Storie di sangue, amici e fantasmi

Il racconto della presentazione del libro a Roma, di Valentina Pigliautile per il Corriere del Popolo

Ieri,  davanti alla Feltrinelli di Via Appia, dopo i minuti di attesa in fila e i controlli di routine fatti dagli uomini della sicurezza, ho maturato l’intima convinzione che fosse doveroso scrivere qualcosa riguardo a ciò che avrei ascoltato, fossero anche poche righe. E questo sebbene, di fronte a volti celebri della politica come il Presidente del Senato Grasso, giornalisti come Lirio Abbate e scrittori quali Roberto Saviano, sia facile sentirsi fuori luogo e  apparire dispensatori di luoghi comuni e di sterili complimenti di circostanza.

Ma “Storie di sangue, amici e fantasmi”scritto da Pietro Grasso, a venticinque anni dalle stragi di Capaci e via d’Amelio, è un libro a misura d’uomo, non d’eroe. Perché esseri umani, in carne d’ossa, furono vittime del sangue che si versò a Palermo in quegli anni e perché suoi  amici, i magistrati, gli avvocati, i poliziotti, gli uomini della scorta, le madri di famiglia, i preti e i giornalisti che pagarono con la vita.

Persone, si legge nelle prime pagine, che rientravano a casa la sera dalle loro famiglie, programmavano le vacanze con gli amici, e che da un giorno all’altro sono mancate per sempre, lasciando sedie vuote a tavola, a pranzo, a cena,  nelle occasioni di festa e in quelle tristi. Il dovere storico però è di tornare nel venticinquennale della loro morte, a celebrarne la vita e a trasformare le sensazioni di un singolo in conoscenza collettiva, slancio etico e rilancio morale contro l’indifferenza e la rassegnazione di chi fa finta di non sapere. Di tutte queste storie, racconta Lirio Abbate, Pietro Grasso è l’anello di collegamento: lui si occupò del delitto di Piersanti Mattarella, lui come giudice a latere nel primo Maxiprocesso a Cosa Nostra, inventò soluzioni innovative per problemi mai presentatisi prima, come verbali d’udienza da redigere in tempo reale o l’appello nominativo degli imputati da trasformare in un registro delle presenze. Anche lui quel tragico 23 maggio, sarebbe passato sul tratto di autostrada che collegava Punta Raisi a Palermo, imbottito di cinquecento chili di tritolo, se solo il giorno prima Falcone non lo avesse chiamato per avvertirlo del suo ritorno con un giorno di ritardo.

Queste duecentotrentaquattro pagine hanno, come ha spiegato Saviano, due vie d’accesso: la prima analitica, di sintesi di temi che sono rimasti centrali nel dibattito avvenuto negli anni successivi, e la seconda emozionale. E’ il diario di un uomo che mette a disposizione di tutti i ragazzi nati dopo il 1992 gli ideali di una vita e rende omaggio ai suoi due compagni d’avventura, Giovanni e Paolo, con due lettere, poste rispettivamente all’inizio e alla fine del libro.

Lo strano”, lo definisce l’autore, contribuire a costruire il loro mito e al contempo demitizzare i simboli che sono diventati, amalgamando ai racconti cruenti di lotta alla mafia, aneddoti  di vita quotidiana; di quando, ad esempio, Giovanni decideva di venire a cena e chiedeva la minestra di riso e broccoli “perché era periodo”o di quando Paolo lanciava molliche per gioco verso i colleghi più seriosi che fossero a tavola . Da questi racconti, appaiono per quel che erano: non supereroi dotati di poteri soprannaturali, ma dei fuoriclasse d’umanità alimentati di una linfa, vitale quanto rara: il senso dello Stato. Lo stesso senso per il quale vinsero grandi ostacoli come l’organizzazione in pochi mesi di un processo che fu per la prima volta a gabbie piene, a telecamere accese e che si svolse nel rispetto del diritto, smascherando chiaramente i volti di Cosa Nostra; il  senso dello Stato, per cui sopportarono l’isolamento di giornate blindate in camere di sicurezza, le ferite per le insinuazioni di chi li accusava di presenzialismo negli studi tv, il senso di colpa per il coinvolgimento dei propri familiari e degli uomini della scorta e la consapevolezza di essere, come detto da  Cassarà “cadaveri che camminano”. Le parole dell’uomo di Stato lasciano spazio alla spontaneità del protagonista e del testimone diretto, dell’uomo che cela tra le righe, indirizzato ai suoi amici, un doloroso “Perché voi e non io?” Sta di fatto che diversi cittadini cominciano a voler riprendere in mano le terre confiscate ai boss mafiosi, sta di fatto che molti giornalisti denunciano il malaffare accettando la scorta e che intere famiglie rifiutano di comprare dove pagano il pizzo: la strenua marcia verso la legalità iniziata venticinque anni fa, continua e non può essere fermata.

Uscendo dalla Feltrinelli di Via Appia, dopo un’ora di dibattito tutto è avvolto da un clima di sospensione misto a commozione: quella gente che era entrata perché curiosa di sentir parlare di campioni d’eroismo lontani dalle loro vite, li ha sentiti incredibilmente vicini a sé. Queste sono storie di sangue, amici e fantasmi che fanno sentire coloro che le leggono, più vivi, più  cittadini. Più umani.

 

Dalle aule parlamentari alle aule di scuola. Lezioni di Costituzione 2017

Vice Presidente Baldelli, care ragazzi, care ragazzi,

è con vera gioia che vi accolgo nell’Aula del Senato per la cerimonia conclusiva di un progetto a cui teniamo molto e che siamo orgogliosi di poter ogni anno rinnovare. “Lezioni di Costituzione” è giunto alla sua decima edizione, un traguardo importante che testimonia il profondo legame che esiste tra il mondo della scuola e il Parlamento. È una collaborazione possibile in virtù della professionalità e della dedizione di molte persone, dal Miur ai dirigenti scolastici, dagli insegnanti ai funzionari del Parlamento: vi ringrazio tutti di cuore. Con molta sincerità voglio dirvi che è sempre emozionante vedere su questi scranni – sui quali si sono sedute alcune delle personalità più importanti della nostra storia – degli studenti come voi: è una immagine meravigliosa che mi dà energia e riempie di speranza.  Siete voi il nostro domani, l’entusiasmo e la passione che avete profuso nel corso di tutto l’anno scolastico mi rassicurano sul futuro della nostra Italia. Attraverso i vostri lavori avete interpretato molti articoli della nostra Costituzione, usando strumenti innovativi e originalità; siete stati bravissimi, ancora una volta mi avete stupito con i vostri elaborati.

La democrazia – che così faticosamente conquistammo alla fine della seconda guerra mondiale – una volta raggiunta, non si può considerare come definitiva: bisogna, piuttosto, impegnarsi, ciascuno secondo le proprie possibilità e competenze, per difenderla e farla crescere. Per questa ragione trovo molto significativo l’incontro tra le parole della Carta costituzionale e la vostra fantasia, la vostra curiosità. È così, infatti, che i suoi bellissimi articoli prendono nuova vita, acquisiscono nuovo vigore, trasmettono la loro forza ideale alla vostra generazione e a quelle che verranno. “Dalle aule parlamentari alle aule di scuola” è la promessa – che oggi reciprocamente ci facciamo – di camminare insieme, di ricordarci sempre di fare la nostra parte, di occuparci l’uno dell’altro: di essere, in breve, una comunità di persone che si riconosce nei valori e nei principi della Costituzione e che si impegna a realizzarli. Sono molto affezionato all’articolo 3, quello che – dopo aver dichiarato che tutti i cittadini sono uguali – conferisce alla Repubblica il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.  La Repubblica siamo noi, tutti noi, cari ragazzi.

Siete qui per ricevere il giusto riconoscimento alla vostra fantasia, al vostro impegno; siete qui anche perché, la giornata di oggi, segna l’inizio di un percorso che vi vedrà protagonisti come testimoni dei principi e delle regole scritte nella nostra Costituzione, che ormai conoscete molto bene. Fate tesoro di questa conoscenza trasmettendola con orgoglio alle vostre famiglie e ai vostri amici: sarete così, in prima persona, motori del cambiamento che ci auguriamo per la nostra Italia, alla quale, troppo spesso, non diamo l’amore e il rispetto che invece merita. Vi capiteranno nella vita momenti di sconforto, momenti nei quali vi chiederete: “ma chi me lo fa fare?”. Non temete: l’importante è trovare sempre il coraggio di provare, e in caso di sconfitta ricominciare da capo, di mettere anima e cuore nelle vostre idee, di rischiare. Non abbattetevi perché non sarete soli. I vostri insegnanti, che vi guidano nel difficile percorso che vi porterà a realizzarvi in futuro, saranno al nostro fianco. Noi saremo al vostro fianco: questa bellissima Aula del Senato è e sarà sempre la vostra casa. Mettetevi in gioco, così come avete fatto in questo progetto, mettendo al servizio di tutti i vostri talenti e la vostra competenza. Guardando i lavori che avete presentato oggi so che avete tutte le carte in regola per avverare i vostri sogni e per cambiare in meglio questo nostro Paese.

In bocca al lupo e grazie!

Il tritolo e il coraggio di Paolo e Giovanni

Colleghi, maestri, amici. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono stati molte cose per me. Magistrati abilissimi, con un talento da fuoriclasse e una tenacia proverbiale: ad ogni sconfitta e amarezza rispondevano con coraggio e orgoglio, rialzandosi sempre. Non hanno mai permesso allo sconforto o alla paura di fermarli, ci sono voluti centinaia di chili di esplosivo per riuscirci. Quel maledetto 23 maggio lo svincolo di Capaci si trasformò in uno scenario di guerra impresso in modo indelebile nella mia mente; cinquantasette giorni dopo il boato di Via D’Amelio squarciò l’apparente quiete di una domenica qualunque d’estate, rendendola tristemente indimenticabile per l’Italia intera.

Sono passati 25 anni, eppure per certi aspetti, il tempo si è fermato ad allora. Falcone e Borsellino sono ancora celebrati – in Italia e nel mondo – come esempi di competenza, di dedizione, di rettitudine, di amore viscerale per la legalità e la giustizia. Hanno mostrato a tutto il nostro Paese che, quando si crede davvero in qualcosa, niente è davvero impossibile. Nessuno avrebbe mai pensato saremmo arrivati in fondo al maxiprocesso, a infliggere migliaia di anni di carcere ai mafiosi, a dimostrare in un tribunale l’esistenza di Cosa nostra; in pochi avrebbero scommesso che sarebbe stato possibile, un giorno, aprire un negozio a Palermo e non essere costretti a pagare il pizzo. Eppure è successo, grazie a uomini come loro. Uomini, non eroi, con pregi e difetti, con sogni e debolezze. Quando penso a loro mi vengono in mente momenti di vita quotidiana nei quali esorcizzavamo la fatica e i rischi del nostro mestiere con una battuta di Giovanni o con uno scherzo di Paolo ai colleghi. Falcone e Borsellino ci hanno convinto che anche le cose più difficili e apparentemente senza speranza, come sconfiggere la mafia, possono accadere; hanno insegnato molto a tutti noi e ispirato l’impegno per la legalità di chi ogni giorno raccoglie il loro testimone, di chi non rimane più in silenzio, di chi sceglie di combattere invece di defilarsi.

Migliaia di cittadini, da nord a sud, si uniranno oggi nel loro ricordo. La Nave della legalità è una bellissima tradizione, la metafora di un viaggio nel quale studentesse e studenti sono protagonisti di un’utopia che si fa realtà, generando speranza. Insieme a Falcone e Borsellino renderemo un profondo e sentito tributo agli uomini e alle donne che persero la vita per tutelarne l’incolumità. Troppo spesso li chiamiamo «ragazzi della scorta», voglio ricordarne i nomi perché non siano mai dimenticati: Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonino Montinaro, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina. I bambini nati nell’anno delle stragi di Capaci e Via D’Amelio sono ormai diventati adulti, qualcuno di loro ha già dei figli. Per questo ho voluto riaprire l’album della mia storia personale e professionale, con la speranza di trasmettergli i valori e gli ideali che hanno guidato tutta la mia vita. Ho scelto di raccoglierli in un libro, edito da Feltrinelli, da pochi giorni in libreria: «Storie di Sangue, Amici e Fantasmi». Storie di sangue, quello che ha imbrattato la mia Sicilia e scosso l’Italia intera; di fantasmi che sembravano imprendibili come Provenzano; di amici, come Giovanni e Paolo. Alcuni ricordi sono dolorosi, altri mi fanno sorridere, altri ancora sono frustranti: tutti mi danno la forza e la determinazione di continuare, fino a quando la mafia avrà una fine.

 

Non eroi, ma cittadini modello. Ciascuno di noi può esserlo

Un ricordo di Falcone e Borsellino per Sir, Servizio Informazione Religiosa 

 

Non gli si debbono cucire indosso gli abiti degli eroi perché apparirebbero come modelli inarrivabili. Sarebbe più giusto, piuttosto, dipingerli per quello che erano: uomini come noi ma fedeli ai propri ideali di legalità e giustizia, per i quali hanno sopportato indicibili amarezze e pesantissime privazioni, servendo lo Stato fino in fondo anche a costo di morire 25 anni da quel terribile 1992: sembra ieri, è una vita fa. Nulla potrà mai farmi dimenticare il misto di rabbia, disperazione e dolore che provai quel maledetto 23 maggio, quando seppi che cinquecento chili di esplosivo avevano trasformato lo svincolo di Capaci in uno scenario di guerra; nulla potrà mai cancellare il ricordo di quel giorno d’estate in cui il boato di Via D’Amelio squarciò l’apparente quiete di una domenica qualunque d’estate, rendendola tristemente indimenticabile per l’Italia intera. I dettagli di quel che avvenne sono così carichi di orrore che preferisco non ripeterli. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono, in Italia e in gran parte del mondo, celebrati come eroi. Sono simboli onorati con rispetto e riconoscenza: per me sono stati maestri dai cui ho imparato molto sulla professione che ho svolto per 43 anni; colleghi con i quali ho lavorato, vivendo assieme momenti di straordinaria speranza ma anche cocenti delusioni; amici con cui beffarsi della vita blindata alla quale eravamo sottoposti o condividere i pochi momenti di relax che il nostro lavoro ci concedeva. Vorrei che di queste figure si ricordasse la loro straordinaria professionalità, il loro talento da veri fuoriclasse ma anche il fatto che erano persone come tutti. Giovanni, ad esempio, trovava sempre una buona scusa per farsi cucinare da mia moglie Maria la minestra di riso e broccoli. Paolo, invece, amava così tanto la semplicità delle cose che mi stupisco ancora a ricordare di quando lo incontrai mentre da solo, senza scorta – una eventualità impensabile per un uomo che era da anni nel mirino di cosa nostra – se ne andava al supermercato a fare la spesa e declinava con gentilezza l’offerta di chi, riconoscendolo, voleva fargli saltare la fila alla cassa.

Non gli si debbono quindi cucire indosso gli abiti degli eroi perché apparirebbero come modelli inarrivabili. Sarebbe più giusto, piuttosto, dipingerli per quello che erano: uomini come noi ma fedeli ai propri ideali di legalità e giustizia, per i quali hanno sopportato indicibili amarezze e pesantissime privazioni, servendo lo Stato fino in fondo anche a costo di morire. Non eroi, dunque, ma cittadini modello: ciascuno di noi, ognuno secondo la propria competenza e possibilità, può esserlo. Sui tumuli di terra che li ricoprono dobbiamo inginocchiarci e promettere di fare tutto il possibile per continuare la loro opera, per cambiare, per rendere migliore questa nostra Italia a cui troppe volte non diamo l’amore che merita. In questi venticinque anni abbiamo ottenuto straordinari successi nella lotta alla criminalità organizzata ma non per questo possiamo dirci pienamente soddisfatti e di aver esaurito le ragioni del nostro impegno per la legalità; c’è ancora molta strada da fare, molte verità da svelare e altrettante ingiustizie da sanare.

I bambini nati nell’anno delle stragi di Capaci e Via D’Amelio sono ormai diventati adulti, magari qualcuno di loro ha già dei figli. Per loro ho voluto riaprire l’album della mia storia personale e professionale, con la speranza di trasmettergli i valori e gli ideali che hanno guidato tutta la mia vita. Ho scelto di raccoglierli in un libro, edito da Feltrinelli, da pochi giorni in libreria: “Storie di Sangue, Amici e Fantasmi”. Storie di sangue, quello che ha imbrattato la mia Sicilia e scosso l’Italia intera; di fantasmi che sembravano imprendibili come Provenzano; di amici, come Giovanni e Paolo. Alcuni ricordi sono dolorosi, altri mi fanno sorridere, altri ancora sono frustranti: tutti mi danno la forza e la determinazione di continuare, fino a quando la mafia avrà una fine.

(*) presidente del Senato della Repubblica

Manchester. Avverseremo le barbarie con diritto e democrazia

“Mentre a Palermo ricordiamo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in un giorno di dolore ma soprattutto di speranza e unione, colpisce come un pugno la notizia dell’eccidio disumano di persone inermi, ragazzi, bambini a Manchester“.

Così il Presidente del Senato, Pietro Grasso, in una dichiarazione.

“Mi stringo con affetto a coloro che sono stati colpiti da questo crimine e a tutto il popolo britannico. Noi non cederemo al ricatto della paura – aggiunge il Presidente Grasso – e avverseremo la barbarie con gli strumenti del diritto e della democrazia, come abbiamo fatto in Italia con il terrorismo e la mafia”.

 

Storie di sangue, amici e fantasmi: ricordi di Falcone e Borsellino

di Camilla Ilaria Colombo per La Stampa 

Un abbraccio ideale a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e un abbraccio etico alle nuove generazioni che devono sapere cos’era la mafia tra il 1986, quando si aprì il maxi processo a Palermo, e il 1992, anno in cui morirono entrambi i magistrati antimafia. Nel venticinquesimo anniversario delle stragi di Capaci e via d’Amelio, il presidente del Senato scrive un libro che è anche un personale viaggio nell’album dei ricordi. L’occasione per ripercorrere le vite di tre uomini servitori dello Stato e parlarne con gli studenti è il trentennale del Pristem, il Progetto Ricerche Storiche e Metodologiche dell’Università Bocconi, dove tra una convincente interpretazione di Sebastiano Lo Monaco del testo di Grasso “Per non morire di mafia” e una chiacchierata a due con il professore Nando Dalla Chiesa, il presidente del Senato, che oggi parteciperà alla marcia milanese in favore dell’accoglienza, racconta il suo nuovo libro dal titolo “Storie di sangue, amici e fantasmi. Ricordi di mafia”. «Chi avrebbe mai detto che più di 30 anni dopo l’omicidio di Piersanti Mattarella, sarei stato io a fare il passaggio di consegne per la più alta carica dello Stato con suo fratello», esordisce Pietro Grasso. «È stata una grande emozione e la conclusione di un percorso lungo che ha portato lo Stato a essere nuovamente presente in Sicilia». Il maxi processo fu uno spartiacque che vide per la prima volta tutte le componenti dello Stato schierate insieme nella lotta alla mafia. «In sei mesi 120 operai realizzarono l’aula bunker di Palermo: un risultato incredibile per la lentezza dei lavori in Italia», scherza la seconda carica dello Stato che non dimentica l’angoscia vissuta da Paolo Borsellino nei 57 giorni che trascorsero tra l’omicidio dell’amico Giovanni e la sua stessa morte. «Ho scritto a entrambi una lettera di 11 pagine», racconta Grasso. «Quella dedicata a Falcone è piena di ingiustizia per come fu attaccato in vita, quella a Borsellino è densa di struggimento perché insieme parlammo a lungo di come doveva fare fino in fondo il suo dovere per non tradire la fiducia dei cittadini».

L’arresto di Bernardo Provenzano nel 2006 deve far dimenticare ai giovani nati dopo la rabbia del 1992 che un tempo ci sono stati uomini che hanno combattuto Cosa Nostra in trincea condividendo ideali e valori per cui hanno rinunciato ad avere una vita normale. L’applauso rivolto alla moglie di Pietro Grasso, Maria, dalla platea è il modo migliore per ricordarsi che quando un uomo vive sotto scorta i sacrifici li fanno anche le persone che gli stanno attorno. «La vita del presidente del Senato e la sua dedizione allo Stato», commenta Mario Monti, presidente dell’Università Bocconi, «sono la giusta ispirazione per i giovani che hanno voglia di mettersi in gioco per qualcosa di nobile. La legalità, definita da Grasso la forza dei deboli, è il primo passo per poter ridare un po’ di crescita economica a questo Paese. E magari anche», conclude Monti, «per poter offrire ai troppi ragazzi italiani senza lavoro una valida occupazione».

La rivolta etica che serve all’Italia

di Eliana Di Caro per il Sole 24 Ore 

La fila è di quelle riservate a Luciana Littizzetto o Checco Zalone, un serpente di persone che parte dall’ingresso della Sala Rossa (una delle più grandi) e arriva fuori al Lingotto. E non crediamo sia solo per la presenza di Pif, accanto al presidente del Senato Pietro Grasso e al giornalista Francesco La Licata. L’interesse per il racconto di chi ha fatto il magistrato per 43 anni e presenta “Storie di sangue, amici e fantasmi” (Feltrinelli) al Salone del Libro di Torino, a sei giorni dal 25esimo anniversario dell’assassinio di Giovanni Falcone, è forte, accompagnato dagli applausi e anche da qualche sorriso.

Grasso, sollecitato da La Licata che rievocava il loro primo incontro nel ’71 dinanzi al cadavere del procuratore PietroScaglione, il primo ucciso dalla mafia, ha spiegato di aver scritto questo libro per i più giovani innanzitutto, che nulla sanno di quel passato, con l’idea di «trasmettere una testimonianza degli ideali, dei valori, raccontando le persone che li hanno interpretati, che hanno combattuto per affermarli e che sono in grado oggi con il loro esempio di smascherare l’indifferenza, di superare coloro che non vogliono capire, non vogliono sapere. Perché è necessaria una rivolta morale in questo Paese».

Il presidente ha rievocato i tempi del maxiprocesso, uno spartiacque nella sua vita professionale. Era chiamato a fare «il giudice di tutto quel che Falcone e Borsellino avevano raccolto. Superando ostacoli notevoli, c’è stato un momento in cui si è realizzato un successo che ha innescato una reazione della mafia, e ho sempre avuto questo pensiero: ma se non avessimo superato qualcuno di quegli ostacoli, se il maxi processo non avesse portato agli ergastoli, non ci sarebbe stata quella reazione e sarebbero ancora vivi? Conoscendoli (Falcone e Borsellino,ndr) non si sarebbero fermati, avrebbero continuato. Questo mi tranquillizza, mi rasserena, supero così quel senso di colpa che ti coglie quando sei stato in trincea con tanti amici che non ci sono più e tu vai avanti e cerchi di realizzare quegli obiettivi. Sono felice di averlo fatto. Spero che nasca una coscienza collettiva che si canalizzi nella rivolta etica di cui abbiamo bisogno».

Proprio sul maxi processo Pif girerà il suo terzo film, perché il sacrificio e la battaglia di Falcone e Borsellino contro la mafia non vengano dimenticati «come è accaduto per altri prima di loro, ad esempio Chinnici e Mattarella»”. Pier Santi Mattarella fu ucciso il 6 gennaio 1980. «Una mazzata, dopo che la sua elezione a presidente della Regione era stata salutata come un segnale di speranza da tutti i siciliani», rievoca La Licata. Quel giorno, il magistrato di turno era Pietro Grasso. E quel giorno incontrò il fratello di Pier Santi, l’allora professore universitario Sergio Mattarella (che firma la prefazione al libro). «Nel 2015 ci siamo ritrovati al Quirinale: io presidente della Repubblica supplente, dopo le dimissioni di Giorgio Napolitano, a dare le consegne al neoeletto Capo dello Stato, Sergio Mattarella. Altro che film di Pif! Pensate le vite parallele che, dopo 35 anni, si incrociano. Questo ci fa riflettere sulla strada che si è fatta, su quello che è cambiato».

Grasso, infine, si sofferma sul fatto che mentre una volta i ragazzi figli di mafiosi erano rispettati, ora si sentono ghettizzati e chiedono ai genitori di prendere le distanze. «C’è il lavoro degli insegnanti – osserva – ci sono i film, i libri, le fiction in tv, insomma si parla della mafia, benché la mafia a sua volta si trasformi, cercando di dar l’impressione che non esiste più. Mi sento però di dire che ho speranza, perché c’è meno omertà. Oggi nessuno può più dire “io non sapevo”.

Dov’è la mafia oggi? In nessun posto e dovunque

Massimo Martinelli e Malcom Pagani per il Messaggero

Pietro Grasso pensa di essere un uomo fortunato: «Il fato ha contato. In certi casi la morte mi ha sfiorato e in tante occasioni me la sono cavata per un pelo. Ho passato le consegne da Presidente della Repubblica supplente allo stesso uomo che avevo conosciuto il 6 Gennaio 1980 dopo l’omicidio di suo fratello e non posso non pensare che il destino c’entri qualcosa. In quel momento mi sono detto: “Chi poteva immaginarlo? Nessuno dei due faceva politica nel 1980, fosse un film direbbero che è esagerato”.  A 25 anni dalle stragi di Mafia, in “Storie di sangue, amici e fantasmi” (Feltrinelli, la presentazione oggi pomeriggio, al Salone del libro di Torino) Grasso ripercorre il film dei propri ricordi. Memorie feroci dell’epoca in cui lo chiamavano Sandokan («Il giorno della sentenza del maxi avevo la barba lunga»), quando era precipitato in una giungla fitta di pericoli e nemici abili nel mimetizzarsi. Tra allarmi reali e bilanci, qualcosa sembra essere rimasto nell’ombra: «So che ho fatto tutto il possibile per inseguire la verità, ma so anche che non sempre sono riuscito a raggiungere l’obiettivo. Provenzano avrebbe potuto chiarire molti aspetti oscuri: per suffragare certe ipotesi avremmo avuto bisogno che lui chiarisse tanti misteri, ma i suoi segreti Binnu se li è portati nella tomba».

Quali aspetti oscuri?

«Poco dopo la morte di Bontade, in una Palermo in piena guerra per il dominio locale sul traffico di stupefacenti, venimmo a sapere che Provenzano aveva sciolto una loggia massonica, quella dei trecento. Come poteva avere l’autorità per farlo? Ne faceva parte?».

È una domanda interessante.

«Gli anni spesi a indagare e a studiare l’arcipelago mafioso ci hanno fatto capire che Cosa Nostra non è solo un fenomeno criminale, ma un sistema in cui la ricerca del consenso e i rapporti con la politica e l’imprenditoria rappresentano le tre gambe del tavolo. Provenzano, legato all’antica mafia agricola e perfettamente in grado di vivere in un rudere mangiando ricotta e cicoria, avrebbe potuto illuminarci sull’evoluzione della Mafia stessa. Era stato latitante per 43 anni, era impossibile che non avesse goduto di concreti appoggi sul territorio».

L’organizzazione dei corleonesi però è stata cancellata.

«Se si esclude Matteo Messina Denaro. Alcuni dicono che sia morto, ma io non ci credo. Quando non si vuol far catturare qualcuno si inizia sempre a far circolare la voce che sia deceduto. Provarono a farlo anche con Provenzano, ma avevamo il suo Dna e non ci potevano fregare facendoci trovare un qualunque cadavere carbonizzato. Si erano evoluti loro, ma ci eravamo evoluti anche noi».

Quindi Matteo Messina Denaro è vivo.

«Fino a prova contraria ritengo di sì. Forse non è mai diventato il capo perché, pur sollecitato, ha preferito continuare a curare solo i propri affari. Oggi, in piena globalizzazione, non è più necessario rimanere nel trapanese per farlo».

Se lo immagina in Asia, a migliaia di chilometri?

«E perché così lontano? Basta essere a Tunisi. I mafiosi di un tempo, per atavica diffidenza, difficilmente porterebbero i propri capitali così lontano. All’epoca in cui Cangemi iniziò a collaborare con la giustizia, ci capitò una cosa curiosa».

Quale?

«Non eravamo soddisfatti di lui, avvertivamo la sua reticenza e glielo dicemmo chiaramente. Allora lui per dimostrarci che non mentiva ci fece ritrovare il suo tesoretto in Svizzera».

Nel caveau di una banca?

«Macchè. Sotto terra, in un sacco di iuta. “Mi hanno giurato che in Svizzera sono più sicuri” ci disse, e noi non sapevamo se piangere o ridere».

Nel libro commozione e ricordi lieti si alternano a ogni pagina, ma è come se dopo tanto tempo, ci fosse maggiore libertà nel poter raccontare quegli eventi.

«Il tempo mi ha dato l’opportunità di riflettere meglio e di avere una visione globale, ma il senso di colpa del sopravvissuto e la ricerca delle risposte mi hanno fatto soffrire a lungo».

Perché parla di senso di colpa?

«Perché il Maxiprocesso, un monumento giuridico che vide un’inedita e coesa partecipazione istituzionale, costò la vita a tanti colleghi e amici. Abbattemmo ostacoli apparentemente insormontabili e ogni tanto, anni dopo, mi sono trovato a chiedermi: “Ma se quegli ostacoli ci avessero fermato, Paolo e Giovanni sarebbero ancora vivi?” Per superare il senso di colpa ci sono voluti anni e l’unica possibile consolazione a posteriori è pensare a chi fossero davvero Borsellino e Falcone. Due che non si sarebbero fermati comunque, davanti a nulla».

Il Maxiprocesso è stato lo spartiacque della sua vita.

«Il passaggio da un’esistenza normale a una blindata che dura tuttora. Sono sotto scorta dal 1985, non mi ricordo più neanche cosa significhi poter camminare per strada da solo».

Con Falcone a Roma lo facevate spesso.

«Ci sentivamo più liberi, meno controllati, meno assediati dal pericolo. Ogni tanto liquidavamo la scorta e ce ne andavamo in giro come due turisti qualsiasi».

Cosa nostra avrebbe voluto uccidervi in un ristorante.

«Per fortuna Riina mandò il commando alla trattoria sbagliata, ma prima o poi avrebbero colpito. Ancora mi interrogo sui motivi che spinsero Cosa Nostra a cambiare idea. Falcone inizialmente doveva essere ucciso a Roma».

Invece fu ucciso in Sicilia.

«Riina dice a Sinacori: “Tornate, abbiamo trovato di meglio” e l’azione romana viene interrotta. Cercavano una strage che facesse parlare tutto il mondo, un evento che spaventasse la gente nel contesto eversivo di una neo-strategia della tensione che dopo Lima non aveva più i politici nel mirino- i rapporti con la politica evidentemente servivano- ma i magistrati».

Come mai secondo lei?

«Falcone e Borsellino erano nemici di Cosa Nostra e avevano fatto condannare per la prima volta all’ergastolo mafiosi in precedenza sempre assolti per insufficienza di prove. Per spiegare la loro morte però, il contrasto alla Mafia non basta. C’è dell’altro. Ricordo l’importanza che Falcone attribuiva alla posizione di Ignazio Salvo nel Maxiprocesso».

L’imprenditore Ignazio Salvo, poi ucciso a settembre del 1992.

«La sua condanna fu importante perché provava il legame tra imprenditoria, politica e mafia che era alla base del sistema allora dominante in tutta la Sicilia. E’ facile dedurre che il sistema per autodifesa avesse innescato un’azione preventiva per mettere Falcone e Borsellino in condizione di non nuocere. Non a caso, in una strategia che definirei conservativa, la loro eliminazione fu seguita dalla stagione delle stragi in continente tanto che Giuseppe Graviano, dopo via D’Amelio, dice a Spatuzza: “Ne faremo tante altre adesso”».

Borsellino e Falcone sapevano di dover morire?

«Paolo me lo disse: “So che è arrivato l’esplosivo per me, molti amici mi pregano di lasciare Palermo, ma come faccio a tradire la fiducia di tanta gente che crede in me?”. Anche Falcone con il sentore della morte conviveva da sempre. Negli ultimi tempi poi era molto amareggiato, deluso, segnato dai contrasti e dalle continue delegittimazioni. Un giorno a pranzo, a Catania, dopo aver testimoniato sull’omicidio Costa, prendendo un lembo della sua giacca disse: “Sono siciliano e la morte non mi fa paura: in questo momento la mia vita vale meno di questo bottone»

Ha mai creduto all’esistenza dell’agenda rossa?

«Un’agenda è stata trovata, ma non quella rossa. Sono state fatte tante indagini e tante ipotesi, purtroppo senza raggiungere certezze».

Come spiegherebbe a un ragazzo cosa è stata la presunta trattativa Stato-Mafia?

«Gli farei leggere la sentenza definitiva di Firenze del processo sulla strage dei Gerogofili, nella quale sono ricostruiti fatti e comportamenti definiti come “trattativa”, anzi, come “trattative” essendone emerse più di una».

Ma davvero lo Stato venne a patti con la Mafia?

«Cosa Nostra è un’organizzazione che ha sempre cercato i contatti con lo Stato perché la forza della Mafia deriva dalle risorse, dagli affari, dagli appalti pubblici. Provenzano nutriva dubbi sull’opportunità di eliminare i politici perché uccidere i propri interlocutori non gli pareva poi una grande idea. Uccidere i magistrati è una cosa, poter ricattare lo Stato per rinverdire un’alleanza alimentata dai reciproci favori, un’altra. Il problema è che questioni del genere vanno provate in aula: c’è un processo in corso da tempo, aspettiamo di vedere come finirà».

Lei nel libro usa più volte il termine “ricatto”.

«Il meccanismo di Cosa Nostra è semplice: io ti faccio un danno perché tu debba poi venire da me a chiedermi protezione. Non vengo a estorcerti il pizzo o a pietire un’elemosina, ma creo il bisogno. Metto in piedi una strage in maniera che poi qualcuno a vario titolo mi preghi di smetterla. Mori, che rappresentava una parte dello Stato, prova a interloquire. E cosa gli rispondono? “Non smettiamo se prima non abbiamo garanzie dalla politica”».

Fino all’estate di sangue del ’93 il ricatto pare continuare.

«Ma i morti in continente sono occasionali, non cercati. Il passaggio successivo, la strage indiscriminata, è una minaccia che non viene attuata. Il telecomando di Spatuzza, allo Stadio Olimpico, non funziona. I carabinieri si salvano e a Spatuzza nessuno chiederà più di ritentare. Si disse che il telecomando non funzionò, anche se oggi sappiamo che già allora esistevano tecnologie capaci di interferire e neutralizzare un congegno elettronico a distanza».

Dov’è la mafia oggi?

«In nessun posto e dovunque: se guardiamo le statistiche si muore di più in famiglia, ma questo significa soltanto che la Mafia silente di un tempo, quella che non vuole riflettori e confusione intorno ai propri affari è tornata di moda. Alla globalizzazione di mafie che non attaccano più frontalmente le istituzioni, ma investono nel mondo, dobbiamo rispondere con una globalizzazione della legalità e con leggi che favoriscano la cooperazione giudiziaria».

Non si chiede mai chi gliel’abbia fatto fare?

«Mai. Ma vedere morire le persone che come me credevano in qualcosa e vivere nel pericolo mi è costato sofferenza. Mio figlio all’epoca del Maxiprocesso era adolescente. Ero stato nominato giudice a latere senza aspettarmelo minimamente e da un momento all’altro mi trovai precipitato in un lavoro che mi impegnò giorno e notte. Una mattina venne da me a lamentarsi, aveva bisogno di una nuova tuta, sua madre insegnante era appena uscita e mi chiese di comprargliela. Scesi in un negozio di articoli sportivi e dall’altra parte del bancone trovai un ragazzo che mi salutò: “Buongiorno dottor Grasso, si ricorda di me?”, “No, dovrei?”, “Siamo stati due anni faccia a faccia, io dietro le sbarre, lei come giudice del Maxiprocesso”. Feci quasi un salto indietro: “E cosa ci fa qui?”, “Lei rigettò 12 istanze di scarcerazione e fu cattivo, ma poi arrivarono i giudici buoni e mi liberarono”. Tornai a casa e controllai il faldone. Era il figlio di un boss indicato come un feroce killer. In quel momento, per un attimo, mi chiesi: “Chi me lo fa fare se intanto c’è qualcuno che rovina tutto quello per cui combatto?”. Ma fu un istante. Con mio figlio poi il rapporto l’ho recuperato. Era stato sulle gambe di Giovanni, aveva capito che per le proprie idee, se fai il magistrato, si può anche morire. Oggi è funzionario di Polizia. In qualche modo ha preso una strada parallela».

A proposito di strade parallele, è vero che avrebbe voluto diventare calciatore?

«E’ una vecchia storia: da ragazzo giocavo nella Bacigalupo e per divertirmi gioco ancora, ma il calcio italiano non ha perso un Totti».

Dell’Utri, che era l’allenatore, disse maliziosamente che lei usciva dal campo immacolato.

«Gli risposi con le parole di mia madre. Si lamentava di quanto fossero luridi i panni che riportavo a casa e un giorno mi fulminò: “Piero, stai attento, se continui così il fango non se ne va più”. E il fango in Sicilia è più di una metafora».

 

 

 

 

Prefazione del Presidente Mattarella, pubblicata su La Stampa

Pietro Grasso è, insieme, un protagonista e un testimone diretto. A venticinque anni dagli attentati ai giudici Falcone e Borsellino, il nuovo libro del presidente del Senato non soltanto offre nuovi particolari, storie, episodi ma permette di rivivere una stagione travagliata e rilevante della nostra storia repubblicana. Una stagione legata alla presenza criminale, invasiva e funesta, della mafia e alla risposta efficace che, contrastando incertezze, omissioni, complicità e collusioni, lo Stato – con molti dei suoi uomini migliori – riuscì ad assicurare, realizzando, con il Maxiprocesso di Palermo, una svolta decisiva nella lotta a Cosa nostra e ai suoi capi. Quel Maxiprocesso, di cui Grasso è stato giudice a latere, guidandolo con sicurezza, insieme al presidente Alfonso Giordano, superando ostacoli e difficoltà e scrivendone, in una vera corsa contro il tempo, le settemila pagine di motivazione della sentenza.
Pietro Grasso è un profondo conoscitore del fenomeno mafioso, lo ha combattuto da vicino nei vari e importanti incarichi attraverso cui si è sviluppata la sua vita di magistrato. In questo libro ci offre pagine illuminanti sull’organizzazione delle cosche, sulla mentalità dei capi e dei subalterni, sui loro riti e sulla loro ferocia, rifuggendo – secondo la lezione di Falcone – da un approccio mitico (e, dunque, in qualche modo rassegnato) nei confronti della criminalità mafiosa. La mafia non è, infatti, un fenomeno ineluttabile, connaturato al Meridione e alla sua cultura. Ma è, fin dagli esordi, una grave patologia che, generata da cellule maligne, attacca la parte sana della società – la sua gran parte – seminandovi lutti e paura, ostacolandone lo sviluppo. Il libro di Pietro Grasso è, innanzitutto, un ampio affresco storico sulla lotta alla mafia, lotta descritta come una grande impresa, ma senza retorica. Da una parte del campo agiscono uomini violenti e malvagi, ai quali un ripugnante vissuto quotidiano, fatto di grettezza e mediocrità, toglie persino l’aura di protagonisti negativi. Dall’altra parte gli eroi veri, coraggiosi e talvolta solitari, che il libro illustra anche nella loro dimensione umana e affettiva, di persone normali, amanti della vita quanto della propria dignità e del proprio senso del dovere. Contro un mondo cupo e informe, fatto di pavidità e di tradimenti, di meschinità e di connivenze. Ci sono, quindi, i capimafia: per loro sembra perfettamente calzante la definizione di “banalità del male” coniata da Hannah Arendt per il nazista Eichmann. Ci sono alcuni pentiti che aprono uno squarcio nel mondo di Cosa nostra, infrangendo la regola dell’omertà e contribuendo alle indagini. E poi, appunto, gli eroi: Boris Giuliano, Rocco Chinnici, Pio La Torre, don Pino Puglisi, Carlo Alberto dalla Chiesa e tanti altri. Guardando al passato, possiamo comprendere, oggi meglio di allora, che il loro sacrificio non è stato vano: la loro azione, pagata a così caro prezzo, ha permesso di conseguire tappe fondamentali nella lotta alla mafia. Il libro si apre e si chiude con il ricordo appassionato di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, due maestri per Pietro Grasso, due testimoni – nel senso greco: martiri – limpidi, coraggiosi e leali, che sono diventati, anche per l’intrecciarsi del loro impegno e della loro vicenda umana, il simbolo di tutti i caduti dello Stato e della società italiana nella guerra alla criminalità organizzata. Si guarda alle loro figure come punto di riferimento ideale, in Italia e nel mondo, per tutti coloro che credono nella legalità e nella giustizia.

Grasso scrive loro due lettere immaginarie, dalle quali traspaiono immediatamente “disperazione, rabbia, un dolore lancinante e un senso di perdita irrimediabile”. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino furono per lui modelli di vita, colleghi ma soprattutto amici. Un’amicizia nata e cementata da quella “meravigliosa avventura” che fu il Maxiprocesso, una stagione segnata anche da polemiche, delusioni, tentativi di delegittimazione e talvolta persino di isolamento. Ma in quell’occasione l’Italia si presentò con un fronte comune: non soltanto i giudici, ma il Parlamento, il governo, i media, l’opinione pubblica furono insieme protagonisti di quella che oggi ci appare come la prima grande vittoria di sistema dello Stato contro la mafia. Il Maxiprocesso fu, come ci ricorda giustamente il presidente Grasso, un vero e proprio spartiacque: dal quel giorno, infatti, l’opinione pubblica conobbe compiutamente volti, nomi, gerarchie, riti, affiliazioni, linguaggi di Cosa nostra. Essa non era più un’entità avvertita come misteriosa, inafferrabile e con la presunzione di invulnerabilità. Alla sbarra nell’aula bunker non c’erano solo singoli delinquenti: venivano processati – e condannati – un’organizzazione, un fenomeno sociale, uno pseudomito durato per troppo tempo. Su quella base, accanto alla rabbia, si fa strada la speranza. Pietro Grasso riporta una frase, significativa, di Falcone: “La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà una fine”. Da qui emerge una sorta di promessa che il presidente del Senato fa a Paolo Borsellino. Grazie ai successi ottenuti dalla magistratura e dalle forze dell’ordine, scrive Grasso, “la Sicilia non è più la terra degli infedeli: anche se non è ancora l’isola libera che sognavamo. Continueremo a credere in quel sogno”. Sono parole che ciascuno, ogni giorno, deve far proprie.

30^edizione Salone internazionale del libro

Autorità, gentili ospiti, cari amici

è per me un vero piacere e un onore poter partecipare all’inaugurazione della 30a edizione del Salone Internazionale del libro. Vorrei innanzitutto ringraziare i relatori che mi hanno preceduto e che ho ascoltato con molto interesse e tutti coloro che hanno contributo alla realizzazione di questo evento, i curatori, gli editori, i lettori che oggi sono presenti e quanti verranno numerosi a visitare il salone. Un ringraziamento particolare anche a tutti i librai italiani che, seppur apparentemente nell’ombra, quotidianamente con le loro grandi e piccole librerie, alimentano un’istruzione permanente nel nostro Paese. Il Salone può considerarsi la massima manifestazione in Italia dedicata all’editoria, alla lettura e alla cultura e fra le prime d’Europa. E’ straordinario pensare come un’iniziativa nata quasi per caso nel 1988, anno in cui viene inaugurato il primo Salone, e circondata allora da un certo scetticismo, sia oggi un contenitore energico e vivace di cultura che si è spinto “Oltre il confine”.

“Oltre il confine” è proprio il titolo di questa edizione che, perfettamente reso nell”immagine della locandina dove un libro scavalca il muro, rimarca l’importanza della lettura e della cultura, indispensabili congiuntamente a superare non solo barriere mentali e ideologiche ma anche culturali e sociali. Ma questo tema rende benissimo anche lo spirito e il significato di coloro che si apprestano a visitare questo immenso “Cupolone di libri” come più volte è stato definito. “Oltre il confine” sconvolge il parametro della tradizione per aprirsi ad una nuova programmazione culturale a tutto tondo che va al di là del Salone stesso, con una fitta serie di incontri che fanno della città di Torino e dell’Italia una grande vetrina del sapere.

Nonostante la cultura sia soggetta giorno per giorno a cambiamenti molto veloci, ciò a cui non possiamo assolutamente rinunciare è la ricchezza e la capacità straordinaria della scrittura, il profumo di quella carta stampata che sembra evocare, ancor prima delle parole, immagini e pensieri. La lettura non può considerarsi un semplice svago ma è una porta sull’universo mondo che ci consente di confrontarci con storie e culture diverse, con opinioni ed esperienze lontane e vicine.

Leggere un libro, un buon libro, rende più liberi, più capaci di comprendere la realtà esterna e di valutarne criticamente le dinamiche. Leggere è una ricchezza privata ma nel contempo un bene comune, un ossigeno per la coscienza. Fare cultura vuol dire relazionarsi, mettere insieme, conoscere. Più si conosce, più si è liberi. Una libertà che nasce da un confronto continuo e costante nel tempo, da un momento di riflessione che serve ad ognuno di noi per ascoltarsi, per scoprirsi, per aprirsi agli altri e per crescere. Nonostante l’affermazione galoppante di internet e degli strumenti digitali, strumenti ormai certamente imprescindibili per la circolazione e la diffusione della cultura, questi non potranno mai sostituire l’incontro con il libro che inizia con il sapore della scelta e va oltre l’ultima pagina letta, quella sensazione di un qualcosa in più che ti rimarrà dentro per sempre. La lettura ci offre la possibilità di vivere realtà parallele alla nostra e quindi di decodificare con maggiore consapevolezza ciò che ci circonda.

Gli espositori che fanno vivere questo appuntamento sono il simbolo di una imprenditoria coraggiosa che sa difendere la propria indipendenza culturale ed economica, esplorando terreni innovativi, promuovendo pubblicazioni inedite o di nicchia, scoprendo e valorizzando giovani autori. Un’editoria che contrasta quotidianamente con fermezza e determinazione un fenomeno tanto negativo ma sempre più diffuso: in Italia si legge poco, troppo poco. Nell’era della digitalizzazione la carta stampata si trova quindi ad affrontare una sfida difficile che noi tutti siamo chiamati a contrastare perchè solo la carta stampata ci offre quell’opportunità di approfondimento e di riflessione di cui oggi la società ha bisogno. Qualche giorno fa ho letto un ‘articolo il cui titolo racchiude in due parole l’importanza di questo nostro appuntamento: i libri, finestre sul mondo e farmaci per l’anima.

Una società più consapevole, più matura, più democratica non può prescindere da un dialogo che si alimenta soprattutto attraverso i libri. Sono certo che anche questa edizione del Salone saprà offrire ai tanti lettori l’opportunità di scoprire un libro, un pensiero, un’idea che li accompagnerà nel loro percorso di vita perché come diceva Proust “ogni lettore, quando legge, legge se stesso”.