenza, razzismo, dittatura e altre parole ovvie, scrivete ‘indifferenza’: perché nei giorni in cui ci rastrellarono, più che la violenza delle SS e dei loro aguzzini fascisti, furono le finestre socchiuse del quartiere, i silenzi di chi avrebbe potuto gridare anziché origliare dalle porte, a ucciderci prima del campo di sterminio”. Il legame tra memoria e impegno contro l’indifferenza è presente in molti interventi di chi è riuscito a sopravvivere, ma lacerato nel corpo e nell’animo. Invitato a parlare nel 2000 a Roma su “La fisica nel XXI secolo”, il premio Nobel per la chimica Walter Kohn iniziò la sua relazione ricordando i familiari e i suoi docenti morti nei campi di sterminio, e alla fine disse: “ricordo queste persone non per recriminare su ciò che avreste potuto dire e fare, e non avete fatto, ma solo per chiedervi che cosa farete la prossima volta”.
Voglio dirlo chiaramente: la Shoah rappresenta un “unicum” che non ha paragoni nella storia perché mai si è ideata, progettata e realizzata una vera e propria industria della morte così efficiente e spietata. Eppure il monito di Kohn suona comunque come un severo e atroce rimprovero se si guarda a quanto è successo da allora in Europa e altrove. Stupri; deportazioni; omicidi di civili e di prigionieri di guerra; esecuzioni di massa; torture; persecuzioni razziali, politiche, religiose; genocidi: a queste atrocità la comunità internazionale ha spesso opposto una colpevole indifferenza, per disinteresse, per calcolo politico o per rispettare il principio della “non interferenza” negli affari interni degli altri stati. L’elenco è lungo: Jugoslavia, Ruanda, Darfur, Iraq, Sierra Leone, Afghanistan e molti altri luoghi. Abbiamo dovuto assistere alle barbarie dei conflitti in Jugoslavia e in Ruanda, perché nel 1993 e 1994 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite costituisse i Tribunali ad hoc. E abbiamo dovuto attendere altri dieci anni, e innumerevoli violazioni dei diritti fondamentali, per l’istituzionalizzazione di un sistema di giustizia penale internazionale. La Corte Penale Internazionale, che ho visitato proprio la scorsa settimana, si misura con grandi difficoltà tecniche e diplomatiche ma rappresenta un passo storico universale, una speranza per il futuro dei popoli, per la pace, per i diritti, la giustizia e la dignità umana.
Torniamo al Mediterraneo. I migranti che trovano la morte cercando di traversare il nostro mare fuggono per la quasi totalità da barbarie, atrocità e persecuzioni. A queste persone, è importante ripeterlo, noi non dobbiamo concedere solidarietà per pietà o per bontà d’animo ma perché ne hanno diritto, un diritto previsto dalle norme internazionali sui rifugiati e scolpito nelle coscienze di ciascuno di noi. Ebbene, credo che anche su questo terreno, sulla capacità di gestire il fenomeno migratorio nel rispetto dei diritti fondamentali, si misurerà la fedeltà dell’Unione Europea alla sua storia e al suo fondamento morale e giuridico.
Lasciatemi ricordare le parole del Trattato sull’Unione Europea. Art. 2: “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello stato diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze”. Art. 3: “Nelle relazioni con il resto del mondo l’Unione afferma e promuove i suoi valori.. contribuisce alla pace, alla sicurezza.. alla solidarietà”. Art 21: “L’azione dell’Unione sulla scena internazionale si fonda sui principi che ne hanno informato la creazione.. e che essa si prefigge di promuovere nel resto del mondo: democrazia, Stato di diritto, universalità e indivisibilità dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, rispetto della dignità umana, principi di uguaglianza e di solidarietà e rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale”. Essere indifferenti significa quindi tradire le regole che ci siamo dati e i valori cui ci ispiriamo.
Un ultimo spunto di riflessione per il prosieguo dell’incontro: a me colpisce molto il modo in cui il dibattito sui migranti e sui rifugiati è stato impostato. A fronte di tragedie umane che colpiscono intere popolazioni, di guerre in cui a cadere sono innanzitutto i civili – e tra loro in primis donne e bambini -, in cui si parla di torture che nulla hanno di umano, di viaggi senza speranza, di naufragi senza salvezza, di migliaia di morti senza nome, ma con affetti, sogni e legami che vengono spezzati, il focus di centinaia di ore di trasmissioni televisive e di articoli è tutto concentrato sui costi, a partire dai famosi trenta euro al giorno, che in vari casi abbiamo visto finire in tasche criminali. Questo ridurre le storie, le sofferenze, le vite degli “altri” al mero dato economico, ridurre il valore della vita umana a un’analisi costi benefici significa ridurre l’altro a “untermensch”, a sub-umano, premessa del cinismo che fa calcolare ad alcuni il “risparmio” per lo Stato dopo un naufragio. Sono convinto che se la metà del tempo speso a indagare i costi fosse utilizzato per raccontare le loro storie qualcosa inizierebbe a cambiare. Sono convinto che anche l’opinione pubblica di quei Paesi che stanno dando una pessima prova di indifferenza, uscirebbe dalla paura, dall’egoismo, e incoraggerebbe i propri governi ad agire con decisione e tempestività.
Dovremmo davvero tutti tradurre in azioni concrete, quotidiane e diffuse le parole di Papa Francesco, che contro l’indifferenza ha tuonato proprio da Lampedusa, quando sottolinea che i migranti “sono uomini e donne come noi, fratelli nostri che cercano una vita migliore: affamati, perseguitati, feriti, sfruttati, vittime di guerre”, dobbiamo tornare a riconoscerci in loro, perché siamo tutti fatti della stessa viva e pulsante umanità.