Cari ragazzi e gentili ospiti,
ringrazio la senatrice Silvana Amati per avermi voluto rendere partecipe di questa iniziativa. Ho avuto numerose occasioni per apprezzarne la grande sensibilità e l’impegno sociale e civile per dare voce a chi non ne ha.
I dati dell’ultimo rapporto ISTAT sulla violenza contro le donne ci danno la dimensione di questo fenomeno: 6 milioni e 788mila donne hanno subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale, quasi una donna su tre. All’interno di questo dato, va rilevato il fatto che le violenze più gravi vengono commesse da un partner o da un ex. Il 2013, in particolare, è stato un annus horribilis per le donne, con 179 vittime, in pratica una ogni due giorni, e proprio in quel periodo l’idea di “Posto occupato” è scaturita da una riflessione della scrittrice Maria Andaloro: se una donna su tre è vittima di violenza, si tratta “di un problema culturale che tocca tutti, tutte le famiglie, tutte le comunità sia piccole che grandi.”
Ha quindi concepito un modo per mantenere costante l’attenzione sul problema, piuttosto che limitarsi alla sola data, pure importante, del 25 novembre, la Giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne. L’originalità e l’efficacia dell’idea risiedono nel fatto che può essere attuata da chiunque, ovunque, in qualunque momento e a costo zero. Eppure una cosa così semplice può avere una grande ricaduta in termini di consapevolezza, perché – inaspettatamente, al cinema o nella redazione di un giornale, in autobus o a scuola, ai giardinetti o in una sala d’attesa – mette a confronto con una assenza, l’assenza di una donna che avrebbe potuto trovarsi in quel posto in quel momento se la sua strada non si fosse incrociata con quella di un uomo indegno. Fa percepire che cosa significhi vivere senza un pezzo della società.
Si tratta di un messaggio potente e immediato. È su questo che si deve lavorare, su una maggiore consapevolezza del problema e, dunque, sulla prevenzione e su una informazione corretta. Bisogna, in primo luogo, aumentare la consapevolezza tra le donne stesse, soprattutto le più giovani, che non debbono sottovalutare ogni singolo segnale di violenza, sia fisica che psicologica. Nessuna giustificazione è possibile, soprattutto se ammantata dalla retorica del “troppo amore”. In queste situazioni parlare di amore è una bestemmia: non si tratta d’altro che di mero senso del possesso ed egoismo sconfinato.
Da queste situazioni a rischio senza aiuto non si esce. Ad ogni grido di aiuto, però, deve corrispondere una risposta immediata; alle vittime deve essere garantita protezione efficace sin dalle prime manifestazioni penalmente rilevanti, in modo tale da bloccare sul nascere ogni possibile escalation di violenza. Agire tardi, punire dopo non serve a chi porterà sul volto per tutta la vita lo sfregio dell’acido, non serve a riportare in vita chi non c’è più. Un’altra forma, parallela, di prevenzione, prevenzione a lungo termine, è il lavoro che si deve svolgere all’interno della scuola e delle stesse famiglie per insegnare il rispetto. A parole e nei fatti.
Sono convinto che, nel lungo periodo, sarà questa la strategia vincente. E forse l’unica possibile. Se, infatti, prima ho riportato dati preoccupanti che ci devono indurre a non sottovalutare mai il problema, a non abbassare mai la guardia, dall’altro il rapporto dell’Istat già citato fornisce alcuni dati confortanti riguardo alla giustezza di questo approccio. Vi leggiamo che emergono importanti segnali di miglioramento rispetto all’indagine precedente, grazie ad una maggiore informazione, al lavoro sul campo, ad un clima sociale di maggiore condanna della violenza. Non basta, ma sta ad indicare che la direzione è quella giusta.
Alla luce di questi incoraggianti risultati non si può che concludere che la strada da percorrere è quella di continuare a mantenere alta l’attenzione sul problema, non solo il 25 novembre ma 365 giorni l’anno. Un impegno che ci deve vedere uniti, donne e uomini, perché non ci siano più posti da tenere occupati.