A 70 anni dalla deportazione degli ebrei romani

Autorità, signore e signori,

è per me un grande onore oggi essere qui, inoccasione del 70° anniversario della deportazione degli ebrei romani. La razzia compiuta dai nazisti, la notte del 16 ottobre 1943, portò via più di 1000 innocenti. Di questi, solo 16 uomini e 1 donna tornarono indietro. Tutto si consumò in poche,velocissime ore. Nessun quartiere di Roma fu risparmiato.
La memoria di quel giorno non può riguardare solo coloro che ne sono stati i testimoni. La loro memoria è diventata ormai la memoria di questa città, anche grazie a questa toccante marcia silenziosa, che da diversi anni la Comunità di Sant’Egidio e la Comunità ebraica di Roma organizzano con impegno e passione. Un appuntamento che nel corso del tempo coinvolgesempre più romani.

Nell’anniversario di una ferita inguaribile, il ricordo di quei drammatici avvenimenti deve aiutarci a preservare i valori di libertà e giustizia che sono alla base della nostra democrazia. Questa è un’occasione straordinaria per riflettere e ribadire, con forza, i valori assoluti e fondamentalidel dialogo, della tolleranza, della solidarietà e della pace.
Dal 1945, la sconfitta delle ideologie nazi-fasciste ha determinato l’affermarsi, ovunque in Europa, di principi e idee su cui si basano tutte le costituzioni moderne e che oggi sono ritenuti unacondizione indispensabile per offrire una vita dignitosa ad ogni individuo. Eppure questo, che pure è molto, non basta. Il vuoto di ragione, umanità, carità che determinò l’orrore di allora minaccia ancora il nostro futuro.

Dobbiamo impegnarci con tutte le nostre forze e in prima persona perché il maggior numero possibile di persone sappia, e ricordi, e abbia la voglia e il coraggio di ricordare.

Oggi, in questi luoghi così carichi di potere evocativo, è più forte il mio turbamento nel riconoscere che l’orrore si consumò anche vicino a noi, anche a causa nostra, che alcuni italiani di quell’orrore furono vittime e alcuni carnefici.
E allora, dobbiamo lasciare che questo orrore scavi e conquisti le nostre coscienze distratte: solo così avremo la garanzia che una follia come quella che qui si è consumata non potrà ripetersi. Noi sappiamo cosa è stato. Noi saremo testimoni e vigileremo affinché la memoria non si perda e affinché non accada mai più, né qui, né altrove.

Le leggi delle donne che hanno cambiato l’Italia

Intervento alla presentazione del volume a cura della Fondazione Nilde Iotti

Cari amici, gentili ospiti,

è per me un grande piacere ospitare nella Sala Capitolare del Senato la presentazione del libro “Le leggi delle donne che hanno cambiato l’Italia”.

Vorrei innanzitutto ringraziare la Fondazione Nilde Iotti nella persona della Presidente, Livia Turco, per averne curato la pubblicazione, e le autorevoli autrici del libro.
Ma vorrei porgere il mio più sincero apprezzamento a tutte coloro che con lo loro attività contribuiscono, ogni giorno, a promuovere la partecipazione delle donne al dibattito politico e culturale del nostro Paese.

Oggi il nostro ricordo va ad una donna che ha lasciato un segno indelebile nella vita politica e istituzionale del nostro Paese.

Nilde Iotti, definita “la madre della nostra repubblica”, partecipe, per più di cinquant’anni alle legislature del Parlamento repubblicano e prima ancora all’Assemblea Costituente, è stata protagonista indiscussa della rivoluzione socio – culturale dell’Italia. Donna parlamentare altamente qualificata, deputata europea, straordinaria Presidente della Camera dei deputati, prima Presidente donna che ha ricoperto questo incarico per più tempo, è stata tutto questo, sempre con equilibro, autorevolezza, determinazione, passione e con quella naturale eleganza che la contraddistingueva in ogni suo gesto, in ogni sua espressione.
La sua personalità esprimeva un’autorevole serenità.

Quando morì, nel 1999, Le Monde le dedicò una nota con questo titolo: “Se ne va la gran signora della politica italiana”, una sintesi reale di colei che ha impersonato un’alta concezione della politica, che è stata il punto di partenza delle più importanti conquiste legislative dall’inizio della Repubblica alla conclusione dell’ultima legislatura. Dal 1950 al 2012, è stato un susseguirsi di leggi che hanno cambiato la vita delle donne e del Paese.

Il libro ripercorre in maniera chiara e puntuale questo percorso storico-legislativo che ha avuto le donne come principali protagoniste e sottolinea il profondo cambiamento sociale, culturale e giuridico della vita repubblicana.

Basti pensare al 1963, anno dal quale le donne possono finalmente accedere alla magistratura; al 1968 anno dal quale l’adulterio femminile non è più considerato reato; al 1970, quando viene approvata la legge sul divorzio; abbiamo dovuto attendere il 1996 per trasformare la violenza sessuale in reato contro la persona e non contro la moralità pubblica. E soltanto nel 2012 si è completata la piena parità giuridica tra figli nati dentro e fuori dal matrimonio.

I traguardi raggiunti sono tanti ma ancora c’e’ molto da fare. Senza le donne, senza le battaglie che hanno combattuto, il nostro Paese non sarebbe quello che è oggi. Le donne sono ragione di speranza e di futuro per il nostro Paese, una ricchezza di risorse straordinaria. Ma le battaglie delle donne devono diventare le battaglie di tutti!

Sono sempre più numerose le donne, oggi, che hanno raggiunto posizioni di rilievo non solo in Italia ma anche in tutto il mondo. E’ di questi giorni la nomina del Presidente Obama di Janet Yellen alla guida della Federal Reserve, la banca centrale degli Stati Uniti:la prima donna a presiedere l’istituzione centenaria le cui scelte indirizzano il corso dell’economia mondiale.

Sono traguardi importanti, frutto di un percorso avviato anche a livello normativo, ma il vero cambiamento è dovuto a quella rivoluzione culturale che è già in atto da tempo.
Il ruolo della donna nella società, nel lavoro, nell’impresa, nelle principali professioni, nella politica, è essenziale ed imprescindibile: non credo sia un caso che nelle graduatorie dei posti assegnati per concorso il numero di donne sia superiore a quello degli uomini, mentre dove i posti vengono assegnati per nomina diretta la percentuale sia inversa!

Ma al riconoscimento delle doti e delle qualità del mondo femminile, non è seguito ancora e in modo completo quel salto di qualità ulteriore che è costituito dal raggiungimento di posizioni di vertice, in completa parità con gli italiani di sesso maschile senza il bisogno di quote, e politiche di flessibilità e di sostegno a entrambi i partner, necessarie per poter conciliare al meglio il lavoro e la famiglia.

E’ necessaria dunque una collaborazione di tutti, istituzioni, scuola, famiglia, perché la piena affermazione della dignità della donna e il rispetto della sua persona diventino imperativi categorici o meglio, senso comune.

Ricordo che è passato all’esame del Senato il decreto legge contro il femminicidio, approvato alla Camera, che prevede nuove aggravanti e tutela più ampia nei confronti delle donne che subiscono maltrattamenti e violenza domestica. Un passo importante perché la violenza sulle donne esce da una dimensione strettamente femminile e diventa, come è giusto, un problema sociale che richiede un intervento strutturato e non emergenziale.

Con l’auspicio che a questa iniziativa ne seguiranno altre per valorizzare e raccontare sempre di più il mondo femminile, il mio augurio va a tutte le donne, nella speranza che sia sempre più garantita, in ogni ambito, la piena realizzazione sia morale che professionale.
Grazie di cuore.

La memoria e l’immagine

Autorità, cari ragazzi, gentili ospiti,

è per me un grande piacere ospitare in Senato questo incontro sulla scuola, su come si è evoluta, su come era ieri e su come è diventata oggi.

Questa iniziativa si inserisce nel percorso culturale chiamato “La memoria e l’immagine”, che da qualche anno il Senato organizza per sottolineare il valore della memoria nella formazione della coscienza civile del nostro Paese. Quest’anno la rassegna è dedicata alla memoria storica della scuola ed è stato preso come spunto la mostra “Dal libro cuore alla lavagna digitale” realizzata dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, nella quale sono raccolti preziosi materiali storici.

Ho appena visitato, insieme al Ministro Maria Chiara Carrozza – il vostro Ministro, cari ragazzi – la piccola ma significativa mostra allestita nelle salette adiacenti. È una mostra piccola – si tratta di una selezione dei materiali tratti da quella del MIUR – in quanto gli spazi, come avete visto, non sono molto ampi, ma è comunque densa di spunti di riflessione e testimonia il cammino che ha percorso il sistema scolastico italiano dalla fine dell’800 fino ai nostri giorni.
È un percorso molto lungo: ce lo dicono i documenti scritti con penne antiche, le pagine ingiallite, le fotografie un po’ sbiadite, i filmati che vanno un po’ a scatti.
Guardando quei documenti mi sono tornati in mente tanti ricordi della mia infanzia, quando anch’io – cari ragazzi – andavo a scuola e vi assicuro che provo nostalgia nel ripensare ai banchi, alle aule, ai miei insegnanti dell’epoca… e anche alle interrogazioni e ai compiti in classe. Vi sembrerà strano, ragazzi, pensare che si possa aver nostalgia delle interrogazioni, ma vi assicuro che anche voi ne avrete, tra qualche anno.

Lo studio, l’apprendimento, talvolta vi sembreranno faticosi, talvolta noiosi, ma l’istruzione e la cultura sono l’unico bene davvero vostro, qualcosa di cui nessuno mai potrà privarvi e che sarà per sempre la vostra principale risorsa.
Non importa quale strada sceglierete nella vita, di quali settori vi occuperete, quale lavoro svolgerete: quel che avrete appreso vi sarà utile, indispensabile, in qualsiasi attività, sia nella vita personale, sia in quella professionale.

Molte delle foto esposte nella mostra ci parlano di un’Italia in cui la sfida principale del sistema scolastico era quella dell’alfabetizzazione. Larghe fasce della popolazione non sapevano né leggere né scrivere. Oggi non basta più essere in grado di “leggere, scrivere e far di conto”. Viviamo in un mondo molto più complesso rispetto a quello di alcuni decenni fa, ormai globalizzato e fortemente competitivo. La sfida odierna è quella dell’alta specializzazione, della ricerca scientifica, della formazione continua resa necessaria dalla velocità con cui cambiano le cose, e quindi anche i saperi invecchiano rapidamente. Non si deve mai smettere di studiare, di apprendere, di aggiornare le proprie competenze.

Bisogna tuttavia tener ben presente che la formazione specialistica necessita di fondamenta solide sulle quali costruire le conoscenze più avanzate e quelle fondamenta sono fornite dai gradi primari della scuola.
Se la sfida dell’alfabetizzazione, tipica dello scorso secolo, è stata superata, o quasi, quella della conoscenza non è ancora completamente vinta. Ancora oggi il drammatico fenomeno della dispersione scolastica interessa, purtroppo, quasi 2 ragazzi italiani su 10. Un ragazzo che abbandona la scuola oggi sarà un adulto che domani avrà grandi difficoltà per costruire la propria vita.

Un ulteriore dato che ci deve far riflettere è quello relativo alla spesa pubblica in istruzione e formazione. L’Italia spende poco, e forse anche male. Ma la spesa pubblica in istruzione e cultura non è un costo, bensì il più redditizio degli investimenti. Proprio in una situazione difficile per la finanza pubblica come quella attuale, bisogna avere il coraggio di guardare al futuro, perché la spesa pubblica per l’istruzione è un investimento nel capitale umano del Paese. Per questo i miei complimenti vanno al presidente Letta e al ministro Carrozza che qualche settimana fa hanno annunciato l’approvazione di un Decreto Legge che vale – attenzione: “vale”, non “costa” – 400 milioni di euro.

La scuola, lo abbiamo visto, è molto cambiata nei più di 150 anni della nostra unità d’Italia. Si è passati da “penna, inchiostro e calamaio” alle sperimentazioni con gli e-book reader. Una rivoluzione copernicana. Ma il punto centrale, che non è mai cambiato e che non potrà mai cambiare, è rappresentato dai docenti. Sapete, mia moglie è una professoressa, quindi io ho vissuto la scuola, attraverso i suoi racconti, per tutta la vita. E anche da magistrato ho dedicato molta parte del mio tempo libero ad incontri con le scolaresche sulla legalità. E’ un mondo che conosco bene.

Quando si parla di scuola infatti non si può non pensare, oltre agli studenti, anche e soprattutto agli insegnanti che, attraverso il loro lavoro, hanno la grande responsabilità – e l’immenso privilegio – di contribuire in modo determinante allo sviluppo culturale, sociale ed economico del Paese.

Come ho ricordato la settimana scorsa in occasione della Giornata mondiale dell’Insegnante, la professione di docente è estremamente complessa e certamente non si esaurisce nella semplice trasmissione di nozioni , sulla base del programma stabilito. Gli insegnanti sono chiamati quotidianamente a svolgere il compito difficile di formare i giovani, non soltanto dal punto di vista culturale, ma anche civile e morale, trasmettendo loro i valori profondi di cittadinanza, solidarietà, giustizia, che contraddistinguono la nostra democrazia. Oggi gli educatori devono affrontare sfide nuove, che derivano dall’evoluzione sociale, culturale e tecnologica dei nostri anni. E’ un lavoro duro e bellissimo, per il quale meritereste un più alto riconoscimento da parte delle istituzioni, delle famiglie, dell’opinione pubblica.

La mostra nelle sale qui di fianco ci deve far riflettere sulla centralità che il sistema scolastico ha nella vita del Paese, da sempre. Purtroppo però la scuola fa notizia solo quando succede qualcosa di tragico: mentre molta attenzione viene dedicata ai pochissimi “casi di cronaca”, ogni giorno nelle aule scolastiche del nostro paese si costruisce il futuro, si educano ragazze e ragazzi, si formano coscienze e senso critico, si creano legami e rapporti, si preparano alla vita quelli che saranno i cittadini di domani.

E’ così da tantissimi anni, e continuerà a essere cosi, credo, ancora a lungo.
Grazie a tutti.

Bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi

Il Senato della Repubblica ricorda oggi il bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi, secondo una tradizione sempre mantenuta in quest’Aula, dove egli esercitò le funzioni di senatore fino alla sua scomparsa nel 1901.

Dopo la sua prima opera, Oberto Conte di San Bonifacio, con il Nabucco si affermò definitivamente l’enorme successo di pubblico che segnò tutte le sue opere successive: I Lombardi alla prima CrociataErnaniI due FoscariI masnadieriLuisa Miller.
In seguito ad un lungo viaggio che lo porta da Londra a Parigi, scrive La battaglia di Legnano, in cui la cacciata di Federico Barbarossa da parte dei Comuni lombardi simboleggia il riscatto e l’orgoglio di una Nazione fiera, ferita e cosciente della sua storia. Nell’immaginario collettivo il nome di Giuseppe Verdi rimane così legato al motto “Viva Verdi, Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia”, scritto sui muri di Roma nel 1859, alla vigilia della rappresentazione di Un ballo in maschera.

Queste opere saldano per sempre la sua figura alle istanze risorgimentali e il suo entusiasmo per il processo unitario divenne l’impegno e il programma della sua stessa vita, al punto da fargli anteporre la causa nazionale anche alla sua stessa produzione artistica. Con parole fermissime, Verdi disse: «Io non scriverei una nota per tutto l’oro del mondo», rispetto all’ideale dell’Unità d’Italia.
Nel 1848, su richiesta di Giuseppe Mazzini, compone la musica di un inno nazionale: Suona la tromba (Inno delle Nazioni). Seguono, scritte a breve distanza l’una dall’altra, le opere che oggi vengono definite “romantiche”: RigolettoIl Trovatore e La Traviata.

Gli anni di un rinnovato impegno politico sono quelli che iniziano nel 1861, con l’Unità d’Italia: su impulso di Cavour, che gli scrive personalmente il 10 gennaio, viene eletto deputato del primo Parlamento italiano, ma rifiuta di candidarsi nuovamente al termine della legislatura. Il 15 novembre 1874 viene nominato senatore, per aver illustrato la Patria. In questi anni vengono scritte opere che consegnano la sua figura alla memoria universale: La forza del destino, Don Carlos e Aida. Quest’ultima, in particolare, viene commissionata dal Governo egiziano in occasione dell’apertura del Canale di Suez. Un altro memorabile evento è la rappresentazione del Requiem, scritto per il primo anniversario della morte di Alessandro Manzoni. Altri capolavori, tratti dalle opere di Shakespeare sono Otello e Falstaff , ispirate dall’incontro con il musicista scapigliato Arrigo Boito. Gli ultimi lavori – che contraddistinguono la fase finale della sua vita – sono di ispirazione sacra: il Te Deum, l’Ave Maria, lo Stabat Mater.

La musica verdiana ha quindi una scansione, direi una cadenza esistenziale, composta come una sorta di intreccio indissolubile tra spazio e tempo. E’ proprio Verdi che chiarisce con schiettezza la sua idea di musica. Quando qualcuno si rivolse a lui dicendo: «Siamo venuti a rendere omaggio al più grande musicista […]», egli bruscamente replicò: «No, no, lasci andare il grande musicista. Io sono un uomo di teatro».
Non è quindi una mera coincidenza l’epilogo artistico della sua vita con composizioni di carattere religioso, né la sua ideale conclusione con il Requiem, composto per la morte di Alessandro Manzoni, da lui non solo stimato, ma anche pubblicamente ammirato.
Verdi e Manzoni sembrano quasi in dialogo fra loro nell’alternarsi dei brani della Messa da Requiem. Entrambi immersi nella concretezza del dramma umano, della realtà narrata e cantata, con semplicità e grandezza. Una grandezza che ogni persona, pur di diversa estrazione sociale o differente grado di acculturazione, riusciva a comprendere, apprezzare, interiorizzare.

Giuseppe Verdi, in una famosa lettera all’editore Ricordi, si era definito «un po’ ateo». Eppure non è affatto paradossale che due Papi, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, lo abbiano più volte ricordato. Il primo, ammirando la sua arte che «ha contribuito in modo vibrante ed appassionato ad alimentare negli Italiani l’amore alla patria e all’unità, valori fondamentali per la vita di una Nazione».
Il secondo, in occasione di un concerto di fronte al Presidente della Repubblica, e, significativamente, pochi giorni prima della sua rinuncia al mandato petrino, rese omaggio «al grande musicista italiano nell’anno in cui celebriamo i duecento anni dalla sua nascita. Nelle sue opere colpisce sempre come egli abbia saputo cogliere e tratteggiare musicalmente le situazioni della vita, soprattutto i drammi dell’animo umano, in modo così immediato, incisivo ed essenziale come raramente si trova nel panorama musicale».
Ne La forza del destino si realizza fino alle estreme conseguenze il senso di inquietudine e di ricerca dell’uomo di ogni tempo. Nella versione del 1862, per San Pietroburgo, Don Alvaro termina la vita da suicida, rifiuta l’abito religioso quasi invocando l’inferno. Nella versione del 1869, per “La Scala” di Milano, Don Alvaro accoglie la parola del Frate Guardiano che lo invitava a fidarsi del perdono di Dio e le ultime parole dell’opera sono “Salita a Dio”.

Due diverse versioni della stessa opera, per affermare il valore della dignità umana al di sopra delle vicende terrene, ma anche per rappresentare plasticamente il carattere tragico e combattuto di tutti i protagonisti verdiani. Sono loro gli interpreti della “tragedia umana”, che è immersa nella tensione sempre viva tra ideale e reale. Non c’è quindi in Verdi alcuna tristezza, bensì l’attesa: una sorta di dialettica permanente che oscilla tra la dimensione radicalmente terrena e l’aspirazione metafisica.
La sua arte si fa quindi testimonianza, insegnamento e come affermò in quest’Aula, il 27 gennaio 1901, Antonio Fogazzaro: «Un sovrano Giuseppe Verdi fu veramente; fu sovrano per l’altissimo ingegno; fu sovrano per il magistero dell’arte […]; fu sovrano finalmente per un insigne primato nell’armonia suprema dell’intelletto e dell’animo, nella modesta semplicità della grandezza». Per questo – concludeva Fogazzaro – Giuseppe Verdi «è stato un grande unificatore» e «sospese le distinzioni di fedi e di parti, un palpito solo raccoglie gl’Italiani intorno a lui».

Le celebrazioni promosse in occasione del bicentenario della nascita si pongono pertanto in ideale continuità con le celebrazioni dell’identità culturale italiana nel 150° anniversario dell’Unità. Come venne ricordato in quest’Aula il 26 gennaio 1951, la sua fu «musica unificatrice anche politicamente». Come scrisse D’Annunzio: «diede una voce alle speranze, ai lutti. Pianse ed amò per tutti».
E quello che Verdi seppe interpretare è patrimonio di tutti noi, perché la cultura è la nostra identità che ci sostiene anche nelle prove più dure.
Il popolo italiano ama Verdi, perché lo comprende, lo considera interprete delle sue aspirazioni, dei dolori e delle speranze dell’intera Nazione.
E ancora oggi la sua musica, il suo ricordo, il suo pensiero vola sulle ali dorate di un’Italia che deve riscoprire la forza e la speranza del suo destino.

Celebrazioni per il 50° anniversario del disastro del Vajont

Cari cittadini, Signor Sindaco, Autorità

è con commozione, intima e profonda, che mi trovo qui oggi, insieme a voi, in questo luogo così denso di ricordi e di dolore, per ricordare le persone che hanno perso la loro vita il 9 ottobre 1963. Sono passati 50 anni da quella tragica sera quando, in pochi minuti, si è consumato uno dei più grandi disastri della storia del nostro Paese. Sono passati 50 anni, e lo sgomento, attonito e muto, di allora e dei giorni che si susseguirono, drammatici, èintatto nella nostra memoria.

Il bilancio di quella notte è pesantissimo: 1910 morti. Vostri parenti, vostri amici, cittadini innocenti che si trovavano nelle proprie case, nel calore degli affetti più intimi. Una valle che in pochi istanti cambia geografia, “un mondo che scompare in una notte”.
In un primo momento si è parlato di “tragica fatalità”, di “calamità naturale”: ma tutto quello che è successo qui, in questi luoghi, la sera del 9 ottobre di cinquanta anni fa, era indubbiamente prevedibile.

La montagna aveva mandato segnali, gli esperti avevano fatto le loro indagini e dato avvisi, lanciato allarmi circa il rischio di un evento fatale. Eppure l’avidità, l’incuria, l’irresponsabilità, la sordità alle proteste di chi da anni denunciava i pericoli – prima fra tutte una donna tenace e coraggiosa come Tina Merlin, che per le sue inchieste sulla diga venne addirittura denunciata per “diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico” – ebbero la meglio.

Questo disastro si sarebbe evitato se una maggiore considerazione della vita umana avesse prevalso su interessi economici e strategici. Non si possono sottacere le pesanti responsabilità umane che hanno determinato la catastrofe. Né, da uomo dello Stato, posso ignorare le manchevolezze delle Istituzioni dell’epoca, che non hanno permesso di intervenire e prevenire, come era doveroso.
Sono le parole di Tina Merlin a gridarcelo, quelle parole che ho letto ieri in Senato e che meritano di essere ripetute:

«E’ stato un genocidio. Lo gridano i pochi sopravvissuti, resi folli dal terrore. […] Genocidio, quindi, da gridare ad alta voce a tutti, affinché il grido scuota le coscienze del popolo, la cui pelle non conta mai niente di fronte ai dividendi dei padroni del vapore, spazzi via alfine con un’ondata di collera e di sdegno chi gioca impunemente, a sangue freddo, con la vita di migliaia di creature umane allo scopo di accrescere i propri profitti e il proprio potere. […] Io assumo la responsabilità di quanto dico. I colpevoli si assumano la responsabilità di quanto hanno fatto. E la giustizia giudichi.»

Ci sono voluti decenni per i processi, le condanne, i risarcimenti ma la giustizia, in questa valle, ancora non ha trovato piena cittadinanza. Molti sono i punti ancora da chiarire, molte le responsabilità ancora non emerse, tante le domande che ancora oggi cercano risposta. E finché non arriveremo ad una verità, finché non si sarà fatta piena luce su ogni aspetto di questa tragedia, non potremo trovare pace.

Voi avete il diritto di chiedere risposte, lo Stato, quello Stato che oggi qui rappresento, ha il dovere di darvele, per rendere giustizia alle vittime, ai loro familiari, ai superstiti, e per riscattarsi dalle proprie mancanze di cinquanta anni fa.

Il disastro che qui si è consumato deve diventare memoria e impegno per ciascun cittadino, amministratore, dirigente, politico. Ricordare quanto accaduto significa essere consapevoli che nessun interesse, nessuna convenienza, nessuna scorciatoia puòconcedersi di incidere “sulla pelle viva” di una popolazione.

La storia del Vajont – che nel 2008 l’Unesco ha considerato come il primo tra i più gravi disastri evitabili della storia dell’umanità e lo ha definito come un «racconto ammonitore» – vibra e rinnova la sua attualità ogni volta che i fatti di cronaca ci portano testimonianza di incidenti e disastri ambientali causati dall’uomo.
La tutela dell’ambiente, in passato, è stata considerata troppo frequentemente come un costo aggiuntivo, un intralcio alla produzione e alla crescita. Dobbiamo cambiare prospettiva. La tutela del patrimonio ambientale del nostro Paese è un’opportunitàdi sviluppo che dobbiamo saper cogliere, una necessità ancora drammaticamente attuale.

Rispettare il territorio significa avere rispetto dell’uomo. Negli ultimi cinquant’anni, il nostro Paese ha visto frane e inondazioni che hanno provocato 7.128 vittime, secondo le stime della protezione civile. Bisogna passare ai fatti, attuare politiche di prevenzione e tutela del territorio attraverso piani di prevenzione del rischio idrogeologico in grado di tutelare un suolo fragile e prezioso, di garantire maggiore sicurezza a tutti.

Il nostro pensiero va ai tanti, troppi morti di questa strage, ma anche a tutti coloro che sono sopravvissuti e che, privati di tutti i loro beni, si sono impegnati nella ricostruzione di un paese spazzato via in pochi istanti. Ricordiamo le leggi speciali per il Vajont che hanno permesso l’avvio di attività imprenditoriali, che hanno rafforzato il tessuto socio-economico e consentito il rientro di migliaia di emigranti. Dove 50 anni fa tutto era fango e ghiaia, oggi c’è la più grande zona industriale della provincia di Belluno e il quarto polo fieristico del Veneto.

E’ enorme la mia ammirazione verso le popolazioni di questa valle per la forza e la determinazione che hanno dimostrato, per la pazienza e la perseveranza con le quali hanno saputo rinascere dal fango. In una notte, gli abitanti di Longarone passarono da 4.700 a 3.200, un terzo dei morti aveva meno di vent’anni. Delle sette industrie esistenti, solo la Faesite rimase in piedi. Eppure, dopo quindici anni il 90% del paese era stato ricostruito e ventimila posti di lavoro erano stati creati. In pochi anni, questa comunità ha saputo agganciarsi allo sviluppo della pianura veneta e invertire l’endemica tendenza all’emigrazione, diventando il motore economico dello sviluppo provinciale.

Il Vajont è anche la storia di uno straordinario esempio di solidarietà e virtù civiche, da molti considerato alla base della nascita del sistema della protezione civile. E’ la storia di tutti quelli che accorsero con tempestività: Alpini, Vigili del Fuoco, Forze dell’ordine, volontari da tutta l’Italia. Persone che, con abnegazione, generosità e impegno hanno offerto la propria opera nel momento del dolore e dell’orrore. Persone che, in qualche modo ancora oggi portano il segno di quell’esperienza.

Come ho detto ieri in un’ Aula del Senato particolarmente coinvolta e commossa, sono qui oggi, in questa terra ferita, per inchinarmi di fronte alle vittime e ai sopravvissuti. Sono qui per portare le scuse dello Stato. Sono qui per riparare, per sanare, per quanto possibile, quella ferita che da cinquanta anni separa questo popolo dalle Istituzioni, convinto che solo con la verità e la giustizia questo processo potrà trovare pieno compimento.

Tutti noi siamo qui, oggi, con umiltà e commozione, per dire con forza: non permetteremo che tutto ciò possa accadere di nuovo. Abbiamo imparato dai nostri errori. Sono certo che anche i giovani qui presenti sapranno fare tesoro di questi insegnamenti.
Grazie a tutti per il vostro impegno, per la vostra tenacia, per la vostra solidarietà. Grazie di cuore.

Commemorazione in aula del 50° anniversario del disastro del Vajont

Onorevoli Colleghi,

domani 9 ottobre ricorrono cinquant’anni dal disastro del Vajont. La popolazione colpita ha subìto non solo un danno irreparabile – la perdita di vite umane e di speranze – ma anche una vera e propria ingiustizia, fatta di negazioni, opacità, tentennamenti e lentezze nel riconoscere i responsabili di quanto è accaduto.

Di fronte alla vita spezzata, al deserto di persone, paesi, territori che quel giorno furono schiacciati dal silenzio quasi surreale della devastazione, lo Stato deve inchinarsi. Eppure non basta: lo Stato deve anche scusarsi. Ma ancora una volta non è sufficiente: lo Stato deve innanzitutto riparare.

Nulla basterà per rimediare all’onda di morte che travolse una terra salda e fiera della propria storia e del proprio lavoro, ma almeno lo Stato capace di scusarsi e riparare potrà “dare giustizia” a quanti – bambini, donne, uomini – hanno subìto l’abuso e il tradimento da parte di tanti, che avrebbero potuto e dovuto evitare la tragedia e non lo hanno fatto. Avrebbero potuto e dovuto denunciare le responsabilità e sono invece fuggiti di fronte alla storia.

Le vittime del Vajont sono riconosciute in quell’elenco di morte e dolore di 1910 persone decedute. Ma sono ancora e incredibilmente “invisibili” i volti di chi ancora oggi manca all’appello.

Allora come oggi, i sopravvissuti non debbono essere lasciati soli. Va resa loro giustizia, che significa riconoscimento della verità, imputazione delle responsabilità, risarcimento materiale e morale per quanti hanno subìto, per interesse, la negazione della realtà, l’irresponsabilità, la falsità.

Voci inascoltate denunciarono, prima e dopo la tragedia, i rischi mortali che stavano per travolgere l’umanità di quella gente fiduciosa e paziente verso lo Stato, e che interpretava il proprio lavoro e la propria fatica quotidiana come adempimento di un dovere. Tina Merlin ha usato parole che oggi abbiamo il dovere di fare nostre:

«E’ stato un genocidio. Lo gridano i pochi sopravvissuti, resi folli dal terrore. […] Genocidio, quindi, da gridare ad alta voce a tutti, affinché il grido scuota le coscienze del popolo, la cui pelle non conta mai niente di fronte ai dividendi dei padroni del vapore, spazzi via alfine con un’ondata di collera e di sdegno chi gioca impunemente, a sangue freddo, con la vita di migliaia di creature umane allo scopo di accrescere i propri profitti e il proprio potere. […] Io assumo la responsabilità di quanto dico. I colpevoli si assumano la responsabilità di quanto hanno fatto. E la giustizia giudichi.»

Dopo la tragedia venne istituita una Commissione parlamentare d’inchiesta e l’Archivio storico del Senato ha curato e offerto al pubblico un volume che raccoglie l’inventario e i documenti completi dell’inchiesta. Eppure ci volle quasi mezzo secolo perché la giustizia potesse giudicare. Il processo penale e il processo civile sono un atto di verità rispetto ad un disastro che ha fermato il tempo, che non ha lasciato niente e nessuno come prima.

Non posso non ricordare le parole pronunciate da Giovanni Paolo II proprio nel cimitero delle vittime del Vajont: “Erano vostri parenti, amici e conoscenti coloro che perirono sotto l’impeto furioso di un’enorme massa d’acqua […] Resta per voi e per tutti incancellabile la visione, quasi apocalittica, di quella sera del 9 ottobre 1963: lacrime, sangue, sacrificio di persone note e ignote segnarono quelle ore tremende!”
Di fronte alle calamità naturali – sono sempre le parole del Papa – «resta un mistero fitto, addirittura assurdo per l’intelletto umano».

Il Vajont fu, però, una strage che si poteva e si doveva evitare. Non è stata evitata perché sulla moralità, sul valore della vita, sulla legalità, è prevalsa la logica senza cuore degli «affari sono affari».

Noi tutti abbiamo quindi il dovere di dare conto di scelte irresponsabili, e lo Stato, come è stato scritto oggi in un quotidiano nazionale, ha finalmente chiesto perdono, seppure «con mezzo secolo di ritardo».

Nel 2008, a Parigi, l’Unesco ha considerato il Vajont come il primo tra i più gravi disastri evitabili della storia dell’umanità, lo ha definito come un «racconto ammonitore». Il racconto, come di recente è stato scritto, di un «mondo che scomparve in una notte».

Le istituzioni, la politica, i cittadini hanno il dovere della memoria. Memoria significa non solo ricordo, ma anche consapevolezza e coscienza dei valori della giustizia che sono a fondamento di ogni relazione umana.

Ci sono momenti nella storia del nostro Paese in cui raccontare, se necessario urlare la verità, è un dovere inderogabile.
L’economia e il lavoro non possono essere barattati con rischi o lesioni della salute dei cittadini. Il lavoro non è un bene contrapposto all’ambiente. Il lavoro si fonda sul rispetto, la tutela, la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo.

Ricordare il disastro del Vajont significa accettare la dura lezione che la logica delle convenienze, degli interessi, delle soluzioni facili, presto o tardi si infrange contro il volto delle persone vere.

E’ per questo che, facendomi interprete, ne sono certo, dei sentimenti di ciascuno di noi, domani sarò in quella terra, violata ed abusata, colpita dal terrore e dalla devastazione. Sarò lì per inchinarmi di fronte alle vittime e ai sopravvissuti. Sarò lì per portare le scuse dello Stato. Sarò lì per riparare, affermando che è compito prioritario delle Istituzioni non abbandonare le vittime e i sopravvissuti.

Quegli stessi sopravvissuti ebbero la forza di “riparare e ricostruire” e ci hanno indicato la strada che, senza condizioni, con integrità, fedeli alla Costituzione, tutti insieme dobbiamo percorrere: la strada della solidarietà.
Onorevoli Colleghi, in ricordo delle vittime, dei sopravvissuti del disastro del Vajont, Vi invito ad osservare un minuto di silenzio e di raccoglimento.

Incontro con John R. Phillips, nuovo Ambasciatore Usa

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Oggi il presidente del Senato ha ricevuto nel suo studio di Palazzo Madama il nuovo Ambasciatore degli Stati Uniti d’America, John R. Phillips, che ha portato pochi giorni fa le proprie credenziali al Presidente della Repubblica.

Al centro del lungo e cordiale colloquio, oltre le questioni di attualità politica, sono state le prospettive di cooperazione economica tra l’America e l’Italia, nell’ambito dell’accordo commerciale tra l’Unione europea e gli Stati Uniti d’America, e la rilevanza del contributo italiano al mantenimento della pace del mondo.

Amintore Fanfani, storico dell’economia e statista

Cari amici, gentili ospiti,

è con vivo piacere che oggi ospitiamo la cerimonia di presentazione del volume contenente gli atti del convegno internazionale sul tema “Amintore Fanfani, storico dell’economia e statista”.
Questa opera raccoglie alcuni accurati saggi che fanno luce sulla complessa e articolata figura di Fanfani.
La lettura di questo libro consente di seguire il percorso accademico e intellettuale dello studioso e, allo stesso tempo, di ripercorrere l’attività politica dello statista Fanfani, protagonista indiscusso della storia delle nostre Istituzioni, e in particolare di quella parlamentare.
Ed è proprio su questa lunga e poliedrica attività che intendo, oggi, soffermarmi. L’impegno di Fanfani muove dalla ricostruzione post-bellica, attraverso la Costituente, e prosegue fino quasi all’inizio dell’era dalla globalizzazione.
Fede, moralità e tenacia hanno sostenuto ogni sua attività politica e governativa.

Grazie alla sua capacità di visione e alla sua determinazione ha potuto realizzare straordinari programmi di intervento pubblico a sostegno dell’occupazione e delle classi meno abbienti. Primo fra tutti il piano di edilizia popolare “Ina-casa”, del quale seguì con estrema attenzione non solo l’iter di approvazione da parte delle Camere, ma anche tutti le fasi successive della sua attuazione; in seguito, il piano per lo sviluppo della scuola.
L’ampiezza dell’orizzonte culturale ha contraddistinto tutta la sua attività di storico dell’economia e di uomo politico. In Fanfani il convinto meridionalismo coincise con un forte europeismo, perché l’Europa unita rappresentava per lui il compimento del movimento dei popoli che aveva condotto alla formazione degli Stati nazionali, il punto d’approdo di quel percorso che in Italia aveva trovato il suo momento decisivo nello sbarco dei Mille.
Oggi essere qui, in questa sala (che fu proprio Fanfani, come Presidente del Senato, a scoprire e a valorizzare), ha un importante significato, visto che una parte rilevante del suo straordinario percorso politico e istituzionale si è svolta tra Palazzo Giustiniani e Palazzo Madama.

Egli fu, infatti, Presidente del Senato per ben 5 legislature, dalla quinta alla nona, e all’Istituzione dedicò un intenso lavoro di riforma e regolamentazione, ancora oggi pienamente in vigore, al fine di valorizzare le funzioni parlamentari e di adeguarle alle rapide trasformazioni della società e all’internazionalizzazione delle decisioni politiche.
Per tutte queste ragioni, desidero rinnovare i miei sinceri ringraziamenti a quanti hanno collaborato alla realizzazione di questa pubblicazione. E’ un libro prezioso che conferma l’attualità dell’insegnamento di una tra le figure più significative della nostra storia repubblicana, alla quale guardare con ammirazione e deferenza.

Grazie.

Tragedia Lampedusa. Impossibile immaginare l’orrore, occorre ripensare politica migratoria

“Quella che è avvenuta a Lampedusa è una tragedia enorme, della quale ancora non conosciamo l’entità. Immaginare l’orrore dei cinquecento migranti su quel barcone in fiamme che si è inabissato è impossibile”. Così il Presidente del Senato, Pietro Grasso, in una dichiarazione.

“Il richiamo alla responsabilità, all’accoglienza e al soccorso di chi fugge da situazioni disperate – aggiunge il Presidente Grasso – deve essere sentito da tutte le forze politiche e deve portare a una revisione della nostra legislazione in materia e a una più attenta gestione dei flussi migratori. Noi non possiamo lasciare al loro destino i migranti, l’Italia non deve essere lasciata sola dall’Europa: questa sfida coinvolge tutta la comunità internazionale sia nell’accoglienza che nel sostegno ai paesi di origine, affinché la fuga non sia la sola speranza. Prioritaria in questo senso la creazione di un corridoio umanitario per i profughi e la repressione della tratta di esseri umani”.

“Mentre le operazioni sono ancora in corso – conclude il Presidente del Senato – invio un sentito ringraziamento a tutti coloro che, a vario titolo, stanno prodigandosi per il soccorso e il salvataggio”.

L’impegno degli insegnanti per il futuro del Paese

Autorità, cari ragazzi, gentili ospiti,
è per me un grande piacere ospitare in Senato la manifestazione “Cento Piazze” in occasione della Giornata mondiale dell’insegnante, che si svolgerà il 5 ottobre in tutto il mondo per commemorare l’adozione da parte dell’UNESCO e dell’ILO (International Labour Organization) delle “Raccomandazioni sullo Status degli Insegnanti”, nel 1966.

Quella odierna è un’importante occasione per riflettere sul fondamentale ruolo degli insegnanti, sulla loro condizione professionale e sul mondo della scuola. Il tema prescelto per questo incontro è “L’impegno degli insegnanti per il futuro del Paese”, perché sono proprio gli insegnanti che, attraverso il loro lavoro, hanno la grande responsabilità e l’immenso privilegio di contribuire in modo determinante allo sviluppo culturale, sociale ed economico del Paese.

La professione di docente è estremamente complessa e non si esaurisce nella semplice trasmissione di nozioni secondo un certo programma stabilito. Gli insegnanti sono chiamati quotidianamente a svolgere il compito difficile e fondamentale di formare i giovani, non soltanto dal punto di vista culturale, ma anche civile e morale, trasmettendo loro i valori profondi di cittadinanza, solidarietà, giustizia, che contraddistinguono la nostra democrazia.

Nell’attuale periodo di profonde trasformazioni culturali e sociali, derivanti dalla globalizzazione e dalla facilità di circolazione di informazioni e persone, agli insegnanti, in particolare a quelli dei primi gradi di istruzione, è attribuito il delicato compito dell’educazione alla civile convivenza, al rispetto reciproco e all’accettazione delle differenze tra persona e persona, tra culture e religioni diverse. Le diversità, in una scuola sempre più multietnica e multiculturale, devono essere percepite dalle giovani generazioni non più – come troppo spesso è stato in passato – quali fonti di divisioni e contrapposizioni, bensì quali occasioni di confronto costruttivo e opportunità di crescita e sviluppo.

Ma gli insegnanti non devono essere lasciati soli nella loro attività, soprattutto nelle aree del Paese considerate “difficili”, laddove la piaga della dispersione scolastica è ancora drammaticamente presente. Talvolta si dimentica il quotidiano lavoro di migliaia di maestri ed educatori che cercano, giorno per giorno, tra enormi difficoltà, ma con passione e altissimo senso civico, di strappare dalle mani delle mafie giovani che troppo facilmente ancora vengono sedotti dalle lusinghe di una criminalità senza scrupoli, che usa spesso bambini fin dalla più tenera età per traffici criminali di ogni tipo. Non possiamo dimenticarci, cari maestri, che se quei giovani possono sperare di poter condurre una vita onesta e dignitosa è grazie soprattutto al vostro lavoro quotidiano e alla vostra dedizione.

Il mondo della scuola presenta ancora tante criticità, da troppo tempo irrisolte: l’edilizia scolastica, il precariato, la non sempre adeguata gratificazione professionale ed economica della professione di insegnate.

Un rapporto dell’UNESCO dello scorso anno mette in evidenza la carenza di docenti non solo nei Paesi in via di sviluppo ma anche negli Stati Uniti, in Spagna, in Svezia, in Italia. Il recente concorso per il reclutamento di docenti, seppur con diverse problematiche, è un primo passo per affrontare almeno parte dei problemi. Occorrerà, per il futuro, una migliore capacità di programmazione delle politiche del personale, al fine di garantire una adeguata consistenza del corpo docente e limitare, se non azzerare, il fenomeno del precariato, che da troppi anni affligge il mondo dell’insegnamento ed è causa di demotivazione per i docenti e deterioramento del loro status professionale.

La professionalità dei docenti deve, invece, essere assicurata da un’adeguata formazione iniziale e da una rigorosa selezione per l’accesso alla professione, ma non può limitarsi a questo. In un mondo in evoluzione sempre più veloce, i saperi diventano obsoleti nel volgere di pochi anni. È indispensabile un continuo aggiornamento professionale, richiesto oggi anche dall’introduzione massiccia di nuove tecnologie nella vita quotidiana dei giovani.
In particolare, le recenti tecnologie della comunicazione presentano aspetti positivi e promettono enormi potenzialità, ma suscitano anche timori e inquietudini. Sono mezzi potenti e utili, ma che richiedono l’impegno dei maestri, degli educatori e delle famiglie nell’insegnare il corretto utilizzo di quelle tecnologie, affinché i più giovani possano trarne i vantaggi che esse hanno da offrire, evitandone i pericoli. Ovviamente quando parlo di educazione non mi riferisco al lato tecnico, su quello le studentesse e gli studenti ne sanno molto più di noi!

La scuola del futuro – anzi, del presente – deve dotarsi essa stessa delle moderne tecnologie, facendole diventare strumenti di uso quotidiano, evitando tuttavia l’illusione che esse da sole possano sostituire il ruolo del docente. Purtroppo, troppo spesso si ha l’impressione, forse derivante da distorsioni mediatiche, che la scuola sia relegata a ricoprire un ruolo marginale nella società contemporanea. Non può e non deve esser così. Sarebbe un errore gravissimo pensare che il mondo dell’educazione e della cultura ricoprano un ruolo di secondo piano.

Istruzione, formazione e cultura devono essere considerate prioritarie e poste centro degli obiettivi strategici per lo sviluppo civile e morale del Paese e per una crescita economica durevole, come già alcuni atti del governo Letta hanno iniziato a fare.
Questa è la strada che dobbiamo seguire. Grazie.