Cari Colleghi, Gentili ospiti,
ricordo quando, a fine novembre 2013, mi recai in Piazza delle Cinque Lune, qui nei pressi del Senato, ad accogliere Marco Cavallo in una delle sue tappe del viaggio attraverso l’Italia organizzato da “Stop OPG” come azione di sensibilizzazione per chiedere la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Dopo quell’incontro altri sono stati i momenti di confronto e di riflessione sullo stesso tema ospitati in questa sede, ai quali ho sempre partecipato con molto interesse reputandolo questo un problema di grande rilevanza sia sul piano istituzionale che su quello umano e sociale.
Nel 1973 questo cavallo di legno e cartapesta, di un bell’azzurro carico che evoca in chi lo guarda la sensazione di un anelito di libertà, sfondò il muro di cinta del manicomio di Trieste e divenne il simbolo della battaglia di Franco Basaglia che portò al varo della legge 180 del 1978 e alla conseguente chiusura dei manicomi. La battaglia per il riconoscimento della pienezza dei diritti ai malati reclusi in quelli giudiziari, invece, si è protratta per quasi altri quarant’anni, fino a ieri, termine ultimo per la chiusura degli OPG deciso nel 2011 e, finalmente, non più prorogato.
La legge 81 del 2014 ha il grande merito di ripristinare diritti umani sinora disattesi, laddove stabilisce che sia le misure di sicurezza che i ricoveri nelle REMS, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza sanitaria, non possano protrarsi oltre il limite massimo fissato per la pena detentiva prevista per il reato commesso. Con ciò si è inteso abolire i cosiddetti “ergastoli bianchi”, una realtà inaccettabile per un Paese che si voglia definire civile. Si è voluto porre termine ad una situazione in cui i malati, a differenza dei comuni detenuti, oltre che della libertà, erano privati anche della speranza in un futuro.
Un primo tentativo di superamento del manicomio giudiziario – previsto dal Codice penale come misura di sicurezza nel 1904 – fu rappresentato dalla legge 354 del ’75 sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, meglio nota come “Legge Gozzini”, che lo confermò come struttura di carattere carcerario ma attribuendogli nuove funzioni e cambiandone il nome in Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Tuttavia, nel corso del tempo, si sono resi sempre più evidenti i limiti di questi istituti nell’assolvere alle funzioni ad essi demandate: oltre a quella, appunto, di sicurezza detentiva, la cura, la riabilitazione e il reinserimento delle persone internate. Le carenze negli interventi terapeutici, l’inaudito degrado delle strutture e, in generale, le indegne condizioni di vita dei malati al loro interno – testimoniate anche da un’indagine parlamentare – hanno fatto sì che si avviasse un processo di dismissione degli OPG, definiti luoghi “fatiscenti, caratterizzati da condizioni umane e igieniche al limite della decenza” e dichiarati “illegittimi” dalla Corte costituzionale già nel 2003.
Questo processo di superamento – che ha comportato il passaggio di competenze in tema di sanità penitenziaria dallo Stato alle Regioni, con la chiusura definitiva degli OPG – è giunto a un momento decisivo. Governo e Regioni hanno operato nel corso degli anni per individuare forme alternative di gestione del disagio psichiatrico che è causa di pericolosità sociale, intendendo privilegiare l’aspetto medico e riservare le misure restrittive della libertà ai soli casi che non sia possibile prendere in carico altrimenti. Dunque le REMS serviranno a garantire assistenza soltanto ai soggetti dichiarati non dimissibili, dovendosi evitare, però, che si trasformino in “mini manicomi” regionali.
C’è ancora molto da fare perché la sicurezza e la salute delle persone coinvolte siano tutelate in modo concreto ed efficace. Non solo in termini di strutture. È necessario un diverso approccio alla malattia mentale che sposti l’intervento pubblico dall’obiettivo del controllo sociale dei malati di mente alla tutela, alla promozione della salute e alla prevenzione dei disturbi mentali, da una presa in carico limitata al ricovero ospedaliero ad una basata su servizi territoriali di assistenza disponibili ventiquattr’ore su ventiquattro.
Il viaggio di Marco Cavallo, documentato nel film che qui ci viene presentato e per il quale mi complimento vivamente con i registi Erika Rossi e Giuseppe Tedeschi, con i 4418 chilometri percorsi in 13 giorni toccando 16 città, è stato un’occasione importante per parlare di questi temi, ma anche per far comprendere che chi, nella follia, ha compiuto un reato è anche una persona che soffre e che necessita di cure, una persona a cui, in primo luogo, va restituita la dignità. Voglio quindi concludere ringraziando per il loro costante impegno tutti coloro che hanno sostenuto questa iniziativa in soccorso di chi, segregato, non aveva voce.