Presidente Boldrini, Presidente Puglisi, Autorità, Gentili Ospiti,
è con grande piacere che apro i lavori di questo seminario voluto dalla “Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere” e che vede la partecipazione di parlamentari, magistrati, docenti universitari, rappresentanti del volontariato e delle organizzazioni internazionali.
È un tema che tutti noi vorremmo appartenesse al passato ma, purtroppo, non è così, e i dati esposti ieri dal ministro Orlando proprio in Commissione lo confermano. La cronaca è tristemente colma di storie dove uomini di tutte le età usano la violenza, nelle sue diverse forme, contro le donne. L’ho già detto in passato ma ci tengo a ribadirlo: tutto ciò che limita una donna nella sua identità e libertà è una violenza di genere. Quello che desta ancor più allarme è che per ogni storia di cui abbiamo notizia ce ne sono molte altre dove il dolore e la violenza vengono avvolti dal silenzio, dalla vergogna, dall’impunità.
Dobbiamo riconoscere che siamo indietro anche sotto un profilo culturale e sociale: denunciare una violenza non è facile, c’è la drammatica tentazione di rimuovere interamente quanto accaduto, di non parlarne per colpa degli effetti pubblici e sociali di una denuncia, che spesso sono a carico più delle vittime che dei carnefici. Anche i più recenti casi di cronaca confermano infatti che davanti ad una denuncia non scatta una unanime solidarietà: le parole di una donna, le sue azioni, vengono soppesate quasi a cercare una giustificazione della violenza subita o, peggio ancora, una colpa o addirittura una convenienza nel tacere o nel denunciare dopo tempo. Bisogna lavorare moltissimo su questo aspetto, creare le condizioni perché ciascuna ragazza o donna che sia stata maltrattata, offesa, molestata venga aiutata e sostenuta, non criminalizzata. I media possono fare molto per cambiare le cose, soprattutto nel modo attraverso il quale raccontano queste vicende così delicate. La vita, la morte, il dolore di queste donne è enorme e drammaticamente reale: ci vuole rispetto della complessità delle situazioni e della terribile sofferenza subita. Spesso quando si raccontano questi fatti si usano parole sbagliate: “amore disperato”, “raptus di gelosia”, “ha ucciso l’amore della sua vita”, si finisce quasi per ammantare queste storie di un romanticismo esasperato che non c’è: sono atti violenti, chi li commette è un criminale e non un povero innamorato ferito o non corrisposto. Mi colpirono molto le parole che Noemi usò nel suo ultimo post di Facebook prima che la sua vita fosse spezzata dal suo fidanzato. Ne cito alcune:
“Non è amore se ti fa male. Non è amore se ti controlla. Non è amore se ti fa paura di essere quello che sei. Non è amore, se ti picchia. Non è amore se ti umilia. Non è amore se ti proibisce di indossare i vestiti che ti piace. Non è amore se non rispetta la tua volontà. Non è amore se ti impedisce di studiare o di lavorare. Non è amore se ti tradisce. Non è amore, se colpisce i tuoi figli. Il nome è abuso. E tu meriti l’amore. Molto amore.”
Sono parole semplici, dirette, impossibili da fraintendere e che devono farci riflettere anche e soprattutto rispetto al cuore del problema, che è di ordine culturale. Stiamo – finalmente – mettendo in discussione i nostri antichi modelli di riferimento e, in questo senso, la scuola ha un ruolo decisivo nell’insegnare fin dalla più tenera età che non esiste scusante, non ci sono eccezioni, alibi o giustificazioni a comportamenti che violano la libertà di una donna. Stiamo abbandonando una cultura che prevedeva ruoli fissi e immutabili, ma nel profondo ci sono ancora degli stereotipi e delle gabbie che vanno sradicati. Liberarci da questi pregiudizi è un lavoro lungo, che ci coinvolge tutti e che investe principalmente gli uomini. Dobbiamo sentirci tutti partecipi di questo cambiamento, come uomini ma anche come padri, nonni, fratelli, amici. Passare dalla cultura del possesso a quella del rispetto, come prima cosa.
Della violenza sulle donne non devono dunque parlare “anche” gli uomini ma “soprattutto” gli uomini. Troppo a lungo si è sbagliato approccio: per anni abbiamo lasciato le donne da sole a combattere questa battaglia di civiltà. Per questo, personalmente, sostengo da tempo con convinzione la campagna internazionale “he for she” e quella lanciata dalla 27esima ora, “da uomo a uomo”. Per questo ho chiesto “scusa” a nome degli uomini al Tg1, e dal tono dei messaggi ricevuti – molti uomini mi hanno scritto facendomi notare che non avevano fatto nulla di male, non capendo il senso delle mie parole – mi sono convinto con ancor più forza che solo se noi uomini saremo capaci di cambiare allora le cose cambieranno.
Concludo. Le istituzioni hanno i loro doveri, le loro responsabilità, c’è molto da fare. Ci sono segnali incoraggianti, alcuni di essi compiuti proprio in questa Legislatura; c’è il prezioso lavoro che svolge la Commissione, del quale ringrazio ogni suo componente. Le leggi ci sono, e sono anche molto dure: semmai c’è un problema di tempestività e coordinamento, ma le cose stanno cambiando, in meglio, molto in fretta. C’è lo straordinario lavoro che carabinieri, magistrati, forze di polizia, medici, psicologi fanno ogni giorno per sventare decine di altre situazioni. È soprattutto grazie a loro se il numero degli episodi di violenza di genere sta diminuendo in questi anni; a loro bisogna riconoscere una dedizione e un impegno eccezionali, per cui bisogna ringraziarli. Sul tema degli orfani di femminicidio assicuro il mio impegno per una rapida calendarizzazione. Oltre ai numeri ci sono le persone: anche un solo episodio è di troppo, quindi dobbiamo continuare senza sosta a parlarne per cambiare i comportamenti sbagliati sin da subito. Abbiamo fatto degli enormi passi in avanti ma siamo ancora molto distanti dalla meta.
Grazie a tutti e buon lavoro.
(foto: ANSA)