Politica faccia sua parte per la verità sulle stragi

Intervento nell’aula bunker del carcere dell’Ucciradone, a Palermo, nel ventunesimo anniversario dalla strage di Capaci e Via D’Amelio 

Cara Maria, gentili Ministri, Autorità civili, religiose e militari, cari insegnanti, ragazze e ragazzi di tutta Italia,

oggi siamo ancora una volta insieme, in quest’aula a ricordare Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e i loro agenti di scorta, partecipi della loro sorte con perfetta coscienza: Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonino Montinaro, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina. Ogni anno siamo qui a rinnovare la promessa che tutta l’Italia ha fatto loro dopo i tragici fatti di Capaci e Via D’Amelio di ricordarli sempre, di onorarne la memoria ogni giorno, di rispettare e condividere i valori e gli ideali che rappresentano. Ogni anno l’emozione è più profonda e i ricordi sempre più dolorosi per me come amico, come cittadino, come uomo delle istituzioni.

Permettetemi di rivolgere un particolare affettuoso saluto ai familiari delle vittime e un sincero ringraziamento a tutti coloro che hanno lavorato perché questo 23 maggio fosse ancora una volta una giornata speciale.

Sono profondamente grato al Presidente Giorgio Napolitano, che mi dà oggi la possibilità di parlare anche a suo nome, nel trasmettere il senso di questo impegno morale, fortissimo, a proseguire con determinazione e tenacia il cammino sulla strada della memoria e del dialogo, sui fatti che il nostro Paese ha vissuto in quella primavera e in quell’estate del 1992.
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino hanno vissuto e lavorato per un ideale di giustizia considerata non solo come professione ma anche, prima di tutto, come obbiettivo, come valore. In fondo era il loro lavoro, semplice onesto servizio. Troppo spesso questo essere semplicemente servitori dello stato è stato pagato con la vita.

A Palermo Giovanni e Paolo cominciarono a lavorare in modo nuovo, non solo nelle tecniche d’indagine, ma nella consapevolezza che il lavoro dei magistrati nella lotta alla mafia non poteva essere soltanto una distaccata opera di repressione: era necessario che si trasformasse in una spinta verso un cambiamento culturale.
Giovanni era una persona timida, seria, taciturna ma di un’ironia e un umorismo particolari. La sua qualità più evidente era la capacità di soffrire, di sopportare molto più degli altri, senza arrendersi mai. La sua tenacia era proverbiale. Giovanni si rialzava sempre. Era allenato alla lotta, si riparava dietro un perenne scudo, in una costante autodifesa… Aveva l’orgoglio di una dignità antica ed era restio a manifestare il benché minimo segno di debolezza. Quante sconfitte dopo ogni successo, quante delegittimazioni in ogni snodo della sua vita e della sua carriera.
Quando scherzavamo sull’idea della morte, con ironia esorcizzante, Paolo era solito dire a Falcone: “Giovanni, finché sei vivo tu, io sto tranquillo”. Dopo il 23 maggio 1992 l’espressione di Paolo, sempre tendente al sorriso, si trasformerà in una maschera di tensione e di dolore. Fu chiamato dalla sua coscienza a raccogliere il lascito pericoloso del suo amico e collega, e sebbene fisicamente e moralmente distrutto per la perdita di Giovanni ne assunse la pesante eredità con la precisa consapevolezza che presto avrebbe seguito il suo destino; aveva deciso di continuare e si era buttato senza un attimo di tregua nelle indagini, imponendosi ritmi massacranti con l’ansia di una vera lotta contro il tempo.
Questo il suo grande insegnamento: «Andare avanti pur sapendo quale destino ti attende». Voglio ripetere quel che rispondeva agli amici che gli consigliavano di andare via da Palermo, di mollare tutto, di lasciare il compito ad altri: «Non è amico chi mi dà questi consigli. Gli amici sinceri sono quelli che condividono le mie scelte, i miei stessi ideali, i valori in cui credo. Come potrei fuggire, deludere le speranze dei cittadini onesti?» Già presso la camera ardente del Palazzo di Giustizia aveva predetto ai magistrati del suo ufficio, puntando il dito verso le cinque bare: “Il nostro futuro è quello lì”.

Giovanni e Paolo avevano provocato una vera e propria rivoluzione delle coscienze, trasformando l’atavica rassegnazione alla convivenza con il fenomeno mafioso nella convinta reazione ad un sistema di malaffare e ingiustizie. I loro valori e i loro ideali hanno aperto una nuova fase: dal silenzio complice di un tempo ad un consapevole risveglio. E’ un enorme passo avanti. Il Paese, quello della gente comune si è dimostrato straordinariamente ricettivo nel coltivare una rinnovata coscienza civile.

La mafia e le altre espressioni della criminalità organizzata rimangono ancora oggi un grave problema della nostra società e della nostra democrazia. Nel quadro di una crisi generale che l’economia italiana ed europea sta affrontando – l’Istat ha fornito ieri il dato che 8 milioni e mezzo di italiani sono in condizioni di grave povertà – la compenetrazione tra la criminalità e l’attività economica è sempre più insidiosa. La mafia si adegua alla modernità, ai tempi, si espande su tutto il territorio nazionale e ne travalica i confini. Le più recenti indagini rivelano sempre maggiori contatti e rapporti tra le organizzazioni mafiose italiane e le più importanti organizzazioni criminali internazionali, un sistema organico per gestire i comuni affari illeciti, per coordinare l’utilizzo del denaro, degli uomini e dei mezzi, per spartirsi mercati e zone di influenza. In questa evoluzione internazionale l’organizzazione è diventata più flessibile, è in grado di adattarsi in tempi rapidissimi a qualsiasi tipo di attività illecita. E la sua azione è tanto più penetrante in quelle regioni dove la crisi, la mancanza di lavoro, la disperazione, favoriscono l’attrazione verso occasioni di lavoro sia pure irregolare e attività illecite con facili guadagni. Dove c’è delinquenza nessuno investe, nessuno porta la sua impresa, mentre le organizzazioni criminali trovano abbondante manovalanza e hanno tutto l’interesse a mantenere una condizione di sottosviluppo.

Quest’anno i lavori delle scuole di tutta Italia hanno cercato di creare una “Geografia della legalità” e di immaginare “le nuove rotte dell’impegno”. Per far questo, con la collaborazione delle Forze dell’Ordine, hanno evidenziato come in ogni regione, in ogni provincia, in ogni città, l’infiltrazione criminale nel tessuto politico, economico e sociale sia passato da previsione a certezza.

Ma allora che cosa è cambiato oggi dopo 21 anni dalle stragi?
Il vento soffia in un’altra direzione. Paolo e Giovanni ci hanno lasciato una grande eredità: le loro idee vivono nella coscienza civile e nel lavoro di tanti, donne e uomini, che scelgono ogni giorno di opporsi alla prepotenza, alla morte della coscienza, allo sfregio della bellezza di questa regione e di questo paese.

Chi rappresenta le istituzioni dovrebbe guardare alla loro vita, ispirarsi al loro esempio e richiamarsi alla propria responsabilità. Lo stato deve essere ed apparire forte, serio e credibile, rigoroso con coloro che lo contrastano, affidabile con i cittadini onesti. Per questo ritengo inappropriato sostenere che proposte legislative di contrasto alla mafia, alla corruzione, al voto di scambio e così via, possano essere considerate “divisive”. L’unica divisione possibile nel contrasto alla corruzione è quella tra gli onesti e i corrotti.

Cari ragazzi, con voi e per voi abbiamo il dovere di non dimenticare. Più tardi ci recheremo davanti all’albero Falcone, una splendida magnolia che è diventata luogo della memoria condivisa, altare laico di coloro che non si rassegnano. Sappiate fare tesoro dell’eredità che ci hanno lasciato, non siate silenti dinanzi alle ingiustizie, non scoraggiatevi di fronte alle avversità, non arrendetevi ai potenti e ai prepotenti ma preparatevi con lo studio, con il lavoro, a lottare nella vita, perché non esistono forze invincibili.
In questo giorno di commozione e partecipazione, sotto l’albero sentirete la brezza scuotere le foglie della magnolia e spazzare via, per un momento, tutte le ingiustizie del mondo. Rievocate la sensazione di quella brezza ogni volta che vi troverete a fare delle scelte, per dire no ai favoritismi, alle scorciatoie, alle lusinghe del potere. Questo è il testamento morale che ci hanno lasciato, questo è il miglior modo di onorare chi ha dato la vita per il nostro Paese.

In ricordo di Don Gallo

Don Gallo era un prete che, spinto dalla fede, dal carattere, dal coraggio, si è sempre occupato degli ultimi. Nato in un’Italia tanto diversa da ora, ci lascia un bagaglio enorme di esperienze, di scelte, di punti di vista dissonanti e per questo indispensabili. Predicava nelle carceri, negli istituti penali minorili, si occupava dei tossicodipendenti, degli alcolisti, dei migranti, dei malati psichici. A lui, cui nessun pregiudizio, nessun tabù, nessuna differenza impedì mai di essere apostolo di carità, va il mio pensiero grato e affettuoso.

 

Non lo chiamate amore

Gentili ospiti,

ho accolto con piacere l’invito del Ministro per le Pari Opportunità, che desidero ringraziare per aver organizzato questo incontro e per la sua forte e sincera volontà di contrastare ogni forma di violenza contro le donne.

Quella di oggi è un’occasione preziosa per riflettere su un fenomeno che ha ormai assunto le dimensioni di una vera e propria emergenza sociale: la violenza di genere. Sono pienamente consapevole e preoccupato di questo fenomeno in tutte le sue forme, dal sessismo di certe affermazioni considerate “leggere” alle offese e alle minacce, dall’uso che purtroppo sta diventando frequente anche nel nostro paese dell’acido come forma di sfregio ai troppi casi di femminicidio.

Ho più volte sostenuto che dobbiamo affrontare questa emergenza in maniera globale e sotto ogni aspetto, non solo repressivo ma anche preventivo, con il coinvolgimento di tutti i saperi che possano contribuire a una maggior tutela, per garantire la sicurezza, la vigilanza nelle strade, luoghi di aggregazione sul territorio, un’urbanistica ripensata tenendo conto della sicurezza dei cittadini, ma senza dimenticare l’importanza della reazione sociale, del cambiamento culturale e della piena attuazione delle misure legislative, ove non occorrano nuove norme.

Ogni condotta che mira ad annientare la donna nella sua identità e libertà – non soltanto fisicamente, ma anche nella sua dimensione psicologica, sociale e lavorativa – è una violenza di genere. Lo ripeto perché sia chiaro di cosa stiamo parlando. Le cose vanno chiamate con il loro nome.

Non si tratta solo degli omicidi e delle lesioni gravi da parte di partner o ex partner. Ci sono donne che subiscono quotidianamente maltrattamenti, violenze sessuali e psicologiche, minacce e molestie. Donne alle quali viene negato l’accesso all’istruzione o al mondo del lavoro e che, essendo in condizioni di dipendenza economica, non riescono ad allontanarsi da un contesto relazionale di rischio. Donne che, trovata la forza di uscire da situazioni di questo tipo, non incontrano il sostegno sociale e istituzionale necessario per ricostruire la propria vita.

Non dobbiamo dimenticare che molte delle vittime di omicidio o lesioni gravi avevano già denunciato episodi di violenza o di maltrattamento. Altre, invece, non avevano mai chiesto aiuto, per sfiducia nelle istituzioni, per mancanza di mezzi o per una pericolosa sottovalutazione delle violenze subite.

Per la complessità delle sue ragioni e per la pluralità delle sue manifestazioni, la violenza contro le donne può essere combattuta solo con una strategia condivisa e coordinata. Il tema della violenza verso le donne deve essere inserito tra le priorità dell’agenda politica del Parlamento e dell’azione del Governo. Sono necessari interventi mirati in ambito giudiziario, sanitario e culturale, che vanno definiti e attuati in sinergia con le associazioni e gli enti di volontariato.

Per contrastare efficacemente questa deriva ritengo essenziale garantire alle vittime una protezione efficace sin dai primi atti penalmente rilevanti. Ciò consentirebbe, da un lato, di prevenire offese ulteriori e più gravi, con un crescendo di intensità che spesso culmina nell’omicidio; dall’altro, faciliterebbe l’emersione di sopraffazioni, che in troppi casi vengono tenute nascoste dalle stesse vittime per paura o per vergogna.

Come presidente del Senato ho già assicurato il massimo impegno affinché venga costituita la commissione parlamentare, concordemente richiesta da tutte le forze politiche, al fine di studiare il fenomeno del femminicidio per delineare analisi, interpretazioni e adeguate soluzioni.

Un passo deciso in questa direzione può essere compiuto con un adeguamento del nostro ordinamento giuridico ai più innovativi strumenti di tutela dei diritti delle donne, dobbiamo investire nella prevenzione e nella protezione delle vittime, dobbiamo prevedere misure di sostegno medico, psicologico e legale alle vittime e azioni istituzionali di prevenzione nel settore educativo e dell’informazione.

Perché, se è indifferibile l’approvazione di ogni norma necessaria, occorre nel contempo acquisire la consapevolezza che la violenza contro le donne è socialmente, prima ancora che penalmente, inaccettabile. Di questo dobbiamo parlare, su questo vanno sensibilizzati i ragazzi e le ragazze. Perché maturi una sensibilità diffusa e profonda sul tema della violenza di genere. È necessaria una reazione di condanna forte e chiara. Non esiste tolleranza né giustificazione alcuna per le condotte che ledono i diritti delle donne, e la consapevolezza condivisa della gravità del problema, come spesso succede nel campo dei comportamenti sociali, è il presupposto indispensabile perché davvero, un giorno, cambino le cose.

14° anniversario dell’omicidio di Massimo D’Antona

Gentili signori, Autorità,

era il 20 maggio del 1999, una mattina come oggi, come tante, quando un commando terrorista ferì mortalmente uno tra i più stimati giuslavoristi del nostro Paese. Nel 1999 il terrorismo era, nell’immaginario collettivo, un fenomeno passato, archiviato, quasi storia. Invece era ancora in grado di uccidere. Le nuove brigate rosse uccisero Massimo D’Antona nel giorno dell’anniversario dello statuto dei lavoratori, una conquista di civiltà che aveva segnato l’assetto dei rapporti sindacali e politici del nostro paese. Oggi è una di quelle date che non si possono dimenticare, che ci impongono di essere presenti.

Massimo D’Antona è stato, prima di tutto, un giurista di grande spessore. L’insegnamento era la sua grande passione perché in quella veste elaborava i suoi pensieri, li metteva alla prova, li correggeva, li sosteneva, cercando nella platea più un confronto che un sostegno, con un’umiltà che solo i grandi intellettuali riescono ad avere.
Le sue doti di studioso hanno segnato i momenti più significativi dell’evoluzione del diritto del lavoro degli ultimi vent’anni.

All’attività di ricerca, che lo accompagnò in tutte le fasi della sua vita, seguì un’intensa partecipazione all’attività legislativa, ma il suolo ruolo istituzionale era sempre discreto, il suo rapporto con la politica lieve. E nessun impegno, nessun compromesso di governo poté mai fargli abbandonare i lavoratori, dalla parte dei quali aveva scelto di stare in modo inequivocabile.

Ciò di cui lui parlava era la vita delle persone, la vita degli uomini e delle donne “non in quanto parte di un qualsiasi tipo di rapporto contrattuale, ma in quanto persona che sceglie il lavoro come programma di vita e si aspetta dal lavoro l’identità, il reddito, la sicurezza, cioè i fattori costitutivi della sua vita e della sua personalità”. Sono d’accordo con le sue parole: l’attenzione deve spostarsi al lavoratore inteso come persona che ha diritto a essere tutelato dentro e fuori i luoghi di lavoro, ha diritto alla difesa della dignità, alla libertà di espressione e di opinione. La straordinarietà del suo operato è tutta racchiusa nell’attualità del suo pensiero laddove seppe intuire e far proprie le trasformazioni che stavano maturando nel mondo del lavoro. Riteneva necessario confrontarsi con una dimensione europea, superando i confini di un provincialismo che soffocava il lavoratore, impreparato ai processi di globalizzazione delle attività economiche.

A noi il compito non solo di ricordare e di onorarne la memoria ma di fare dei valori di Massimo d’Antona un punto di partenza, perché la sua opera possa aiutarci a portare avanti le riforme di cui il nostro paese ha estremamente bisogno, trasmettendo alle giovani generazioni un sentimento di speranza in un futuro migliore, dove chiunque abbia capacità, volontà, determinazione, onestà intellettuale possa pensare di costruire su basi solide la propria vita.

Oggi lo ricordiamo insieme alle persone a lui più care, la signora Olga e la figlia Valentina, i suoi amici, i suoi collaboratori, i suoi studenti, a cui rivolgo tutto il mio affetto e la mia stima.

“Vorrei una legge che…”

Cari ragazzi,
a voi rivolgo prima di tutto il mio più sincero benvenuto nell’Aula del Senato, Aula che ha il piacere, oltre che l’onore, di ospitare la Cerimonia di premiazione del concorso “Vorrei una legge che…” per l’anno scolastico 2012/2013. Con l’occasione desidero inoltre far giungere un ringraziamento particolare ai vostri dirigenti scolastici ed insegnanti che, con competenza e passione, hanno seguito e consentito la vostra partecipazione al progetto.

A loro è affidato un compito delicato e molto importante: dare a voi tutti, ogni giorno, quegli strumenti indispensabili per diventare cittadini attivi e pienamente consapevoli. E’ un lavoro che fanno con grande dedizione, molto oltre lo stretto dovere professionale. Lo fanno perchè hanno a cuore voi, prima di tutto, e il futuro del nostro Paese.

L’iniziativa “Vorrei una legge che…”, promossa dal Senato della Repubblica nel quadro delle iniziative rivolte al mondo della scuola in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, si muove proprio in questo percorso di cittadinanza, e si propone di avvicinare anche i più piccoli alle Istituzioni ed incentivarne il senso civico.
La partecipazione alla vita democratica comincia da quando si è più piccoli, nel saper cogliere – come voi avete lodevolmente fatto – l’importanza della “regola” quale fondamento irrinunciabile di ogni convivenza serena e civile tra uomini liberi.

Giunta alla sua quinta edizione, ancora una volta questa iniziativa ha visto moltissime scuole partecipare e ha avuto un ampio successo tra i giovani studenti delle scuole primarie di tutta Italia, ma soprattutto, come si vede dagli elaborati selezionati, ha fatto emergere l’intelligenza e la passione che vi anima.

Avete trattato temi importanti, e li avete poi sviluppati in forme diverse e creative: dal contrasto del fenomeno del bullismo a scuola all’esigenza di una sana e corretta alimentazione per prevenire l’obesità; dalla diffusione della letto-scrittura in Braille alla tutela dell’ambiente che ci circonda; dalla promozione delle “virtù” democratiche alla protezione dai pericoli del web. Ci avete dato spunti e idee per lavorare meglio, e di questo vi ringrazio.

Diventare cittadini responsabili costituisce un diritto ma anche un dovere nel mondo di oggi, così complesso ed articolato, e solo attraverso la conoscenza dei principi fondamentali della nostra Costituzione è possibile introdurre i più giovani – come voi – nella vita democratica del paese.

In tal senso il Senato, da sempre attento al mondo giovanile, continua a rafforzare l’impegno nel promuovere l’incontro con voi alunni, consentendovi di muovere i primi passi in ciò che vuol dire gestire la dimensione pubblica e farvi sentire fin da subito parte della società civile del domani.

Questo percorso di crescita civile e culturale, mi auguro, possa accompagnarvi anche nelle future tappe della vostra formazione, affinché l’esperienza qui maturata possa alimentare il vostro senso civico per costruire una società migliore improntata ai principi e ai valori della nostra Carta costituzionale.

Giornata internazionale contro l’omofobia e la transfobia

Cari Colleghi, Autorità, Signore e Signori,

è per me un grande piacere e un onore ospitare in Senato questo momento di confronto in occasione della Giornata internazionale contro l’omofobia, che ancora una volta porta all’attenzione di tutti noi un tema estremamente importante e delicato sia sul piano istituzionale che – soprattutto credo – su quello sociale.

La tutela dei diritti delle persone omosessuali, bisessuali e transessuali rappresenta infatti l’ultima frontiera del lungo percorso storico che ha accompagnato l’affermazione e la protezione dei diritti umani.

E’ un percorso che non ha una precisa data di nascita, ma che è il frutto di una evoluzione contraddistinta da situazioni di sofferenza, rivendicazioni, contrasti. Una storia fatta da tante persone che con la loro vita hanno voluto lottare per una società più autenticamente rispettosa dei diritti del singolo.

Non è casuale, quindi, che anche il confronto odierno nasca da una situazione di criticità, che ancora oggi vede le persone omosessuali, bisessuali e transessuali vittime di marginalizzazione, discriminazione e violenza. Una violenza ancora più odiosa perché investe il profilo forse più intimo della persona umana, quello che riguarda il nostro essere più profondo e che al contempo caratterizza il nostro modo di vivere la società.

Penso alla storia di Davide, il «ragazzo dai pantaloni rosa», come veniva chiamato dai suoi compagni. Aveva 15 anni e a scuola era deriso e rimproverato da tempo per i suoi modi di fare e anche per l’abbigliamento. Il 20 novembre scorso Davide non è più riuscito ad affrontare questa condanna sociale reiterata e si è tolto la vita. Una duplice morte, la sua, come i media hanno siglato, perché spesso la prima morte è quella interiore e nasce dall’incomprensione. Penso anche alle tante, troppe aggressioni che, a Roma come in altre città del paese, vedono gruppetti di giovani colpire ragazze, ragazzi, coppie inermi, punite per il loro voler essere liberamente felici e fieri del loro essere e del loro amore.

Al di là delle violenze fisiche, che ancora persistono, vi è poi una violenza psicologica che quotidianamente continua a perpetuarsi nei confronti delle persone LGBT; è la violenza che nasce dai tanti piccoli e grandi pregiudizi che ancora oggi caratterizzano il pensiero sociale.

Estremamente significativi sono a questo riguardo i dati emersi dal Rapporto Istat “La popolazione omosessuale nella società italiana”, promosso dall’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali del Dipartimento per le Pari Opportunità e presentato il 17 maggio dello scorso anno. I dati confermano come le discriminazioni siano radicate in tutti gli ambiti della vita: il 24% degli omosessuali/bisessuali dichiara di essere stato discriminato a scuola o all’università, il 22,1% al lavoro, il 29,5% nella ricerca di lavoro. Ma le discriminazioni riguardano anche la ricerca di una casa, i rapporti con i vicini, l’accesso ai servizi sanitari ma anche ai locali, agli uffici pubblici e ai mezzi di trasporto. Sono dati eloquenti che trovano la loro origine nella persistenza, ancora oggi, nel sentire comune, di una percezione dell’omosessualità come un fenomeno deviato. L’evidenza di questi numeri ci induce a ritenere prioritario un intervento a livello istituzionale articolato su più livelli.

Un primo livello di tutela è quello indicato dalle proposte di legge sul contrasto dell’omofobia e della transfobia che anche nella legislatura in corso, come in quelle precedenti, sono state presentate nei due rami del Parlamento. Obiettivo fondamentale di tali proposte – che negli anni passati non hanno mancato di sollevare un ampio ed animato confronto parlamentare – è quello di intervenire sulle norme esistenti per prevenire e reprimere in modo specifico anche chi commette o chi istiga a commettere atti di discriminazione per motivi fondati sull’omofobia e sulla transfobia.

Un secondo livello di tutela è quello che presuppone che lo Stato si attivi non solo per il riconoscimento, ma anche per la concreta protezione dei diritti degli omosessuali.
E’ questo un terreno politicamente molto controverso, come tutti sapete, ma che inevitabilmente le istituzioni democratiche saranno chiamate ad affrontare nei prossimi anni. Lo dovranno fare molto probabilmente nella convinzione che, come rilevato dalla stessa Corte europea dei diritti dell’uomo, il dilagare della discriminazione sessuale o legata all’identità di genere è inversamente proporzionale al livello di tutela giuridica riconosciuto alle coppie omosessuali. La sfida che si porrà innanzi alle istituzioni parlamentari è quindi imparare ad affrontare con lucidità queste dinamiche sociali, con uno spirito pragmatico e realistico che sappia abbandonare le ideologie e i preconcetti.

Infine, fondamentale, è l’informazione, la sensibilizzazione, l’educazione, rivolta in particolare ai più giovani, agli adolescenti: è, questa, una autentica priorità nel contrasto alle discriminazioni per motivi sessuali. Il progetto europeo RAINBOW (Rights Against Intolerance: Building an Open-minded World) ha confermato l’importanza di politiche scolastiche contro l’omofobia e il bullismo omofobico fondate su progetti specifici da realizzarsi nelle scuole.

Lasciatemi chiudere con una battuta: io sono veramente e umanamente preoccupato per gli omofobi, anche se il termine non mi piace. Una corretta educazione su questi temi la dobbiamo fare soprattutto per chi soffre di questa “malattia”, per chi vive male, sopraffatto da un’irrazionale paura, dal terrore di uscire di casa, dall’ansia di avere tra i suoi compagni di scuola, di lavoro, tra i suoi amici, i suoi familiari, una persona omosessuale. Diciamocelo, sono cittadini meno uguali degli altri, sono chiusi nel loro guscio, si frequentano solo tra loro, non allargano i loro orizzonti ne’ il loro cerchio di amicizie. Temono i viaggi all’estero, le feste, gli studentati all’università, gli spogliatoi delle palestre.

E’ un problema sociale che dobbiamo affrontare davvero, da subito, a partire dai più giovani. Dobbiamo farlo insieme, le istituzioni con le associazioni. Liberiamo gli omofobi dalle loro paure. Vivranno meglio loro, vivremo meglio tutti.

Disastro di Genova. Napolitano rappresenta il dolore di tutte le istituzioni

“In questi giorni di dolore, che ci vedono tutti stretti accanto alle famiglie delle vittime, esprimo il cordoglio e la profonda commozione mia personale e di tutti i colleghi senatori per la tragedia che ha colpito la comunità dei lavoratori del Porto di Genova.
La presenza del Capo dello Stato ai funerali di domani esprime il dolore dell’intera nazione, e autorevolmente incarna e rappresenta tutte le istituzioni della Repubblica.
Spero sinceramente che da questi momenti drammatici il Paese sappia trarre insegnamento operando, ciascuno nella sua funzione, affinché il lavoro sia ogni giorno più sicuro.”

Così il Presidente del Senato, dopo essere stato informato dal Presidente della Repubblica della sua partecipazione alle esequie.

“Il sangue non sbaglia” di Antonio Manganelli

Care Adriana e Emanuela,
cari amici,

è una forte emozione e un grande onore ospitare in Senato, nella bellissima Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani, la presentazione del libro “Il sangue non sbaglia” del mio caro amico Antonio Manganelli, che ci ha lasciato lo scorso 20 marzo.

Questo libro, scritto durante il periodo della malattia, portato a conclusione pochi giorni prima di morire e pubblicato il 17 aprile, è stato una grande sorpresa per tutti. Dedicato alla figlia Emanuela e ai colleghi di una vita, è un canto d’amore che mescola insieme allegria, morte, gioia, entusiasmo, istinto, paura. È un canto d’amore per quella Polizia amata sempre con tutto il cuore fino all’ultimo respiro, per i figli, per la donna che condivide con lui i giorni con un’ansia sottile che è consapevolezza e non paura, per gli amici e i compagni di strada e per lo Stato, per il senso rigoroso dello Stato che rende l’uomo al servizio di tutti e servo di nessuno.
Sì, perché Antonio Manganelli era un eccezionale servitore dello Stato. Eccezionale nel senso di non comune, di difficile da trovare, per intelligenza, umanità, onestà, competenza, dedizione, e per la rara concomitanza in una persona sola di tutte queste doti assieme.

Antonio era un poliziotto, un vero poliziotto. Non avrei mai potuto immaginarlo a svolgere un’altra professione, un altro mestiere. Nella difficoltà della malattia ha sempre continuato a fare il poliziotto, e non certo in senso formale. Tanto è vero che durante il periodo trascorso in cura negli Stati Uniti aveva allestito un ufficio a Houston dal quale dirigeva i suoi uomini con la passione e il coraggio di sempre.
Ed è proprio da quella stanza di ospedale, dove era ricoverato, che «Storie d’indagini, facce, schegge di una carriera lunga trent’anni, tornano a trovarlo nella notte”, scrive nella prefazione del suo libro. Così quelle storie nei giorni lunghi delle cure americane sono diventate la trama di un romanzo: “frutto imprevisto dell’incontro tra episodi vissuti, personaggi reali che sulla carta assumevano tratti inventati e vere tecniche d’indagine”.
Questo romanzo è una storia di verità e vita. L’ispettore Giovanni Galasso, il protagonista, è un «poliziotto per mestiere, per vocazione e per amore» e ha un caso da risolvere: l’omicidio dell’aristocratica Anna De Caprariis, strangolata in auto a tarda sera da mano amica senza un gesto di lotta, senza un urlo, senza sangue. Ma l’indagine diventa il contenitore di cento storie che arrivano sulle pagine direttamente dalla memoria viva di chi scrive, storie che vivono una dentro l’altra in un continuo richiamo di analogie, di memoria, di ricordi.

Se Giovanni Galasso per Antonio Manganelli “è un modo di vivere, di ragionare, di diffidare e di condividere” e “la quotidianità di Galasso è la quotidianità di chi è poliziotto per mestiere, per vocazione e anche per amore”, l’ispettore di carta è l’alter ego del suo creatore la cui oltre trentennale carriera è stata costellata da numerosi successi nella lotta alla criminalità in ogni sua forma.

Nell’ufficio di Galasso, stanza 61 della Squadra Mobile, ovvero il suo regno, era rappresentata l’intera vita del poliziotto. Nel perimetro di legno della scrivania c’erano i segni tangibili della sua storia umana e professionale: il computer, la foto della moglie Sabina, sensibile e dolce, le pergamene delle onorificenze, e i souvenir dono dei colleghi. Il paziente e testardo poliziotto, aiutato dal suo braccio destro ispettore Bruno Bevilacqua, ancora una volta sarebbe arrivato per gradi alla soluzione del mistero mettendo insieme, tessera dopo tessera, il mosaico. Non demordere, non innamorarsi delle intuizioni e non considerarle risolutive fino a quando ogni altra ipotesi non è stata esclusa. Quindi cercare qualsiasi indizio perché ogni oggetto racconta una storia, bisogna tendere le orecchie e prepararsi ad ascoltare.

Manganelli, che ha lavorato al fianco dei più valorosi magistrati a cominciare da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (era stato Questore di Palermo dal 1997 al 1999), sapeva bene che “l’indagine è studio paziente, ricerca razionale della verità, costante esercizio del dubbio” e che “Il bravo investigatore dubita, soprattutto di se stesso, ha il coraggio di mettere in dubbio perfino le convinzioni cui è approdato un attimo prima”.
Si resta coinvolti dalla figura di Galasso, dalla sua umanità, dai suoi dubbi. Galasso proviene, come Manganelli, dalla trincea di Palermo, dove la lotta alla mafia andava giocata mossa dopo mossa e dove c’era in palio la libertà, “Il futuro di un’intera nazione”.

Antonio, attraverso questo romanzo, sembra congedarsi dalla vita con un atto d’amore verso chi l’ha condivisa con lui («a mia figlia Emanuela e a tutti i poliziotti», è la dedica), verso sua moglie, verso l’Italia, verso il suo lavoro. E a proposito del suo lavoro diceva: «è un lavoro difficile, ma ci sono dei momenti che sanno annullare tutte le cose brutte e basta ripartire da lì. Dall’amore per il proprio mestiere, basta ripartire da lì”.
Mi piace concludere questo mio breve intervento con le sue stesse parole “Questo libro è una storia d’amore. La storia d’amore con un mondo, con un mestiere, con un modo di vivere, con una grande famiglia. Una storia d’amore nasce ogni giorno e va oltre la vita”.
Ecco, sono certo che la sua storia di vita e di finzione contribuirà a formare e accompagnare poliziotti migliori, uomini e donne migliori.

Incontro con l’AIPD, Associazione Italiana Persone Down

Cari ragazzi,

è con grande piacere che il Senato vi ospita oggi nell’ambito dell’evento di formazione dal tema “Le Istituzioni promuovono la cittadinanza attiva”, promosso dall’Associazione Italiana Persone Down, nell’ambito del progetto “Think different think Europe”.
Le attività che vi vedono coinvolti in questi giorni fanno parte di un più ampio progetto che ha l’obiettivo di sostenere e promuovere la vostra consapevolezza.
La consapevolezza di essere cittadini europei. Cittadini attivi. Cittadini che portano con sé un bagaglio di potenzialità preziose per la società, alle quali la società ha il dovere di garantire il diritto all’espressione.
È nostro dovere, dovere delle istituzioni europee dare spazio alla vostra voce, alle vostre istanze, alle vostre esigenze.

Purtroppo la risposta del mondo politico tarda ad arrivare. Non sempre infatti le istituzioni si sono dimostrate sensibili e capaci di accogliere e valorizzare le persone con Sindrome di Down.
Il mio auspicio è che le assemblee parlamentari mettano nelle proprie agende il tema dei diritti delle persone diversamente abili, della loro promozione e del loro riconoscimento, in ogni forma.
Voi oggi siete qui in rappresentanza di tutti i ragazzi diversamente abili che non possono usufruire di questa occasione. L’occasione di sperimentare cosa vuole dire essere cittadino europeo.
Siate coscienti di quanto il vostro apporto sia prezioso e necessario. La consapevolezza delle vostre opinioni, la possibilità di affermarle attraverso il diritto al voto sono tutti obiettivi che l’Associazione Italiana Persone Down, insieme alle Associazioni degli altri paesi europei che sono qui presenti, si pone come obiettivo prioritario.

Tra poco entrerete nel vivo dell’attività parlamentare, simulando una seduta dell’Assemblea per eleggere chi di voi sarà “Presidente per un giorno”, proprio come sono stato eletto io poco tempo fa.
Dopo aver eletto il vostro Presidente, avrete modo di giocare a squadre, rispondendo a dei quiz sull’Europa e infine premierete il vincitore del concorso per immagini che il Senato italiano ha promosso, per rappresentare le aspettative dei giovani su come costruire l’Unione europea del domani.
Avrete modo, oggi pomeriggio, di visitare il Senato, la sua Aula, gli spazi dove ogni giorno lavoriamo per un futuro migliore, il futuro di tutti, anche il vostro. Vedrete la Sala dove, nel 1947, venne firmata la Carta Costituzionale della nostra Repubblica.
Cari ragazzi, desidero complimentarmi con voi tutti, che avete aderito a questa importante iniziativa, che ha portato molti di voi lontano da casa e che sono certo rappresenterà una occasione unica e importante di crescita personale.
E non posso che esprimere profonda gratitudine e riconoscenza a tutti coloro che ogni giorno si prodigano nell’aiutarvi a crescere giovani cittadini, consapevoli e indipendenti.
Mi auguro che questa giornata rappresenterà per voi un momento importante, come lo è per me. Grazie a voi di esser qui. Grazie alle persone che con competenza e passione vi sono vicine oggi.
E buon lavoro!

Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo

Signor Presidente della Repubblica, Autorità, familiari delle vittime, cari ragazzi,

è con immenso piacere e partecipe commozione che come presidente del Senato ho accolto l’invito ad ospitare in quest’Aula la solenne cerimonia del “Giorno della memoria”, che si pone in piena continuità con le celebrazioni che ogni anno dal 2008, in questo anniversario del 9 maggio, sono state vissute al Quirinale dal Presidente Napolitano con affettuosa partecipazione emotiva, con alto senso di responsabilità nella lettura imparziale di fatti di diversa estrazione ideologica e col massimo impegno istituzionale, per ricordare le vittime del terrorismo, per dare sostegno morale ai loro familiari, per un momento di intensa riflessione su quel periodo di storia sofferta.

Sono profondamente grato al Presidente Giorgio Napolitano che mi da oggi la possibilità di vivere le sue stesse emozioni, che mi trasmette il senso di questo impegno morale di portare avanti con determinazione e tenacia la memoria ed il dialogo, di mantenere sempre alta l’attenzione sulle singole vicende, di continuare a tenere uniti coloro che per anni sono stati divisi, di rimanere vicino e partecipe al dolore delle famiglie.
Permettetemi di rivolgere un particolare affettuoso saluto a tutti i familiari che con amore raccontano le storie di vita e di sacrificio proprie e dei loro cari perché si trasformino in memoria collettiva e lezione di vita. Vi ringrazio per essere presenti; immagino sia difficile, penoso, duro, ma la vostra partecipazione è importante per non arrendersi, per raccontare, far conoscere questi tragici fatti anche a coloro che, a distanza di tanti anni, li percepiscono come una pagina di storia e non come una realtà viva e ancora dolente. E non posso che esprimere, fin da subito, profonda gratitudine e riconoscenza a tutte le Associazioni per il loro costante impegno, per la loro caparbia volontà nel difendere la verità e la memoria.

Con grande piacere rivolgo le mie parole anche ai ragazzi presenti in questa Aula. Voi rappresentate il passaggio tra il ricordo e il futuro.
Le vittime del terrorismo e della criminalità sono numerosissime; ci riferiamo non solo a coloro che sono caduti nell’esercizio del proprio lavoro e nella ricerca della verità; non solo a coloro che sono morti nell’adempimento del proprio dovere, come il personale di pubblica sicurezza, che ha la funzione di proteggere le istituzioni e i cittadini; non solo alle vittime colpite nella propria quotidianità, colpevoli soltanto di trovarsi per le strade e per le piazze delle proprie città nel momento sbagliato: ci riferiamo anche alle vittime morali del terrorismo, a chi ha sopportato il fardello della violenza subita, dell’impotenza, della frustrazione. Oggi le vogliamo ricordare tutte, le vittime di quegli anni. Tutte, qualunque fosse la collocazione politica di chi colpiva e di chi veniva colpito. Qualunque fossero le motivazioni ideologiche e il contesto storico.

Ma il ricordo non basta: è necessario accompagnarlo alla volontà esplicita di conoscere tutte le verità, anche quelle rimaste nascoste e di capire perchè non sia stato possibile fare completa luce sulle stragi.

Abbiamo il dovere di farlo per alcuni irrinunciabili motivi:
per dare giustizia alle famiglie che hanno subito la perdita dei propri cari;
per affermare che lo Stato è stretto attorno a loro non solo nel più sentito cordoglio, ma anche nella ricerca della verità;
per rendere consapevoli i nostri giovani che con lo spirito di unità, con il senso dello Stato, si vince sempre.

La stagione terroristica in Italia inizia con la strage di piazza Fontana: era il 12 dicembre del 1969. Lo sgomento di quei giorni è intatto nella nostra memoria. Da quel momento una lunga teoria di attentati insanguinò le strade e le piazze del nostro Paese, lacerandone l’identità culturale. Un coacervo di forze che in quegli anni aveva come scopo la destabilizzazione e l’eversione.

Le vittime sono tutte uguali e il dolore di ciascuno di voi, mogli, figli genitori, é ugualmente e intimamente duro da portare.

La scelta della data per “il Giorno della memoria” è caduta sull’anniversario dell’assassinio di Aldo Moro perché quella decisione spietata, che portò dopo 54 giorni di prigionia all’uccisione del Presidente della Democrazia Cristiana, ha rappresentato un momento di condivisa presa di coscienza da parte dello Stato. Quello Stato che, purtroppo, solo allora, capì che la reazione non poteva più tardare.

Le Brigate rosse avevano colpito il perno del sistema politico e istituzionale su cui poggiava la democrazia. Moro divenne la vittima simbolo di un sistema, fu la tragedia non solo della perdita di un alto rappresentante delle Istituzioni ma di tutto il Paese.
E’ la storia di un padre premuroso, di un marito affettuoso, dell’omicidio di un servitore dello Stato, al quale, tragicamente, ne seguiranno altri. E’ la storia di Raffaele Iozzino, di Oreste Leonardi, di Giulio Riviera, Francesco Zizzi e Domenico Ricci, il cui figlio Giovanni oggi ringrazio per il suo intervento così toccante. Condivido ogni singola parola, ogni singolo passaggio della sua testimonianza. Ma quanto mi rende partecipe il suo voler abbandonare la stagione dell’odio! E’ vero: la stagione del dolore e della rabbia devono cedere il posto ad una nuova primavera che ci liberi dal peso enorme di quegli anni.
Quante energie preziose perse l’Italia negli anni che precedettero e che seguirono. Del rogo di Primavalle ricorre il 40° anniversario. Caro Signor Mattei la ringrazio per la testimonianza, che so essere dolorosa e sofferta. Io, quale rappresentante delle istituzioni, mi sento oggi responsabile di un sistema giudiziario che non seppe trovare in tempo quelle verità che avrebbero reso giustizia. La verità oggi è nota e gli assassini sono rei confessi. Mai più succeda che la giustizia sia negata.

Firenze vent’anni fa un’autobomba proprio non se l’aspettava. La strage, che colpì tanti innocenti, venne inquadrata come una reazione di cosa nostra all’applicazione del carcere duro per i mafiosi, che le stesse sentenze definirono come terrorismo mafioso e di cui ancora non si conoscono tutti i mandanti. Ma la differenza tra strage di mafia e di terrorismo è così grande? Ringrazio lei Signora Giovanna, Presidente dell’Associazione Tra i familiari delle Vittime di Via dei Georgofili, per essere presente oggi e per averci ricordato quella strage orrenda citando le parole di un magistrato, Gabriele Chelazzi, insieme al quale ho avuto il privilegio di lavorare e di cui quest’anno ricorre il 10° anniversario della morte. Chelazzi, fin da quella notte del 27 maggio, indagò sulla strage, lavorando in maniera spasmodica e dimostrando fedeltà alla sua missione, al suo compito, ai suoi doveri. Il messaggio che ci ha lasciato quest’uomo è un invito a fare bene il nostro lavoro, a non arrenderci mai, un invito alla politica a fare la propria parte nell’accertamento della verità, ad arrivare là dove la verità giudiziaria non può giungere.

Oggi da Presidente del Senato, da cittadino e da uomo delle istituzioni mi impegno a fare quanto possibile nel mio ruolo per accertare pienamente la verità, certo di poter contare su un corrispondente impegno del Governo, del Parlamento, di tutte le istituzioni democratiche e fiducioso negli strumenti in nostro possesso. Auspico, come più volte affermato, che il Parlamento, qualora approvi i disegni di legge già presentati per istituire la Commissione bicamerale d’inchiesta sul fenomeno mafioso, possa estenderne le competenze anche ad altre stragi di qualsiasi estrazione rimaste irrisolte. Se le forze del male si compattano, lo Stato deve poter rispondere con altrettanta compattezza e forza per scongiurare ogni rischio di riproduzione di quei fenomeni che tanto sono costati alla democrazia e agli italiani e che tanto potrebbero costare ai nostri figli.
Ma oltre a cercare la verità, occorre rafforzare la cultura della convivenza pacifica, della tolleranza politica, culturale e religiosa, ribadire le regole democratiche, i principi, i diritti e i doveri sanciti dalla Costituzione. Lo dobbiamo fare lottando quotidianamente, con coraggio e determinazione, confortati dalla speranza che si può cambiare, che si può e si deve agire per costruire una società migliore. Si può migliorare, ne sono profondamente convinto. Credo che con la forza di tutti si possa fare molto. E oggi la nostra forza siete voi, il vostro dolore composto, la dignità con la quale in tutti questi anni, avete invocato verità e giustizia; la nostra forza sono i vostri figli che, privati dei loro affetti più cari, arricchiscono il nostro sforzo collettivo di mantenerne viva e costante la memoria, rendendo omaggio al sacrificio di tanti.

Quel che più mi preme é porre un limite insuperabile a qualsiasi forma di violenza (armata, fisica od anche verbale), perfettamente convinto che non possano esistere ragioni di dissenso politico o di tensioni economiche e sociali che giustifichino in alcun modo il ricorso alla forza, ad atti di ribellione o di protesta violenta, che rischino di trasmodare e di generare terrore in cittadini indifesi ed innocenti.

Scorrendo il calendario quasi ogni giorno troviamo tristi ricorrenze di persone da ricordare perché uccise dal terrorismo o dalla mafia. Sono i nostri martiri. Sono certo che il seme del loro sacrificio farà germogliare una foresta; una foresta di uomini e donne, di ragazze e ragazzi, di cittadini tutti, che con il loro esempio potranno aiutarci a costruire un futuro e un Paese migliore.