Intervista rilasciata a Il Manifesto il 14 dicembre 2018
Al senatore di Leu, Pietro Grasso, ex magistrato, non dispiace affatto il ddl Anticorruzione sul quale il governo ha posto ieri la fiducia e che è stato approvato in Senato con 162 voti a favore, 119 contrari (Pd, Forza Italia, FdI, Leu) e un astenuto. E non è il solo, perché anche il Consiglio d’Europa ha espresso un giudizio in parte positivo sul provvedimento. Prima della fine dell’anno, con un ultimo passaggio alla Camera in terza lettura, il ddl dovrebbe diventare legge».
Senatore, il suo è un no con rammarico. Cosa le piace di questo testo?
«Due punti in particolare: il primo è la causa di non punibilità per chi denuncia un atto di corruzione. Anche se ci sono dei termini troppo brevi, 104 mesi dalla commissione del fatto, e la denuncia deve essere fatta prima dell’avvio delle indagini. Però è molto importante, perché rompe l’omertà, quella sicurezza che c’è tra corrotto e corruttore che si basa sul fatto che nessuno dei due può denunciare l’altro senza autoaccusarsi. Non credo che la norma farà scoprire chissà quali corruzioni però può avere una deterrenza preventiva. Il secondo strumento che trovo utilissimo è l’agente sotto copertura per i reati di corruzione. Figura già prevista nel nostro ordinamento per altro tipo di reati: contraffazione di marchi, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, traffico di rifiuti…»
E ha funzionato?
«Certo, si è voluto far passare questa norma come l’introduzione di un agente provocatore, ma non è così. Nel nostro ordinamento non è consentito, mentre la norma prevede dei limiti ben precisi nell’applicazione: il reato non può essere provocato e deve esserci già un accordo concluso tra le parti, l’indagine deve essere già avviata, e l’operazione autorizzata da magistratura e vertici di polizia. In sostanza serve solo per fornire prove sempre molto difficili da trovare in questi casi. Se le regole non fossero rispettato, le prove sarebbero inutilizzabili, e chi ha sbagliato o non ha controllato può subire conseguenze anche penali».
Dunque anche la legge sul whistleblowing del 2017, ossia la segnalazione di attività illecite da parte di un dipendente, è stata utile?
«Occorre tempo per cambiare la cultura, la mentalità all’interno delle pubbliche amministrazioni. Il caso del 27enne che si trova in prova in un ufficio in cui tutti sono corrotti è emblematico: o trova il coraggio di andare contro tutti o si adegua. Bisogna cominciare a creare deterrenti laddove l’onesta e l’eticità dei funzionari pubblici nel nostro Paese non è molto elevata, secondo quanto rilevato da Trasparency international. Perché si tratta di un fenomeno diffusivo, endemico e sistemico. Eppure l’Italia finora è stata inadempiente con la Convenzione Onu di Merida del 2005 ratificata nel 2009».
Ma allora perché ha votato contro il ddl?
«Ho votato contro il governo, perché non condivido le politiche su tutti gli altri temi.
Per una questione di metodo, la fiducia?
«No, proprio perché sono contro il governo. Anche se la fiducia ha impedito la discussione e il miglioramento del testo».
Lei era d’accordo anche con l’interruzione dei termini di prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Un provvedimento considerato letale per il sistema giustizia dagli avvocati penalisti. Anche il Csm ieri ha detto che la riforma da sola non cambia nulla…
«Lo credo anche io. Sarebbe stato meglio se fosse stata inserita in una riforma organica di tutto il sistema, perché il nostro processo penale è una sommatoria di garanzie del processo inquisitorio e di novità del processo accusatorio anglosassone inserito col nuovo codice. Una prima parte, dove si producono prove documentali attraverso le indagini, e una seconda parte dove le prove devono essere riprodotte attraverso l’oralità del dibattimento. Insomma, si è ottenuto così un processo iper garantista e che allunga enormemente i tempi. Poi si è introdotto in Costituzione l’articolo 111 che impone la ragionevole durata del processo. Prendendo i parametri europei, da Paesi dove la legislazione è molto diversa dalla nostra, si calcola in sei anni il tempo ragionevole di durata del processo, cosa che da noi è impossibile con tre gradi di giudizio di merito (perchè tali li considero)».
Ma la maggior parte del tempo di prescrizione si consuma, nella gran parte dei reati, prima che inizi il processo.
«Secondo i dati del Ministero nel 2017 sono andati in prescrizione 125.564 processi, quindi circa un processo su dieci. Di questi, 66.904 sono quelli non arrivati al primo grado. Ma il problema è che la prescrizione comincia a decorrere da quando è commesso il reato, e non da quando è stato scoperto. Pensi ai reati di corruzione o di frode fiscale, che viene segnalato dopo anni, l’indagine inizia già morta…»
E allora perché non cambiare queste leggi e altre, come l’obbligatorietà dell’azione penale, anziché eliminare un diritto?
«Infatti la riforma parte dal 2020, ci sarebbe anche tempo per rimettere mano al processo penale. Ma so che non lo faranno… Se si adotta il rito anglosassone allora facciamolo completamente: si preveda un solo grado di giudizio: solo il processo per direttissima. Eliminiamo gli altri. Da noi si occupano dello stesso fatto circa 33/35 giudici, dalle indagini preliminari fino alla Cassazione».
Insomma, è ancora in sintonia con il popolo a 5 Stelle. Spera ancora di riportarlo nella «casa» della sinistra?
«Guardi, oggi sono state poste due questioni di fiducia, alla Camera e al Senato. Vuol dire che hanno perso la fiducia al loro interno. Vuol dire che il contratto vacilla. Certo, io spero ancora che coloro che nel M5S hanno valori e idee di sinistra possano rinsavire. Non rinsavinire, rinsavire».