Noi e i 57 giorni di Borsellino

Ricordo di Paolo Borsellino per il Sole 24 Ore

Il 19 luglio è un giorno che racchiude in sé dolore, emozione e pensieri, ricordi, bilanci e promesse che trovano spazio all’ombra dell’ulivo piantato nel luogo in cui un tremendo boato trascinò con sé la vita di Paolo Borsellino, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Il dolore e lo sconforto confondono e ridisegnano la nozione che abbiamo del tempo: ecco come venticinque anni – o cinquantasette giorni – sembrano interminabili e, al tempo stesso, volati via in un secondo. La quiete di una domenica qualunque d’estate si trasformò, in un istante, in una ferita che non potremo mai sanare. Non abbiamo dimenticato nulla di quella domenica palermitana, né della vita e dell’esempio degli uomini e delle donne vittime della furia omicida della mafia.

Quando penso a Paolo Borsellino, nella mia mente si affollano i ricordi di un uomo solare, simpatico, sempre pronto allo scherzo: memorabili i lanci di molliche di pane che puntualmente iniziava nelle seriose cene tra colleghi della procura. Sul lavoro aveva uno straordinario talento, supportato da una passione viscerale e una ineguagliabile capacità di superare fatica e delusioni. Paolo trovava sempre il tempo per aiutare un collega più giovane: io stesso fui ben lieto di poter contare sui suoi preziosi suggerimenti e consigli quando affrontai le migliaia di carte dell’istruttoria del maxiprocesso. Credeva in quello che faceva, sentiva di avere una grande responsabilità e nulla lo avrebbe fatto desistere dai suoi obiettivi. Neanche la strage di Capaci, quando tutto cambiò per sempre: fu proprio lui, quando mi precipitai all’ospedale nella speranza che fosse ancora vivo, a dirmi che non c’era più nulla da fare per Giovanni Falcone. Nella sua espressione lessi molto di più dell’incommensurabile dolore che ci univa in quel triste momento. Paolo sapeva: dopo Giovanni, lui era la vittima designata. Molti, al suo posto, avrebbero reagito diversamente, magari avrebbero abbandonato il campo. Lui no. Scelse di non arrendersi, di continuare a lavorare incessantemente. Ci offrì una commovente lezione di coerenza e amore per la giustizia, per la verità, per il nostro Paese. Lo fece in cinquantasette giorni, il poco tempo che ‘cosa nostra’ gli concesse. Borsellino ha saputo– non solo con la sua morte ma con tutta la sua vita –  lasciare un indelebile segno nelle coscienze di un’Italia impaurita e senza fiducia.

L’eredità che ci tramanda si ritrova nella convinzione dei molti che ogni giorno si impegnano per la legalità; nella voce di chi non rimane più in silenzio; nel coraggio di quanti rifiutano di pagare il pizzo o di truccare un appalto. Abbiamo percorso molta strada da allora, ottenendo risultati straordinari sia con l’antimafia della repressione che con quella della speranza. Abbiamo bisogno dell’impegno di tutti per continuare, soprattutto delle ragazze e dei ragazzi nati dopo il 1992: pensando a loro, che non hanno avuto modo di conoscere le tante persone cadute nel contrasto a cosa nostra, ho voluto raccogliere nel libro “Storie di Sangue, Amici e Fantasmi” i miei ricordi, con la speranza di trasmettere loro i valori e gli ideali che ci hanno guidato in una battaglia che necessita ora anche del loro contributo. Potremo dirci soddisfatti solo quando – e succederà – la mafia avrà una fine.