Colloquio telefonico con Lirio Abbate. Vicinanza e solidarietà, certo che non si farà intimidire

Il Presidente del Senato, Pietro Grasso, ha raggiunto telefonicamente il giornalista Lirio Abbate, per esprimergli tutta la sua vicinanza e la sua solidarietà, dopo le nuove minacce di morte.

”Conosco e stimo Lirio Abbate – afferma il Presidente Grasso – da quando era un giovane cronista dell’Ansa di Palermo. Già allora Leoluca Bagarella lo minacciò di morte e venne sventato un attentato davanti la sua casa di Palermo. Altre minacce, che lo costringono a una vita sotto tutela, sono arrivate nel 2007 dopo la pubblicazione del libro “I complici”, scritto con Peter Gomez. Oggi si scopre che nuove e pesanti minacce lo colpiscono per aver raccontato la mappa aggiornata del potere criminale di Roma”.

”A Lirio che è un giornalista coraggioso e sono certo che non si farà intimidire – conclude il Presidente del Senato – ho espresso tutta la mia vicinanza e la mia solidarietà”.

Il circuito delle mafie

Intervento alla presentazione del numero speciale di Limes 

Cari colleghi, gentili ospiti,

è per me un grande piacere ospitare nella Sala Zuccari del Senato la presentazione del numero di novembre della Rivista Italiana di Geopolitica Limes, che affronta un tema di estrema attualità al quale, con entusiasmo, anche io ho voluto offrire un contributo attraverso un’intervista.
Vorrei ringraziare il direttore della rivista Lucio Caracciolo per l’impegno e la passione con cui ha ideato e guida questa opera editoriale che rappresenta un punto di riferimento innovativo e fondamentale per gli studi internazionali e geopolitici. Saluto i relatori di questo incontro, ringraziandoli per aver voluto condividere oggi con noi la loro esperienza e loro idee sulla lotta alle mafie in Italia e nel mondo. Mi fa molto piacere in particolare la presenza dell’On. Bindi che ha assunto il delicato incarico di presiedere la Commissione parlamentare antimafia, a cui rivolgo i miei migliori auguri di buon lavoro.

Il titolo che avete scelto per questo numero di Limes – il circuito delle mafie – illumina una accezione moderna del fenomeno mafioso che non si esaurisce in una questione di ordine pubblico interna agli Stati ma ha invece un carattere molto più ampio: politico, geopolitico, economico. E globale. Le mafie influenzano i rapporti fra gli Stati, corrodono la democrazia, inquinano l’economia.
Il modello mafioso italiano, che si è radicato ed esteso in Italia al di fuori dalle regioni di origine e in diverse aree del globo, nasce da un intreccio fra crimine, società e territorio ed è storicamente connotato da uno specifico rapporto con la politica e l’amministrazione pubblica. Altri fenomeni criminali organizzati nati in altri paesi hanno caratteri diversi e non sempre sono così efficienti nel penetrare i territori e la politica ma a prescindere dalle specificità è essenziale osservare lo sviluppo della criminalità organizzata transnazionale in termini globali.

L’esperienza internazionale rimanda casi in cui le strutture mafiose sono giunte ad impossessarsi di interi stati: quelli che definiamo “Stati-mafia”. In altri casi le mafie influenzano in profondità la società, la politica, l’economia e convivono con le istituzioni come parassiti. Ancora altrove l’azione della criminalità organizzata ha sgretolato le strutture dello Stato dando vita a “Stati falliti”, incapaci di controllare il territorio, imporre la legge, controllare i conflitti.
I fenomeni criminali cambiano ad una velocità inusitata. E’ una conferma della loro straordinaria capacità adattiva ai cambiamenti del mondo esterno, alla globalizzazione, che evolve a ritmo frenetico. La globalizzazione dell’economia ha cambiato il volto al crimine organizzato che è sempre più simile ad un’impresa commerciale transnazionale, caratterizzata dal multi-traffico, cioè dalla fornitura simultanea di diverse tipologie di beni e servizi illegali. La criminalità organizzata ha raggiunto proporzioni macroeconomiche.

Per combattere l’espandersi delle realtà illecite è importante che gli Stati adottino norme e strategie comuni per un coordinato sviluppo delle indagini e delle politiche. Non basta fermarsi alle operazioni di polizia congiunte e ai procedimenti penali collegati, che pure sono strategiche per l’identificazione e la localizzazione delle organizzazioni criminali. Bisogna andare oltre. Alla globalizzazione del crimine dobbiamo opporre quella della legalità e per fare questo serve innanzitutto armonizzazione legislativa delle regolazioni nazionali.
E’ compito delle istituzioni riaffermare il ruolo e la forza della decisione politica, perseguendo politiche pubbliche capaci di operare su quelle condizioni sociali, economiche e culturali che maggiormente favoriscono il radicamento delle mafie.

In Italia, ci sono molti cambiamenti in atto che tendono a colpire la mafia non solo nella sua dimensione criminale, ma anche in quella sociale. Mi riferisco ad esempio ai movimenti dei commercianti e dei professionisti contro il pizzo che rappresentano l’inizio di una rivoluzione culturale di portata straordinaria.
Vorrei ricordare, in proposito, il protocollo di legalità, sottoscritto nel 2010 tra il Ministero dell’interno e la Confindustria, poi rinnovato nel 2012, che, proprio attraverso una fattuale collaborazione tra imprese e autorità pubbliche finalizzata all’attivazione di misure di salvaguardia atte a contrastare l’azione delle organizzazioni criminali nell’economia, ha segnato un momento di rilevante evoluzione nella garanzia della libertà di impresa.

Ma anche su questo piano dobbiamo saper andare oltre. La lotta alla mafia non può essere solo una battaglia di ideali; dobbiamo intervenire sulle condizioni di sviluppo, sulla capacità dei territori locali di attrarre investimenti e risorse professionali. Se i giovani sono educati alla legalità, ma poi sono costretti a lasciare le regioni di origine, perché lì non trovano concrete opportunità di inserimento, si crea un circuito vizioso in cui rimane solo chi in qualche modo viene a patti con la criminalità organizzata. Dobbiamo proseguire con coraggio nei programmi educativi contro la mafia, operando innanzitutto sulla famiglia e sulla scuola, che rappresentano gli ambiti di intervento prioritari. Come diceva Antonio Caponnetto: “La mafia teme la scuola più della giustizia” perché l’istruzione taglia l’erba sotto i piedi della cultura mafiosa”.

La mafia si può e si deve sconfiggere. Questa deve essere la nostra comune convinzione. Se ci crediamo fortemente avremo una possibilità di sconfiggere alla radice il fenomeno.
Per farlo occorrono una serie di strumenti. In primo luogo risorse materiali: soldi e uomini da dedicare alla repressione, alla bonifica e alla riconquista del territorio. Poi, soprattutto, bisogna rafforzare le istituzioni adattando la normativa anche a tutti i fenomeni connessi alla mafia. La mafia attecchisce laddove lo Stato è debole e non è in grado di soddisfare i bisogni dei cittadini. Lo constatiamo in particolare a livello internazionale dove i processi di formazione di uno Stato mafia passano per eventi traumatici, profondi conflitti interni che determinano una conseguente disgregazione dello Stato.

Il dovere delle istituzioni è quello di creare valide alternative all’azione criminale, dobbiamo rendere la mafia superflua, spezzando quel consenso che la necessità sociale genera nei suoi confronti. Questo sarà possibile solo ricostruendo quel rapporto di fiducia tra politica e cittadini attraverso la cura dell’interesse collettivo.

C’è poi la questione etica, che oggi più che mai appare centrale. La crisi della legalità è innanzitutto una crisi dell’etica pubblica e privata: nasce infatti dal radicamento, e prima ancora dall’accettazione sociale, di comportamenti quali la corruzione, il lavoro nero, l’evasione e l’elusione fiscale, l’economia sommersa. Non possiamo più tollerare che il bene comune venga quotidianamente offeso dalla ricerca a tutti i costi del beneficio individuale. Solo se mossi da questo senso di responsabilità sociale prima ancora che professionale, potremmo liberarci da quelle catene e dai vincoli che il radicamento di comportamenti scorretti sul piano etico quotidianamente pone sul nostro cammino.
Finché la mafia esiste, bisogna parlarne, discuterne, reagire. Per contrastare la mafia è indispensabile avere la percezione esatta della sua pericolosità e questa coscienza si ha soltanto se si cerca di comprendere appieno il fenomeno e le sue ragioni sociali, culturali, economiche.

Per parte mia non posso dimenticare 43 anni di vita professionale dedicati alla lotta contro la mafia, alla tutela della legalità, alla difesa dei diritti fondamentali dei cittadini. Oggi come politico e come Presidente del Senato sono fermamente convinto che il futuro delle mafie dipende dall’impegno della politica e che il futuro del Paese dipende dalla capacità che avremo di sanare un vuoto profondo di cui la politica soffre verso i cittadini, di comprensione, rappresentatività e di legittimazione etica. Questo il mio impegno, questa la mia speranza.

Le dipendenze tra le cure e l’abbandono

Cari Colleghi,
Autorità,
Signore e Signori,

è per me un grande piacere e un onore ospitare nella prestigiosa Sala Capitolare della Biblioteca del Senato questo momento di confronto, che sollecita l’attenzione di tutti noi su un tema estremamente importante e delicato sia sul piano istituzionale che – soprattutto – su quello sociale.

Le dipendenze sono un fenomeno di grande attualità, una piaga della società moderna che si è manifestata come una conseguenza negativa, una sorta di altra faccia della medaglia del boom economico della seconda metà del secolo scorso e che poi è dilagata nel tempo e nello spazio.

Quando parliamo di dipendenze il nostro pensiero va subito alle dipendenze dalle droghe, alle tossicodipendenze purtroppo ancora diffuse sia nel nostro paese che nel mondo. Ma ci sono anche forme di dipendenza più subdole, meno visibili, quelle cosiddette comportamentali, che tuttavia hanno un impatto sociale altrettanto devastante. Basti pensare al fumo, all’alcol, al gioco d’azzardo, ma anche alla dipendenza dal cibo, e alle nuove forme di dipendenza, come quelle da shopping, da fitness, da internet. Bisogni compulsivi e perennemente insoddisfatti.

Sono tutti fenomeni che partono come comportamenti liberi o addirittura in certi casi trasgressivi, ma che poi finiscono per togliere la libertà all’individuo, che affievoliscono e spesso annullano la sua volontà, conducendolo a forme di schiavitù fisica o comportamentale. Il prezzo che la società paga per questa piaga è altissimo, in termini innanzitutto di vite umane, ma anche di costi per l’assistenza e per il recupero delle vittime.

A questo si aggiunge un altro aspetto di grande rilevanza: le persone colpite da “dipendenza”, proprio perché annullate o affievolite nella loro volontà, costituiscono un bacino di “utenza” per la criminalità organizzata, che non a caso trae molti dei suoi proventi illeciti dalla gestione del traffico di sostanze stupefacenti e dal mercato del gioco d’azzardo. La lotta contro le dipendenze diventa allora anche lotta contro la criminalità organizzata che ne contribuisce alla loro diffusione.

Non dobbiamo poi dimenticare che la propensione ai comportamenti compulsivi, e soprattutto alla schiavitù delle sostanze stupefacenti coinvolge in particolare la parte giovanile della popolazione. Occorre quindi parlare ai giovani, confrontandosi con i programmi educativi, con le scelte culturali di ogni Paese sul consumo di stupefacenti e con l’influenza che tali scelte esercitano sui comportamenti sociali.

Sono cambiate le dipendenze, sono cambiate le sostanze, le droghe, ed è ormai urgente e necessario rivedere i nostri parametri, intercettare le nuove richieste di aiuto, aggiornare i servizi, cercare nuovi piani di intervento che mettano al centro terapie incentrate sulla “persona”, sui suoi bisogni specifici, sulle sue fragilità individuali ma anche, e soprattutto, sui punti di forza che sono presenti in ciascuno. Allargare il concetto di “cura” da una ambito farmacologico ad un più ampio “prendersi cura” dell’altro.
Sono sicuro che l’incontro di oggi potrà contribuire ad un’attenta analisi del fenomeno e all’elaborazione di proposte e strategie di intervento meditate e condivise.
Per questo, desidero rinnovare i miei sinceri ringraziamenti a quanti hanno collaborato alla realizzazione di questo evento e in particolare ad Acudipa per il costante, prezioso e silenzioso impegno per la cura delle dipendenze patologiche.

Più informazione, meno democrazia?

Discorso del Presidente Grasso in occasione della cerimonia per i 25 anni dell’agenzia di stampa Dire

Autorità, gentili ospiti,

è per me motivo di vivo piacere essere qui oggi per i primi 25 anni di DIRE, una delle agenzie di stampa nazionali più autorevoli e rispettate. L’incontro di oggi è dedicato a un tema straordinariamente attuale, quello del rapporto tra informazione e democrazia.
L’informazione è il presupposto della conoscenza e della formazione di un’opinione e, dunque, una condizione essenziale per vivere in democrazia. Nutre il dibattito e la formulazione delle idee, è l’anima del vivere civile. Solo un cittadino informato può compiere scelte consapevoli, esercitare i propri diritti e partecipare al processo decisionale.

Oggi, grazie anche alle nuove tecnologie, disponiamo di un’enorme quantità d’informazioni e in tempo quasi reale. Ma la quantità e la rapidità delle notizie non ne garantiscono in alcun modo il livello qualitativo. Se poca informazione non consente la comprensione della realtà, allo stesso modo un’eccessiva quantità di notizie può uccidere l’informazione senza generare conoscenza. Non è di informazione quantitativa, di rumore, che la democrazia ha bisogno. Non di un fiume di notizie spesso addirittura superiore a quelle che riusciamo ad assimilare e gestire. Non di una rappresentazione riduttiva, superficiale e manipolatoria della complessità della realtà. Ricordo che ci sono giornali che hanno rubriche dedicate alle “notizie che non lo erano”, ovvero all’analisi degli errori dettati da superficialità e ricerca spasmodica della velocità invece che della verifica e dell’accuratezza.

La democrazia richiede un giornalismo responsabile. È giornalismo responsabile quello che soddisfa il diritto del cittadino a sapere e conoscere, senza trascurare i diritti con esso eventualmente confliggenti e avendo cura dei soggetti deboli coinvolti ed esposti dall’informazione.
Il sistema dei mezzi di informazione dovrebbe riconoscere e rispettare una precisa gerarchia di valori. L’etica e la moralità sono per il giornalismo un dovere assoluto, perché è diritto dei cittadini non solo e non tanto l’essere informati, ma soprattutto l’essere correttamente informati.
Perché ciò sia possibile è necessario che le notizie siano “trattate”: un fatto concreto va inserito in un quadro di riferimenti ampi e complessivi, con un’analisi approfondita dei protagonisti, dei presupposti e delle conseguenze. Gli interessi che lo caratterizzano devono essere identificati e valutati in relazione all’interesse generale. Sono questi gli aspetti che qualificano l’informazione nel senso più alto e autentico del termine.

Le nuove tecnologie agevolano senz’altro la diffusione dell’informazione, ma hanno portato con sé anche un proliferare di iniziative spesso discutibili per qualità e tecnica, oltre che per attendibilità. Senz’altro internet e il digitale favoriscono l’affermazione di un modello di giornalismo che fa della sintesi e dell’immediatezza la propria tecnica di lavoro e che appare centrato su un eterno presente.

Se ne è parlato tante volte negli anni: il mondo della politica e dell’informazione si avvitano spesso su loro stessi in un continuo rimando di polemiche che durano lo spazio di un mattino, e delle quali non resta traccia perché inconsistenti, utili solo come segnaposto per i protagonisti: polemizzo quindi esisto. Anche nei processi decisionali spesso si produce un effetto distorsivo, che anni fa in una “bustina di Minerva” Umberto Eco definì “La messa in scena dell’esitazione”. Prima di prendere una decisione, soprattutto se da questa dipendono conseguenze importanti, è giusto, lecito, salutare cambiare idea a seguito di analisi, approfondimenti, confronti. Se però la vanità umana e la “fame di notizie” porta a dare traccia di ciascun passaggio si finisce per sembrare incoerenti e inattendibili.

Cito la conclusione del ragionamento di Eco:
“Il guaio di questo Stil Novo non è che i politici vengono scambiati per persone inattendibili, perché questo sarebbe ancora il minor male. E’ che, visto che questa pratica viene premiata con l’esposizione massmediatica, si abituino a pensare che l’esposizione delle loro incertezze sia il risultato a cui aspiravano; e si dimentichino pertanto che il risultato doveva essere la decisione finale. La quale, a questo punto, può essere rimandata all’infinito, visto che quella che viene premiata è l’esitazione”.

Eppure, questi stessi strumenti di comunicazione si prestano contemporaneamente al rafforzamento di un altro modello di giornalismo, un giornalismo orientato all’analisi accurata e documentata dei fatti sociali e politici, in grado di stimolare la capacità critica dei destinatari.
Un giornalismo professionale e qualificato, che esprime autorevolezza e credibilità nel lavoro di ogni giorno, può recuperare prestigio e funzione sociale e trovare di nuovo un ruolo primario nel gioco democratico. Un’informazione corretta e ponderata consente, infatti, ai cittadini di acquisire il ruolo e la forza di opinione pubblica, mettendoli in condizione di concorrere a determinare, orientare e modificare l’indirizzo politico. L’informazione arricchisce la democrazia.

Da parte delle Istituzioni e della politica l’impegno deve essere improntato alla trasparenza, a garantire le risposte, l’accesso ai dati e agli open data, a fornire tutti gli strumenti per un’informazione corretta e accurata. Da parte di chi fa informazione il dovere della verifica e della correttezza si dovrà misurare anche con il diritto all’oblio, che in questa nostra era risulta forse il più difficile da garantire.

E dunque oggi più che mai dobbiamo tenere a mente l’insegnamento di Joseph Pulitzer: “Un’opinione pubblica bene informata è la nostra corte suprema. Perché ad essa ci si può sempre appellare contro le pubbliche ingiustizie, la corruzione, l’indifferenza popolare o gli errori del governo; una stampa onesta è lo strumento efficace di un simile appello”.
Grazie.

“Il pozzo delle meraviglie” di Giuseppe Pitrè

Autorità, cari amici, signori e signore,

è per me un grande piacere essere qui oggi in Sala Zuccari, per la presentazione dell’opera di Giuseppe Pitrè “Il pozzo delle meraviglie”.

Ringrazio gli organizzatori dell’evento, i relatori e l’attore Mimmo Cuticchio, che interpreterà alcune delle fiabe del libro.

Giuseppe Pitrè, medico, storico, letterato, filologo, ha saputo fare della sua passione per le tradizioni siciliane un’arte. Ha avuto il merito di riconoscere il valore umano e culturale della tradizione orale del popolo siciliano e della sua vita contadina.

Proprio per questo può essere considerato il fondatore della scienza folcloristica in Italia (quella che lui chiamava demopsicologia – la psicologia del popolo). La sua passione diede l’impulso a una raccolta – senza precedenti – di canti e racconti, usi e costumi, proverbi, fiabe e filastrocche, usanze religiose e superstiziose, nozioni di medicina popolare, leggende e costumi legati alla vita familiare e agricola.

Tutta questa mole di dati – raccolti secondo i canoni degli studi demologici, traendoli direttamente dalla viva realtà e dalla voce di contadini analfabeti – furono, in seguito, ordinati e sistemati con metodo, traendone le corrispondenze e le somiglianza con le tradizioni di altri luoghi. Al punto che il suo lavoro viene oggi considerato la base degli studi folcloristici in Italia e Calvino, nella sua raccolta di 200 fiabe italiane, ne inserì 40 del corpus di quelle raccontate da Pitrè, che lui definiva “l’optimum dell’arte di raccontare a voce”.
I narratori di queste fiabe sono in realtà delle narratrici, “perché le persone da cui ho cercate e d avute tante tradizioni, sono state quasi tutte donne”. Le fonti principali di ispirazione sono state la madre, definita “la mia Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane”, e il contatto con i ceti più umili, facilitato dalla sua professione di medico. Uno studio che ha saputo unire il rigore scientifico della ricerca antropologica, con l’affettuoso rispetto che l’uomo ha verso la cultura della propria madre, cultura che merita di essere custodita e tramandata.

Nell’introduzione si racconta che era diventato famoso ai suoi tempi perché nei viaggi in calesse tra un paziente e l’altro annotava quello che gli era stato appena raccontato, scrisse interi libri in quello che chiamava “il mio studio viaggiante”.
Alcune cose mi hanno colpito nello sfogliare questa raccolta: la sua empatia e ammirazione per la schiettezza della gente comune, che anche se analfabeta sa spesso più cose dei dotti, come scrive lui stesso: “vi sono luoghi che non si comprendono e si crede di comprendere; i dotti almanaccano e si bisticciano; il volgo mette fuori un nome, e da quel nome esce improvvisamente una luce che piega le origini e la storia del luogo stesso. V0è in quel di Cefalù un’Acqua detta di lu Duca. Chi fu questo Duca che lascio il suo titolo a quella fonte? Dimandatene al popolo, che ve lo saprà dire; gli uomini di lettere non hanno cercato saperlo”.

Il suo amore per queste fiabe, che sono tutte storie popolari di sopravvivenza, lo spinge però, al contrario, a voler educare i colti affinché potessero capirle, inserendo nelle sue raccolte una sorta di Grammatica del dialetto.
Pitrè, che da giovane si arruolò tra i garibaldini e viaggiò di porto in porto da Marsiglia, a Genova, a Napoli, si avvicinò anche alla politica pur considerandosi estraneo ad essa. Fu un Consigliere al Comune di Palermo ma non volle mai diventare Sindaco, proposta offertagli da ogni parte politica. Fu un rappresentante amato proprio per le sue origini e il suo essere sempre dalla parte del popolo.
Era un instancabile studioso e amante della sua terra. Della nostra terra. Per tutti i suoi meriti – tra cui la creazione del Museo di etnografia siciliana che porta il suo nome – nel 1914 Pitrè fu nominato senatore del Regno un anno prima di morire.

Ho chiesto di rivedere gli atti del suo breve passaggio in Senato, e voglio citare qui alcune delle parole che gli vennero tributate in Aula dopo la sua morte:
“Dirò soltanto che Pitrè della sua opera ebbe il premio anche durante la vita nel rispetto da cui era circondato dalla nativa città. Nessun uomo è stato più popolare di lui, nessun uomo è stato più di lui benvoluto. Egli sapeva questo e se ne mostrava quasi dolente, tanta era la sua modestia. Non ambì onori, egli non chiese mai nulla, non fece altro che lavorare e studiare. […]
E da quella raccolta multanime e multiforme balzano nette, recise, indistruttibili le caratteristiche dell’anima siciliana. (Approvazioni). Or la voce di quest’uomo, di questo animatore e suscitatore di vita, è spenta; ma noi considereremo l’opera sua come il sacrario in cui è raccolta la essenza ideale, lo spirito immortale della nostra stirpe, e ricorderemo che di questi elementi di gioia e di vita ci siamo nutriti nei primi anni della nostra giovinezza, onde ci sarà più acuto il rimpianto, più amara la nostalgia in questa nostra faticata maturità. (Applausi vivissimi e prolungati).”

Oggi, dunque, con orgoglio e commozione sono qui, come siciliano e come Presidente del Senato, per ricordare e celebrare la vita e l’opera di un siciliano, e senatore, a cui noi tutti dobbiamo molto.
Grazie.

Aung San Suu Kyi al Senato

Cari colleghi, gentili ospiti,

è per me un piacere e un onore accogliere in Senato la signora Aung San Suu Kyi.
La sua è una storia umana e politica che non ha bisogno di presentazioni, tanto è stata conosciuta, vissuta e partecipata anche in Italia. Sono tanti i motivi che hanno fatto di lei, signora San Suu Kyi, un punto di riferimento importante per tutti, soprattutto per i più giovani. Il suo è un esempio di forza non violenta, di amore per il proprio Paese e per il proprio popolo, di ferma determinazione, di gentilezza rivoluzionaria. Le dichiarazioni che abbiamo potuto leggere in questi giorni sono in questo senso paradigmatiche.

Due mi hanno colpito particolarmente, e credo che in queste si possa racchiudere tutto il senso della sua eccezionalità: “Ho scelto una strada e l’ho seguita. Tutto qui. La mia è stata una vita di scelte, non di sacrifici”. L’altra, detta in risposta a chi le ha chiesto se sentisse il peso dell’eredità di suo padre, il principale artefice dell’indipendenza del Paese ucciso quando lei aveva solo due anni, è lapidaria: “Non sento il peso del passato, sento quello del futuro”.

Dette da lei, che per quasi vent’anni è stata privata della libertà e degli affetti più intimi, queste frasi acquistano il senso di una lezione di vita, di testimonianza per tutti coloro che sono chiamati a prendere delle decisioni. Il coraggio di seguire le proprie scelte, il senso di responsabilità verso i giovani, verso il futuro.
Anche durante gli anni bui degli arresti domiciliari, la sua voce è stata per il mondo intero un faro sui diritti umani in Birmania. Una voce forte, coraggiosa e coerente, che ha posto il tema della tutela dei diritti umani e delle libertà democratiche in Myanmar all’attenzione della comunità internazionale.

Il Myanmar è per l’Italia un interlocutore importante, con il quale il nostro Paese ha sempre mantenuto un dialogo costruttivo e consapevole. L’assunzione da parte del Myanmar della Presidenza dell’Associazione delle nazioni dell’Asia Sud-Orientale – prevista per il 2014, ovvero nello stesso anno in cui l’Italia avrà la Presidenza di turno del Consiglio dell’Unione europea – non potrà che rafforzare ulteriormente i rapporti bilaterali, anche in ambito economico e commerciale.
Dobbiamo però ricordare che non può esserci sviluppo economico senza rispetto dei diritti fondamentali, senza tutela della dignità umana. Non c’è vera crescita senza democrazia. Se non si riducono le disuguaglianze sociali e non si tutelano i diritti e le libertà individuali, nella sfera privata così come in quella sociale e politica, lo sviluppo di un Paese resta fragile e precario. Crescita non è soltanto produzione di reddito e di ricchezza, ma soprattutto istruzione, formazione, assistenza sanitaria, libertà di espressione e di informazione e partecipazione ai processi decisionali.

Dal 2011 i segnali di transizione del Myanmar verso un regime democratico sono sempre più numerosi e incoraggianti. Alcune misure sono state già approvate ed è ora al centro del dibattito politico una revisione della costituzione vigente.

In Italia questo processo è seguito con attenzione tanto dall’opinione pubblica e dalla società civile quanto dalle istituzioni. L’Italia non ha mai cessato di dialogare con il suo Paese e intende accompagnarlo verso un futuro di prosperità, diritti e democrazia.
Proprio la settimana scorsa il Senato ha approvato all’unanimità un ordine del giorno con il quale si impegna il Governo a garantire sostegno, in Unione Europea e nelle sedi internazionali, all’ulteriore evoluzione del processo democratico in Myanmar, anche nella prospettiva delle elezioni politiche del 2015. Noi auspichiamo che si giunga ad una rapida maturazione in Myanmar di una democrazia sostanziale, in cui ciascuno possa direttamente contribuire attraverso l’impegno politico al futuro del Paese.

Le sfide che il Myanmar è chiamato ad affrontare sono complesse. La duplice transizione, dalla chiusura economica agli scambi commerciali internazionali, e dal regime militare a un governo democratico, richiede tempo, impegno e genuino sostegno internazionale.

Il Senato è pronto a dare il proprio contributo perché i diritti fondamentali, civili e politici, del popolo birmano siano pienamente riconosciuti, tutelati e promossi, e perché la riconciliazione, la pace prendano il posto del conflitto. Sono certo che l’incontro di oggi e le sue parole potranno offrire molti spunti di riflessione, e saranno importanti anche per noi.

Lei ci chiede di usare la nostra libertà per aiutare la vostra, così giovane e fragile. E io sono qui oggi per garantirle che il sostegno del Senato italiano e di tutta l’Italia al suo popolo non mancherà mai.
Grazie.

Viaggio istituzionale negli USA

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Il Presidente del Senato sarà nei prossimi giorni a New York City e a Washington per una serie di impegni istituzionali e di incontri bilaterali con le più alte cariche delle Istituzioni e con la comunità italiana in America.

Tra gli incontri previsti a New York quelli con il Segretario Generale ONU, Ban Ki Moon, che il presidente aveva ricevuto a Palazzo Giustiniani lo scorso aprile, con il presidente dell’Assemblea Generale ONU, John Ashe, e con la comunità italiana a New York. A Washington il presidente Grasso incontrerà Nancy Pelosi, leader del Partito Democratico presso la Camera dei rappresentanti, il Presidente del Senato americano, Patrick J. Leahy, i membri della delegazione Italo Americana al Congresso, il direttore dell’FBI, James Comey.

Durante la visita il presidente terrà una Lectio magistralis alla Georgetown University dal titolo “Identità italiana e Europa unita: un’utopia possibile” e parteciperà all’incontro annuale della NIAF (National Italian American Foundation).

Incontro con il Presidente Abu Mazen

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Oggi il Presidente del Senato ha ricevuto a Palazzo Giustiniani il Presidente della Palestina, Abu Mazen. Tema dell’incontro la situazione politica e di sicurezza del Medio Oriente, il processo di pace e il dialogo israelo-palestinese.

“Il recente avvio di colloqui fra le due parti ci da la speranza di una pace giusta e duratura”, ha detto il presidente Grasso, sottolineando i sentimenti di amicizia del popolo italiano per il popolo della società civile palestinese.

“Ritengo che sia essenziale in questa fase evitare da entrambe le parti forzature che potrebbero pregiudicare un processo che è vitale per l’intera comunità internazionale. L’Italia si pone nella prospettiva di aiutare il processo di pace e favorire le soluzioni diplomatiche per risolvere i conflitti nelle aree mediorientali e di proseguire i rapporti di cooperazione e di aiuto al popolo palestinese”, ha concluso il Presidente del Senato.

Incontro con il Presidente Abu Mazen

Giovedì 17 ottobre il Presidente del Senato, Pietro Grasso, incontrerà il Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Abu Mazen. Il colloquio si svolgerà a Palazzo Giustiniani, alle ore 11,30.

Ottavo anniversario omicidio Francesco Fortugno

“Oggi ricorre l’ottavo anniversario dell’omicidio di Francesco Fortugno. In questa dolorosa circostanza desidero rinnovare la memoria del suo sacrificio e inviare il mio commosso pensiero ai familiari e a tutti coloro che lo hanno amato e apprezzato”. Così scrive il Presidente del Senato, Pietro Grasso, in un messaggio.

“Questo barbaro assassinio – prosegue il Presidente Grasso – ha suscitato una reazione senza precedenti, segnando una svolta nei rapporti tra società civile e criminalità organizzata. Migliaia di giovani calabresi sono scesi in piazza a manifestare, reagendo con forza contro la violenza mafiosa e rivendicando il proprio diritto a vivere in una terra libera e solidale”.

“La battaglia contro la criminalità organizzata non potrà mai essere vinta dalle sole forze della Magistratura e della Polizia. E’ necessario promuovere, soprattutto tra le nuove generazioni, – continua il Presidente del Senato – la cultura della legalità e della cittadinanza attiva. Il crescente e coraggioso impegno della popolazione, e dei giovani in particolare, contro l’omertà e la sopraffazione è un segnale importante che rafforza la nostra fiducia nel futuro”.

“L’esempio e il ricordo di Francesco Fortugno – conclude il Presidente Grasso – accompagnano la Calabria e l’Italia tutta nel cammino verso la legalità, la giustizia e la sicurezza”.