Autorità, Gentili Ospiti, Cari colleghi, Cari amici,
con vero piacere vi auguro il benvenuto al Senato della Repubblica per celebrare insieme il ventesimo anniversario di “Non c’è Pace senza Giustizia”, un’organizzazione nata con lo scopo di sostenere la storica campagna del Partito Radicale Transnazionale per l’istituzione di un tribunale penale internazionale permanente e che, proprio in questa sala, nel novembre 1997, organizzò una conferenza su questo tema.
In questi vent’anni lo spettro di azione di “Non c’è Pace senza Giustizia” si è ampliato per comprendere, oltre alla giustizia penale internazionale, programmi sulle mutilazioni genitali femminili, sulla promozione democratica in Medio Oriente e in Nord Africa e la mappatura dei conflitti. Il filo conduttore che ha sempre animato Emma Bonino e Marco Pannella, il Senatore Sergio Stanzani – che ci ha lasciati lo scorso anno e voglio ricordare – insieme a tanti altri, credo sia una sete inestinguibile, che io profondamente condivido, per la giustizia, i diritti e la dignità degli esseri umani, ovunque essi si trovino.
La storia del diritto penale internazionale è densa come la storia dei diritti umani e segue il progressivo maturare nel diritto internazionale, nelle prassi e nelle coscienze dell’idea dell’assoluta supremazia della persona nell’ordinamento giuridico internazionale, tradizionalmente visto come un mondo di Stati, dove le persone non avevano alcuna soggettività giuridica. Stupri, deportazioni, omicidi di civili, feriti e prigionieri di guerra, esecuzioni di massa: ecco le atrocità di fronte alle quali la comunità internazionale ha, con lentezza, elaborato norme e meccanismi giurisdizionali per affermare che certe condotte sono da considerarsi crimini internazionali, che offendono l’intera umanità e non solo la comunità che le subisce, e per giudicare gli individui che ne sono responsabili avendo agito in nome e per conto di uno Stato. Condotte che includono i crimini di guerra, vale a dire le gravi violazioni del diritto internazionale umanitario, che disciplina lo svolgimento dei conflitti armati; i crimini contro l’umanità, cioè gli atti inumani contro le popolazioni civili, le persecuzioni razziali, politiche o religiose; e quella che è la forma più estrema dei crimini internazionali: il genocidio, caratterizzato dall’intenzione di distruggere un gruppo etnico, razziale o religioso.
Alla base dell’emozionante evoluzione della giustizia internazionale, cui voi oggi presenti avete tanto contribuito, si trova anche l’idea che i diritti delle persone si debbano tutelare anche laddove vengano violati, offesi, calpestati dagli stessi Stati di cui essi sono cittadini. La dottrina dei diritti umani fu definita “eversiva” dal compianto giurista e studioso Antonio Cassese, che del Tribunale Internazionale per l’Ex Jugoslavia fu il primo presidente, perché scardinava la concezione basata sul principio di “non interferenza”, secondo cui il trattamento degli Stati verso i propri cittadini non poteva essere valutato dagli altri Stati, che ne dovevano restare estranei.
Dobbiamo le primissime esperienze di giurisdizioni penali internazionali ai Tribunali di Norimberga e di Tokyo, istituiti dopo il secondo conflitto mondiale per giudicare le inaudite atrocità che durante quel periodo furono commesse. Si è spesso ripetuto che si trattò di una “giustizia dei vincitori” perché si trattava di tribunali istituiti dalle potenze che ebbero la meglio nel conflitto; e purtroppo vi si comminò la pena di morte, che noi respingiamo con fermezza. Ma ebbero un valore morale e giuridico indiscutibile perché per la prima volta si processarono i massimi responsabili statali di crimini internazionali, nel rispetto di fondamentali garanzie processuali e di difesa; e di fronte al mondo intero che così poté sapere cosa era successo. Per la prima volta si tutelarono valori di carattere universale e si riconobbe il principio della responsabilità penale individuale anche di coloro che avevano agito per dare corso a ordini superiori. Abbiamo dovuto attendere ancora a lungo, e assistere alle indimenticabili atrocità del conflitto in Jugoslavia e poi in Ruanda, perché nel 1993 e 1994 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite costituisse i Tribunali ad hoc che hanno realizzato un modello di giustizia internazionale indipendente ed imparziale, nel concorrere di adeguate garanzie processuali e con l’esclusione della pena di morte; anche se si trattò di tribunali istituiti solo dopo la commissione dei crimini da giudicare e con una competenza territoriale e temporale limitata. Il XXI secolo si aprirà con l’istituzionalizzazione del sistema di giustizia penale internazionale. Il 17 luglio 1998, la svolta: 120 Paesi firmano a Roma lo Statuto per stabilire la Corte Penale Internazionale, che entra in vigore l’1 luglio 2002. Oggi ne sono parte ben 122 Stati di ogni regione.
Primo organo giurisdizionale internazionale permanente la Corte Penale Internazionale giudica nel rispetto del principio di legalità (nullum crimen, nulla poena sine lege) e consente di intervenire, nel concorrere di certe condizioni, a salvaguardia dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario attraverso gli strumenti del diritto penale, per porre fine all’impunità. Un passo storico ed entusiasmante, di vocazione genuinamente universale. Un’istituzione chiave per l’ordine internazionale contemporaneo, una speranza per il futuro dei popoli, per la pace, per i diritti e la giustizia.
Considero questo convegno molto importante per fare il punto sul lavoro e le prospettive della Corte Penale Internazionale. La vita della Corte si trova a un punto di svolta importante. Deve affrontare problemi di carattere politico-diplomatico e giuridico. Mi riferisco alle proposte in materia di immunità dei Capi di Stato che metterebbero radicalmente in discussione uno dei principi fondanti, e l’impianto stesso dello Statuto di Roma; alla necessità di un’azione più forte e determinata dell’Assemblea degli Stati Parte, e in alcuni casi anche del Consiglio di Sicurezza per assicurare l’imprescindibile cooperazione degli Stati per molte attività della Corte (arresto, consegna degli imputati, svolgimento di indagini); all’eccessiva complessità del sistema processuale, che ha determinato la limitata efficienza della Corte per la lunghezza e farraginosità dei procedimenti. Noi oggi dobbiamo impedire che le critiche alle Corte possano in qualsiasi modo inficiare quel modello di moralità, di giustizia e centralità dei diritti nel sistema mondiale che rappresenta e dovrà rappresentare.
Accolgo dunque con favore gli sforzi già in corso, che devono essere intensificati, per rivedere la procedura e accelerare i procedimenti in corso e così garantire la richiesta di giustizia che si leva a gran voce dalle vittime, la cui partecipazione ai processi deve essere assicurata di più anche in vista dei giusti risarcimenti. Sono poi convinto che sia assolutamente cruciale un dialogo costruttivo con l’Unione Africana, con la quale condividiamo principi e valori espressi sia nella Carta dell’Unione sia nello Statuto di Roma. E guardo con molta speranza alla prossima presidenza dell’Assemblea degli Stati membri, formulando sinceri auguri di buon lavoro a chi presto assumerà questo importante onere.
L’Italia crede senza riserve nella Corte ed è aperta ad ascoltare, parlare e trovare soluzioni ai problemi. Sono convinto che la dedizione e la profondissima competenza delle personalità qui riunite oggi, contribuirà in modo significativo al dibattito sul futuro della Corte e della giustizia penale internazionale. Ringrazio coloro che della Corte sono stati promotori e coloro che la fanno procedere con la loro quotidiana fatica. A voi devo la gratitudine non solo di un rappresentante dell’istituzione e del Paese in cui ci troviamo, ma anche di un uomo che con le sole armi del diritto e della tenacia ha dedicato alla giustizia, ai diritti, alla pace e alla ricerca della verità una vita intera di impegno e di speranza.
Grazie.