25 aprile, visita a Casa Cervi

Pietro Grasso alla casa museo Cervi

Cari amici,

è con profonda commozione che prendo la parola in questo luogo così denso di passione civile e amore verso il nostro Paese.

Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio, Ettore: sette uomini legati dal vincolo di sangue che insieme hanno vissuto, lavorato, hanno combattuto e sono morti – “uno era come dire sette, sette era come dire uno” – uniti ancor di più dal forte ideale in virtù del quale reagirono ai soprusi della dittatura fascista e dell’occupazione nazista. La loro storia e quella dei loro genitori, Alcide e Genoveffa, è tra le più drammatiche e insieme emblematiche di quei terribili mesi. Essere qui il 25 aprile significa per me onorare la memoria di questa famiglia che è stata protagonista della Resistenza, e dalla cui vicenda umana è scaturito un esempio che ancora oggi è in grado di scuotere le nostre coscienze. Una storia che non dobbiamo mai smettere di raccontare ai nostri figli e ai nostri nipoti, perché ha in sé la parabola intera del nostro essere cittadini di questo Paese. Unisce le tradizioni cattoliche e socialiste, la cultura contadina e la capacità di rinnovarsi e crescere, la giusta aspirazione allo spezzare le proprie catene e lo sguardo limpido a un futuro solidale e internazionalista.

Voglio approfittare di questa occasione per riflettere con voi su tre parole, tre concetti che la storia dei Cervi mi ha sempre suggerito e dalle quali, credo, possiamo trarre altrettante lezioni: emancipazione, responsabilità, futuro.

Tutti conosciamo il tragico epilogo della vita dei sette fratelli ma la loro formazione merita altrettanta attenzione. Nacquero mezzadri e divennero, cosa rarissima negli anni ’30, affittuari di questo podere. Il loro desiderio di emanciparsi socialmente si nutrì, giorno dopo giorno, delle letture di mamma Genoveffa, di studio, di lavoro, di nuove tecniche di coltivazione e di allevamento del bestiame. A fronte delle perplessità della maggior parte dei loro vicini, non tardarono ad arrivare i risultati delle loro incessanti sperimentazioni. Furono i primi a livellare queste terre, e sul loro esempio, poi, lo fecero tutti. Non è un caso che il simbolo di questo museo sia il “trattore con il mappamondo”, quello acquistato dalla famiglia Cervi nel 1939, il secondo in tutta la bassa reggiana. Insieme al trattore infatti Aldo tornò con un mappamondo perché, dice il padre Alcide, “la parola d’ordine era: studiate la situazione internazionale”. A me questa strana coppia di strumenti restituisce l’idea di una intensa curiosità intellettuale, base di qualunque tentativo di migliorarsi, di uscire dalle difficoltà, dagli stereotipi e quindi dalle paure che ci circondano. La durezza del lavoro e la fatica dello studio: valori che in questi tempi vacillano, ma come dico spesso ai ragazzi che mi capita di incontrare, non esiste risultato senza sforzo, e anche in questo la famiglia Cervi ci è d’esempio.

La seconda parola è “responsabilità”. Alcide Cervi, nel ricordare le convinzioni che animavano l’azione dei suoi ragazzi, diceva: “hanno sempre saputo che c’era da morire per quello che facevano, e l’hanno continuato a fare, come il sole fa l’arco suo e non si ferma davanti alla notte”. Avevano mogli, figli, una terra da custodire. Avevano moltissimo da perdere eppure prevalse il senso di responsabilità verso la nazione e gli ideali che amavano. Un insopprimibile desiderio di libertà, giustizia e uguaglianza li convinse senza molte esitazioni ad agire, lucidamente e coraggiosamente, consapevoli dei rischi che avrebbero corso. Diedero ospitalità, cibo e cure a più di ottanta giovani ribelli, di ogni nazionalità, che si opponevano all’invasione. Non credo di sbagliarmi nel pensare che se fossero qui tra noi, oggi, aprirebbero con la stessa generosità e la stessa voglia di giustizia e uguaglianza le loro porte a chi fugge dall’invasione del fondamentalismo islamico, dalle guerre e dalle carestie in molte parti del mondo. E che dopo cena a unirli, invece che l’Internazionale cantata in coro ma in lingue diverse, come racconta Alcide, potrebbe essere proprio la canzone simbolo della Resistenza, Bella ciao, che abbiamo sentito risuonare in ogni parte del mondo durante le proteste degli ultimi anni. La vicenda della famiglia Cervi è un pezzo fondamentale di quel grande mosaico che fu la Resistenza italiana, e ci ricorda come la Liberazione fu possibile proprio perché uomini e donne di diversa estrazione, con profonde divergenze culturali, politiche e religiose scelsero di essere parte di un più ampio progetto di riscatto sociale e morale. Ogni pezzetto di quel mosaico contribuì a disegnare un orizzonte comune e un’utopia alimentata da un profondissimo senso del dovere e dall’ambizione di affermare sopra ogni altra cosa la dignità umana e la libertà di ciascuno, consapevoli che “il sole non nasce per una persona sola, la notte non viene per uno solo”. Il fondamento della nostra democrazia, della nostra Repubblica e della nostra Costituzione è lì, in quel comune sentire, in quella spinta ideale. Non c’è miglior modo di celebrare il 25 aprile o di ricordare il sacrificio della famiglia Cervi che cercare, ogni giorno, di essere all’altezza di chi scelse, con responsabilità e senza indugio, la parte giusta dove stare. Tutti noi siamo chiamati a farlo, e tutti noi siamo chiamati a scegliere la parte giusta, ogni giorno.

Mi avvio alla conclusione, partendo nuovamente da alcune parole di Papà Cervi. Alla notizia dell’uccisione per mano fascista di tutti i suoi figli maschi e al pensiero della moglie, delle nuore e dei tanti nipoti, disse: “dopo un raccolto ne viene un altro. Andiamo avanti. (…) Ma il raccolto non viene da sé, bisogna coltivare e faticare perché niente vada a male”. Coincidenza vuole che il più piccolo dei suoi nipoti avesse la mia stessa età, e che io oggi abbia l’età di Alcide quando si trovò ad affrontare il dolore della perdita e la scommessa del futuro. La metafora di una terra martoriata che necessita di essere curata, custodita e protetta affinché possa ancora generare frutti è fortissima e anche incredibilmente concreta. Quanta fede e speranza nel futuro servono per poter pazientemente ricominciare da capo dopo una simile tragedia? Ricordare, commemorare, rievocare il passato è sempre un esercizio importante per poter capire meglio chi siamo, da dove veniamo; è però tutto inutile se non abbiamo l’ambizione di proiettare nel futuro quanto possiamo apprendere dai sacrifici, a volte estremi, di chi ha rinunciato a tutto pensando alle generazioni che lo avrebbero seguito. In questo senso Alcide Cervi è stato un testimone fedele dello spirito che aveva animato i suoi figli ed è riuscito nel compito più difficile. Aveva detto: “Se volete capire la mia famiglia, guardate il seme. Il nostro seme è l’ideale nella testa dell’uomo”. La sua incrollabile passione, quel seme, ha germogliato non solo nei suoi nipoti e nei loro figli, ma in tutti noi che siamo qui oggi a ricordarli.

Viva la famiglia Cervi, viva la Resistenza, viva l’Italia.