Indottrinamento mafioso e responsabilità genitoriale

Autorità, cari amici, gentili ospiti,

è davvero un piacere per me ospitare in Senato questo incontro sul tema dell’indottrinamento mafioso e la responsabilità genitoriale. Nelle ultime settimane, complice la ricorrenza della Giornata mondiale per i diritti dell’infanzia e dell’adoloscenza, ho avuto modo di parlare della situazione dei minori nel nostro Paese da diversi punti di vista. Giorni fa abbiamo presentato la Costituzione raccontata ai bambini da Geronimo Stilton promossa dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adoloscenza; la settimana scorsa l’Atlante dei “Bambini senza” di Save the Children, con dati da far tremare le vene ai polsi; affrontato il tema dei minori non accompagnati che arrivano in Italia insieme alla Commissione parlamentare per l’infanzia;  oggi siamo qui per capire come l’orientamento del Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria abbia funzionato e possa essere usato come modello. E’ il segno di un’attenzione profonda e costante sulla situazione dei più giovani tra i nostri cittadini, un lavoro che vede insieme istituzioni e volontariato in tutto il Paese e che aspetta di tradursi in norme ma soprattutto in investimenti strutturali e non episodici.

Il rapporto tra i legami di sangue e quelli criminali è stato oggetto di interessanti studi e di elaborazioni teoriche sia da un punto di vista sociologico che psicologico. Le diverse forme della criminalità organizzata hanno sempre utilizzato un “codice familiare”: penso a Cosa nostra, ad esempio, la cui regola base, non a caso, recita: “Quannu mamma cumanna, picciotto ubbirisci”, quando la mamma (mafia) comanda, il picciotto (uomo d’onore) ubbidisce, o l’abitudine di chiamare “famiglia” il proprio clan di appartenenza. Il caso calabrese è ancora più emblematico in questo senso: le ‘ndrine sono vere e proprie famiglie di sangue, da cui è ancora più difficile immaginare di liberarsi per collaborare con la giustizia. Anzi, spesso si allevano i figli fin dalla più tenera età con l’idea della faida, della vendetta, dell’odio nei confronti della famiglia rivale. Come Stato però non possiamo accettare l’idea che la nascita rechi le tracce di un destino segnato, che nel dna sia impresso il comportamento criminale, che non possa darsi speranza per i figli dei criminali. Sono tanti i casi di figlie e figli che si sono allontanati dall’ascendenza mafiosa dei propri genitori: ciascuno di loro ha dovuto affrontare dilemmi profondi e laceranti, ma con il sostegno di figure adulte di riferimento – penso soprattutto a tante madri coraggiose, a tantissimi insegnanti testardi, a molti sacerdoti impegnati – sono riusciti a liberarsi dallo stigma familiare.

Non posso dimenticare il caso di Carmela Iuculano che, dopo aver sostituito a tutti gli effetti il marito mafioso detenuto, fu dapprima arrestata e poi messa ai domiciliari perché madre di un bambino piccolo, e venne poi convinta dalle due figlie di dieci e tredici anni, che a scuola avevano seguito un percorso di legalità, a collaborare con la giustizia anche a costo di accusare il loro padre. Quale altro esempio può darci maggiore speranza nel cambiamento? Io credo fortemente in questa possibilità di cambiamento che nasce dalla consapevolezza, dalla cultura, dall’amore verso i propri figli. Recidere i legami familiari con un provvedimento giuridico è possibile, ma nessun sentimento si dissolve per decreto. Lavorare con determinazione, pazienza e impegno con queste ragazze e questi ragazzi è senza dubbio più difficile, ma è l’unica strada che possa davvero liberare i figli dalle colpe dei padri.  Ringrazio di cuore tutti i presenti, tra i quali vedo amici ed ex colleghi, e vi auguro un proficuo lavoro.

Grazie.