Incontro con l’Ambasciatore Cantini

Il Presidente del Senato, Pietro Grasso, ha ricevuto oggi l’Ambasciatore Giampaolo Cantini, incaricato di rappresentare la Repubblica Italiana in Egitto.

Le indagini sulla tragica morte di Giulio Regeni, la cooperazione tra i magistrati dei due Paesi e le ultime preoccupanti notizie riguardanti l’avvocato che assiste la famiglia Regeni in Egitto, sono gli argomenti affrontati nel colloquio che si è svolto a Palazzo Madama.

“La richiesta di fare piena luce sui fatti che hanno portato alla morte del ricercatore italiano – ha dichiarato il Presidente Grasso al termine dell’incontro – non arriva solo dai suoi familiari, dai colleghi e dagli amici. E’ una esigenza profondamente avvertita nel nostro Paese, tra i cittadini e nelle Istituzioni, che ho condiviso incontrando i genitori di Giulio il 16 marzo dello scorso anno e che ho ribadito oggi all’Ambasciatore Cantini, nella piena consapevolezza della delicatezza del compito che gli è stato assegnato”.

Incontro con il Presidente della Repubblica di Albania

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Il Presidente del Senato, Pietro Grasso, ha ricevuto oggi a Palazzo Giustiniani il Presidente della Repubblica di Albania, Ilir Meta, in visita ufficiale nel nostro Paese.

Al centro del colloquio, profondamente cordiale, le intense relazioni politiche, culturali ed economiche tra Italia e Albania, la cooperazione in materia giudiziaria e il processo di riforme in atto nel Paese balcanico.

Festival della Comunicazione “Le connessioni della politica”

Discorso del Presidente Grasso all’inagurazione del Festival della comunicazione 2017

Finalmente, la settimana scorsa, ha piovuto.

Gli esperti dicono che l’estate 2017 sia stata una delle più calde e con meno precipitazioni di sempre. Ne hanno sofferto i campi, le coltivazioni, gli animali, i boschi, i laghi, i fiumi e tutti noi, che abbiamo vissuto giorni di caldo torrido. Ne hanno sofferto soprattutto i cittadini di molte città che hanno avuto problemi con la distribuzione di acqua in casa: giorni e giorni con i rubinetti a secco.

(Voglio rassicurare voi e gli organizzatori: non sono venuto a Camogli per parlare “del tempo”, se avrete la pazienza di seguirmi cercherò di spiegare perché la politica ha connessioni anche con il meteo.)

Anche nella Capitale si è molto discusso sull’interruzione del servizio idrico per alcune ore al giorno, è stato giustamente chiesto ai cittadini di evitare sprechi inutili e si è stabilita la chiusura programmata delle tipiche fontanelle (i famosi “nasoni”). Sono più di 2000, risalgono agli ultimi decenni dell’800, hanno una duplice funzione (evitare una eccessiva pressione nelle tubature e consentire all’acqua di non ristagnare, scongiurando la proliferazione dei batteri) e rappresentano poco più dell1% dello spreco di acqua. Il BlueBook 2017, presentato lo scorso gennaio, rileva che, in media, al Nord c’è una dispersione idrica di circa il 26% (con punte del 46%), al centro del 46% e al Sud del 45% (con punte del 67%). L’età degli acquedotti è indicativa: il 60% è stato messo in posa oltre 30 anni fa, il 25% supera i 50 anni.

Sono dati che descrivono esattamente la dimensione e la natura del problema: con investimenti strategici e una attenta manutenzione, effettuata per tempo, la siccità di queste settimane non avrebbe causato ingenti danni, né costretto al razionamento idrico. L’acqua è un bene vitale e una risorsa scarsa ma lasciamo che le infrastrutture siano vecchie di decenni e che se ne disperda circa la metà. Sono voluto partire da questo esempio attuale e legato alla vita quotidiana perché lo trovo profondamente paradigmatico. La politica, come l’acqua, è un bene comune, riguarda tutti, innerva ogni momento della nostra vita, incide sull’ambiente e sullo sviluppo, ha bisogno di manutenzione, di rinnovare le sue infrastrutture, di essere difesa, pulita, potabile.

Una prima analogia riguarda la dispersione. Purtroppo nelle ultime tornate elettorali (europee, regionali, amministrative) si è registrato un astensionismo paragonabile alla quota di acqua sprecata: tra il 40 e il 50% degli aventi diritto al voto ha scelto di non esprimersi. La connessione che va ristabilita prioritariamente è quindi quella tra i cittadini, le istituzioni, la politica. Nel suo ultimo libro, “Democrazie senza memoria”, Luciano Violante scrive: “La crisi [della democrazia] non riguarda solo le istituzioni, le loro procedure, i loro equilibri: può riguardare anche i cittadini, che si allontanano dal sistema politico, riducono la loro fiducia nei confronti dei pubblici poteri, dimenticano le loro responsabilità civili e diventano portatori passivi di emozioni, disponibili a dare il proprio consenso solo a chi quelle emozioni sa eccitare e cavalcare”. (fine della citazione)

Una seconda riflessione può scaturire infatti dal modo in cui la politica e i media hanno affrontato l’emergenza siccità. Un diluvio – stavolta si – di commenti, interviste, comunicati, post su Facebook che però non ha quasi mai centrato l’obiettivo. Per settimane “i nasoni” sono diventati protagonisti assoluti del dibattito, sembrava che la sopravvivenza e il destino della Capitale dipendessero interamente dalla sorte di queste pittoresche fontanelle, con accuse reciproche che riguardavano le decisioni prese negli ultimi 15 giorni e non le scelte dei 30 anni precedenti. Poco, troppo poco, si è detto invece di come, quando e in che modalità si sarebbe dovuto intervenire sulle infrastrutture; ancor meno si è parlato di quali iniziative si dovranno assumere in futuro. Il risultato è noto: dopo la pioggia dei giorni scorsi dai nasoni ha ripreso serenamente a sgorgare acqua corrente; l’emergenza, ormai alle spalle, ha portato via con sé un serio e utile confronto pubblico sugli investimenti necessari ad ammodernare l’intera infrastruttura idrica italiana, tornato tema solo per gli specialisti. L’ “emergenza” siccità si trasformerà ben presto, come ogni anno, nell’ “emergenza” pioggia: le nuove polemiche si registreranno sulla pulizia dei tombini e trascureranno la messa in sicurezza idro-geologica del Paese. Ad ogni stagione la sua emergenza e le sue polemiche, sempre le stesse, che finiscono per estenuare i cittadini e far perdere loro ogni speranza di risoluzione dei problemi. Se le classi dirigenti si chiudono in una lotta continua e costante per contendersi piccole percentuali di consenso – concentrandoci sui “nasoni”, appunto, e trascurando gli acquedotti – corriamo il rischio fatale di perdere la dimensione della lungimiranza, del disegno strategico e a lungo termine, che è la prima responsabilità della politica.

Occorre quindi ristabilire la connessione della politica con il futuro. Il suo più alto compito, infatti, è quello di disegnare il domani della collettività e definire l’orizzonte dello stare insieme, non tentare di guadagnare a tutti i costi la prima pagina dei quotidiani o la classifica dei trending topic su Twitter.

Per farlo è necessario riannodare i fili che connettono la politica alla società civile: è un lavoro che necessita di pazienza, di passione, di attenzione e che – lo sappiamo – non garantisce risultati immediati; del resto nessuno di noi avrebbe notato una riduzione della dispersione di acqua lungo le tubature, forse ci saremmo anche lamentati dei disagi causati dai lavori, eppure è proprio quello che avrebbe fatto tutta la differenza nel momento di maggior crisi. Guardare ai problemi con la sola ottica dell’immediatezza, rincorrendo un effimero quanto aleatorio consenso, significa ipotecare il futuro delle prossime generazioni, consegnando loro una nazione più debole e fragile nei diritti, nelle responsabilità, nelle opportunità di crescita.

Quanto ho appena detto è tanto più vero, e drammatico, se allarghiamo il campo ad altri temi. L’estate appena finita è stata dominata dalla cronaca: migranti, sgomberi, proteste dei sindaci e dei cittadini all’idea di accogliere anche solo minori non accompagnati. Anche su questi temi, purtroppo, la contesa politica e la rappresentazione mediatica è spesso fatta di allarmismi, generalizzazioni, provocazioni, e raramente guarda al fenomeno nel suo insieme, alimentando una paura sproporzionata rispetto ai dati: durante la conferenza stampa di Ferragosto il ministro dell’Interno ha confermato che durante i primi mesi del 2017 i reati sono calati (meno 12%), e tra questi gli omicidi (meno 15%), i furti e le rapine. Siamo più sicuri di un anno fa, molto più di dieci anni fa, ma la paura aumenta. Un ultimo dato che mi ha molto impressionato: da una ricerca del 2015 risulta che gli italiani hanno la percezione che la percentuale di stranieri presenti nel nostro paese sia il 26% della popolazione, mentre è circa l’8% tra stranieri comunitari ed extracomunitari.

Riconnettere la politica, e la sua rappresentazione mediatica, alla realtà è fondamentale, soprattutto in un’epoca segnata da quella che viene definita “post-verità”, ovvero l’arretramento dei fatti e dei dati reali a favore di sensazionalismo e falsi slogan. Soffiare sull’insicurezza e la paura, diffondere odio e cavalcare il disagio espone la nostra comunità a un progressivo indebolimento. La paura è un sentimento legittimo, cui la politica deve prestare ascolto e attenzione: i partiti, i movimenti e i loro leader devono riappropriarsi del compito di accompagnare i cittadini, ascoltandone gli umori senza subirli, e di mostrare loro una visione complessiva dei problemi. Non è accettabile scardinare il sentimento di condivisione che ci rende una comunità, plurale nelle sue diversità ma unita, e disperderla in una lotta di rivalità tra categorie di cittadini sempre più in difficoltà, mettendo gli uni contro gli altri nella speranza di lucrare voti. La tentazione dell’uomo solo al comando, del super-eroe che nel breve spazio di un tweet ha pronta la soluzione a problemi difficili e stratificati, è destinata a scontrarsi con la realtà: non esistono soluzioni semplici a problemi complessi, e il prometterle senza poterle mantenere non farà che aumentare la frustrazione dell’elettorato.

Dobbiamo quindi riconnettere la politica con la complessità, avere il coraggio di affrontarla, passare dalla sua negazione al cercare di comprenderla, definirla e governarla, procedendo per tentativi, errori, e nuove soluzioni. Nel mondo globalizzato e interconnesso è uno sforzo enorme, anche perché minori sono le leve che i singoli Stati possono utilizzare, ma è l’unico che possa farci sollevare lo sguardo dalle beghe di corrente o dalle liti sulle leadership e rivolgerlo al futuro del nostro Paese. Affrontare il tema delle migrazioni è complesso. Lo è ancora di più affrontare contemporaneamente quello della riforma della legge sulla cittadinanza, impropriamente chiamata “Ius soli”, scatenando così eccessi retorici che ben conoscete e che arrivano a strumentalizzare atroci crimini – di cui per rispetto alle vittime ci saremmo risparmiati le descrizioni particolareggiate – la cui responsabilità va punita severamente ma che non può essere estesa alle persone per bene che qui vivono e sono integrate. Il provvedimento, ora in seconda lettura in Senato, intende modificare il meccanismo che già conferisce, su richiesta, la cittadinanza ai figli di stranieri nati e vissuti sul nostro territorio solo al compimento del diciottesimo anno di età. Nello specifico verrebbero introdotte altre due modalità – il cosiddetto “Ius soli temperato” e lo “Ius culturae” – modificando una legge che, al momento, è tra le più restrittive in Europa. Occorre fare chiarezza. Quando si parla di “Ius culturae” si intende che potranno richiedere e ottenere la cittadinanza le ragazze e i ragazzi che abbiano frequentato, con successo, un ciclo scolastico di almeno cinque anni o un percorso di formazione in Italia. Si fa ancora più confusione sulla differenza tra “Ius soli” – mai ipotizzato per il nostro Paese – e “Ius soli temperato”, che prevede che possa diventare italiano chi è nato nel nostro Paese da genitori stranieri dei quali almeno uno sia in possesso del diritto di soggiorno permanente, se cittadino comunitario, o del permesso di soggiorno di lungo periodo se extracomunitario. Per avere questo titolo, è bene specificare, occorre che si abbia un lavoro, una casa, un permesso di soggiorno da almeno 5 anni e superare un test di lingua italiana, inoltre sono esclusi gli stranieri pericolosi per l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato, coloro che soggiornino a titolo di protezione temporanea, per motivi umanitari o coloro che sono in attesa di vedere riconosciuto il loro status di rifugiato. Chi parla di regalare la cittadinanza è evidente che o non conosce o strumentalizza il tema.

Questa legge ci riconnette, semplicemente, col presente, con quanto viviamo ogni giorno nelle nostre città e nelle nostre scuole, limitandosi a fotografare l’esistente: nelle classi dei nostri figli e nipoti, in ogni città, siedono negli stessi banchi bambini italiani con la cittadinanza e bambini che possiamo definire “italiani senza cittadinanza”, che condividono il tempo, gli studi, il tifo per le squadre di calcio, i percorsi di legalità, le passioni, i desideri e i sogni, ma che sono costretti ad affrontare ostacoli, limiti e divieti che ne condizionano le possibilità, le aspirazioni, il contributo che possono dare al nostro Paese.

Ho detto molte volte che offrire a chi nasce, studia e cresce in Italia la possibilità di sentirsi pienamente parte della nostra comunità nazionale serve anche a rendere il nostro Paese più forte e sicuro: chi è escluso dalla vita comune, chi non esercita i diritti e i doveri di cittadinanza, chi è rinchiuso nelle periferie esistenziali delle nostre città è più debole, e quindi più vulnerabile al radicalismo ideologico e all’illegalità. Vale per tutti, italiani e stranieri. Integrare, riconoscere diritti, doveri e opportunità significa fare sicurezza. Nelle ultime settimane lo stesso concetto è stato ribadito, oltre che da Papa Francesco, dal Ministro dell’Interno, che ha la competenza sull’ordine pubblico e la sicurezza, dal Ministro della Giustizia, dal Capo della Polizia, ovvero da chi ha responsabilità dirette – tecniche, giuridiche e politiche – sulle conseguenze di tale scelta. Anche per questo spero che questo provvedimento possa essere approvato.  La scelta, politicamente, è drammatica: fare una cosa utile o fare una cosa popolare, soprattutto in vista delle prossime elezioni. Il dubbio è legittimo, ma è il coraggio di fare la cosa giusta a fare la differenza tra un politico che guarda al futuro e uno che guarda solo ai sondaggi.

Allargando lo sguardo ci accorgiamo che il tema della complessità riguarda orizzonti ben più vasti delle scelte di politica interna: ci misuriamo in questi anni con sfide epocali, dal cambiamento climatico a quello tecnologico agli sconvolgimenti geopolitici. Nell’affrontare queste sfide dobbiamo tenere in considerazione i nuovi significati dello spazio e del tempo. Nessuno può illudersi di governare da solo questioni che interessano milioni di persone o, ancor peggio, analizzarle solo ed esclusivamente guardandole con la prospettiva della propria convenienza.  Non si può dunque non rafforzare la connessione del nostro Paese con l’Unione Europea: seppur con i suoi limiti e difetti, rappresenta il più grande progetto di convivenza pacifica e di stabile e duratura cooperazione tra i popoli del dopoguerra. È sulla base dei valori che hanno fatto prosperare il nostro continente, e nella consapevolezza di un destino comune, che cammina la speranza di essere all’altezza delle sfide globali. Bisogna poi considerare che l’intervallo di tempo tra le innovazioni scientifiche, culturali e sociali si va via via riducendo: ciò che qualche anno fa non saremmo stati in grado neanche di immaginare oggi è già superato, con una velocità che ci costringe a spostare i nostri ragionamenti verso la formulazione per tempo di nuove domande cui dare risposte che siano insieme efficaci e tempestive.

Non è possibile approfondire, nello spazio di questo intervento, un tema così affascinante e articolato: mi limiterò allora a tratteggiarne alcuni aspetti, quelli che a mio parere avranno peso maggiore nella società di domani, cercando di evidenziare la loro intima e profonda connessione con la forma della nostra società, la sua organizzazione e le scelte politiche.

La rivoluzione tecnologica, in particolare quella digitale, sta imponendo un nuovo paradigma alla nostra società con un ritmo sempre più incalzante. È evidente – e lo sarà maggiormente nei prossimi anni – che il mercato del lavoro subirà enormi cambiamenti: per effetto della più stringente interdipendenza delle economie del mondo, della robotizzazione e di nuovi modelli di business – penso ad esempio alla sharing economy – spariranno centinaia di professioni che a lungo hanno assicurato benessere e prosperità a molte famiglie.  Lo sappiamo: dalla qualità e dall’ampiezza del diritto al lavoro che si assicura ai cittadini discende un equivalente e sostanziale livello di democrazia, di integrazione sociale, di libertà, di dignità. Dove questo non avviene si fa largo l’esclusione, la tentazione di percorrere le strade dell’illegalità e l’impoverimento economico e sociale. Dobbiamo dunque chiederci quali equilibri inaugureremo tra vecchi e nuovi mercati; se saremo in grado di generare una ricchezza diffusa e non appannaggio di pochi; se sapremo difendere il diritto al lavoro – a un lavoro stabile e retribuito – e tutelare gli altri diritti ad esso connessi; se saremo in grado di creare prospettive per i più giovani e garantire loro un sistema pensionistico che tenga conto degli anni di crisi, di impieghi saltuari e mal pagati, di collaborazioni occasionali, tirocini, stage e così via. Non è solo una questione di ordine economico ma di dignità della persona e della società che lasceremo in eredità ai nostri nipoti.

A proposito di economia consentitemi di esprimere soddisfazione per gli incoraggianti dati che vedono il consolidarsi di una ripresa che fa ben sperare. Bisogna però sostenerla – alimentando il meccanismo della fiducia che sta lentamente “sbloccando” il Paese dopo i durissimi tempi della crisi – con investimenti pubblici di ampio respiro che guardino, ancora una volta, ai prossimi decenni più che alla prossima campagna elettorale. La legge di bilancio rappresenta una prima occasione che, sono certo, non verrà sprecata: è già evidente come la prima preoccupazione di tutti sia prestare particolare attenzione all’occupazione giovanile, i cui dati restano terribilmente preoccupanti, in special modo nel meridione.

Un’altra determinante sfida è costituita dal cambiamento climatico. Siamo sull’orlo di una crisi che potrebbe, nel breve volgere di qualche decennio, decretare la fine dell’umanità. Abbiamo gli strumenti e le conoscenze per invertire la rotta, sappiamo che dalla qualità dell’ambiente dipende la salute delle persone e che nel medio periodo politiche ambientali di buon senso hanno un impatto positivo sui bilanci dello Stato, eppure ancora non siamo capaci di mettere la tutela dell’ambiente al centro dell’azione di governi nazionali e organizzazioni internazionali.

Per affrontare queste sfide è necessario riconnettere la politica – e la società – con il sapere e la scienza. Da un lato investendo nella ricerca, nella formazione, nella scuola. Dall’altro invertendo la rotta che ha portato dall’aspirazione alla conoscenza alla diffidenza prima verso “gli intellettuali” poi verso il sapere in genere. La crisi di fiducia nei consigli e negli avvertimenti degli esperti è ormai oltre il livello di guardia, arrivando al paradosso di mettere a repentaglio la propria salute, o quella dei propri cari, perché si ritengono più affidabili i risultati di una ricerca online rispetto alle prescrizioni di medici specialisti. E’ un paradosso con cui siamo chiamati a confrontarci: se prima eravamo al massimo tutti allenatori della nazionale, oggi siamo tutti esperti di qualsiasi argomento, dall’Islam alla malaria, dai vaccini alle cure omeopatiche, dalle scie chimiche ai complotti. E’ una patologia pericolosa. Nella mia vita ho sempre cercato di apprendere, con curiosità e affidandomi a persone che ritenevo esperte nel proprio campo. Ciascuno di noi ha qualcosa da insegnare e molto, moltissimo da imparare. Diffidate da chi utilizza l’espressione “non accetto lezioni”: rappresenta un atteggiamento sbagliato e, in parte, la radice di tanti errori che potrebbero essere evitati. L’apporto che la cultura e la scienza possono dare alla politica è indispensabile per prendere decisione corrette ma anche per valutare ex post se le decisioni prese abbiano funzionato o meno. Per questo ho voluto fortemente che nascesse in Senato un “Ufficio valutazione impatto” delle leggi che ne possa verificare l’efficacia e la relazione costi-benefici. Molto interessante quello predisposto sulle leggi e le risorse stanziate a seguito dei terremoti nel nostro Paese. Considerando che negli ultimi 70 anni sono stati spesi 245 miliardi di euro per i danni e la ricostruzione, viene da chiedersi, come per gli acquedotti: quanto dolore e quanti soldi si sarebbero risparmiati se si fosse investito sulla prevenzione? D’altronde che l’Italia sia un Paese a forte rischio sismico lo si è sempre saputo.

Non posso non citare, in chiusura, la connessione tra la politica e la criminalità: come sapete per 43 anni ho fatto il magistrato, occupandomi di contrasto alla mafia e alla criminalità organizzata in genere. In questo caso la connessione, purtroppo ancora esistente in taluni casi, va recisa completamente. Anche la criminalità cambia, e abbiamo visto come sia passata dalle intimidazioni alla corruzione, soprattutto fuori dai territori d’origine, con una pericolosissima capacità di infiltrarsi, a tutti i livelli, nella società, nell’economia, nella politica locale e nazionale, nella Pubblica Amministrazione. L’Italia ha, complessivamente, un’ottima legislazione sia sotto il profilo della prevenzione che sotto quello della repressione dei reati. Un importante tassello da aggiungere sarebbe l’approvazione del Disegno di che tutela i lavoratori che denunciano episodi corruttivi, i cosiddetti whistleblower.

L’idea di giustizia però è molto più ampia, non si identifica né si esaurisce con il rispetto della legge, perché la storia ci insegna che talune norme hanno previsto la schiavitù, la persecuzione razziale, hanno difeso gli interessi del più forte. Il concetto di giustizia si ricollega all’equità e all’etica ed esige che si rispettino ad un tempo l’eguaglianza di tutti e le condizioni del singolo, nel senso che in tutte le norme a parità di condizioni deve corrispondere un trattamento uguale, e a condizioni diverse un trattamento diversificato. Don Milani diceva: “Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali”. Questa semplice frase rappresenta il cuore della giustizia sociale, spiega l’importanza che ricopre il sistema del welfare per mantenere unita la nostra comunità nazionale e ci ricorda come sia “compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” che limitano l’eguaglianza dei cittadini. Per poter finanziare le politiche sociali, che ritengo uno dei compiti principali del nostro Paese, è fondamentale anche intervenire sul contrasto all’evasione fiscale, che impoverendo i conti dello Stato influisce sulla qualità e sulla quantità dei servizi da destinare a ciascun cittadino. In un momento in cui si parla di “flat tax” è bene ricordare che le tasse nel nostro ordinamento sono previste come il contributo proporzionale e progressivo che i cittadini devono dare allo Stato, secondo una logica che non rincorre l’uguaglianza ma l’equità.

Ho elencato solo alcune delle connessioni della politica, ma ci tengo a sottolineare che l’effetto delle connessioni determina un’interazione: ciascuno degli attori degli ambiti presi in considerazione, a loro volta connessi tra loro, deve avere la consapevolezza che quanto emerge dal suo campo influenza a sua volta, nel bene e nel male, gli altri e in ultima istanza le decisioni che la politica prenderà. Per questo al centro dobbiamo, ciascuno di noi, tenere saldo il concetto della responsabilità, cui tutti siamo chiamati ad attenerci, per il bene comune. Come diceva il poeta (John Donne) nessun uomo è un’isola, tutti partecipiamo all’umanità, tutti siamo connessi. Chi ama la politica del retroscena, del colpo basso, degli accordi presi e non rispettati, della retorica che nasconde il cinismo alla “House of cards”, è probabile che abbia percepito questo mio intervento come troppo ideale, una concezione della politica troppo legata ai valori e poco ai dati percentuali, in una parola un discorso troppo utopistico. Ne sono felice, perché l’ultima – e più importante – connessione che la politica deve ritrovare è proprio quella con l’utopia e la speranza, l’unica che possa riuscire a coinvolgere i più giovani in un progetto di futuro comune e portarli ad interessarsi della cosa pubblica.

Generale Dalla Chiesa, 35 anni dall’omicidio

Discorso in occasione del convegno per il trentacinquesimo anniversario dalla morte 

Autorità, gentili ospiti, signore e signori,

è per me davvero un piacere partecipare, dopo l’intensa ed emozionante giornata commemorativa di ieri, a questo incontro sull’operato del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Come ho avuto modo di scrivere recentemente, ci sono uomini che, con la loro sola presenza, cambiano l’atmosfera del luogo in cui si trovano. Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa era uno di questi: autorevolezza, competenza, carisma lo avevano reso tra gli uomini più apprezzati di tutte le forze armate.

Il generale conosceva la Sicilia, c’era già stato due volte: da Capitano nel 1949 a Corleone, svolgendo le indagini sull’omicidio di Placido Rizzotto, e da Colonnello a partire dal 1966, al comando della Legione di Palermo, che aveva giurisdizione anche sulle province di Agrigento, Caltanissetta e Trapani, imparando a conoscere anche i mafiosi e le loro connessioni con la politica, prima di dedicarsi con tutta la sua intelligenza e le sue capacità alla criminalità milanese prima e alla lotta al terrorismo poi. Per i cittadini onesti di Palermo, martoriata e impaurita da almeno tre anni per il feroce attacco a rappresentanti delle istituzioni e per le centinaia di omicidi della guerra di mafia, che avevano inondato le strade di sangue, il suo arrivo costituiva un punto di riferimento autorevole e capace di infondere sicurezza, fiducia e speranza. Verso la metà di marzo 1982, si erano sparse le prime voci di una sua venuta a Palermo e quando Giovanni Falcone mi riferì che un avvocato gli aveva chiesto, a nome del generale, una copia dell’ordinanza di rinvio a giudizio del procedimento contro Rosario Spatola e altri atti, commentammo con favore e apprezzamento il fatto che il generale stesse valutando seriamente l’intenzione di venire a Palermo.

Proprio la conoscenza della complessità del fenomeno mafioso e la sua connessione con l’inestricabile intreccio di interessi politico-economici provocavano nel neoprefetto, da un lato, la giusta analisi di assoluta inadeguatezza dei poteri prefettizi a fronteggiare la criminalità mafiosa e, dall’altro, la piena consapevolezza che l’adempimento del suo dovere lo avrebbe inevitabilmente indotto a scontrarsi con potenti settori politici, che proprio dagli ambienti mafiosi attingevano larghe quote di consenso elettorale. Precise tracce di questo travaglio interiore emergono dal suo diario alla data del 30 aprile 1982, giorno in cui viene assassinato l’onorevole Pio La Torre e il generale da Roma, viene catapultato a Palermo per assumere l’incarico di prefetto in anticipo rispetto ai tempi previsti:

“Mi sono trovato, da un lato, una pubblica opinione che ad ampio raggio mi ha dato l’ossigeno della sua stima e attende i miracoli e, dall’altro, un ambiente, che va maledicendo la mia destinazione e il mio arrivo, pronto a buttarmi al vento non appena determinati interessi saranno toccati o compressi, pronto a lasciarmi solo nelle responsabilità che indubbiamente deriveranno e anche nei pericoli fisici che dovrò affrontare…”, frase che compare in esergo al bel libro di Andrea Galli che verrà presentato oggi.

Il mio ultimo ricordo con il generale risale a fine maggio 1982, durante la cerimonia della festa della polizia alla caserma Lungaro. Il prefetto, che indossava un doppiopetto grigio, mi si avvicinò e, con un accattivante sorriso sotto i baffetti sale e pepe, mi chiese le carte delle indagini già definite delle espropriazioni della diga Garcia, che avevano elargito ai proprietari, tra i quali i cugini Salvo, 21 miliardi di vecchie lire a fronte dei 2,5 miliardi stanziati, nonché gli atti degli appalti, banditi dal Comune di Palermo, che erano stati oggetto delle indagini sull’omicidio del presidente della Regione siciliana, Piersanti Mattarella. Restammo d’accordo che gli avrei fatto avere il tutto a settembre, alla ripresa delle attività dopo le ferie, ma persi la mia corsa contro il tempo, arrivò prima il crepitare dei kalashnikov quella tragica sera del 3 settembre 1982, quando in via Isidoro carini caddero lui, Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. Sono certo che i miei stessi sentimenti di rabbia, di sdegno, di commozione, ma anche di sgomento e di impotenza di fronte all’arrogante violenza mafiosa, ispirarono l’ignoto autore del cartello lasciato sul luogo dell’eccidio: “Qui è morta la speranza dei palermitani onesti”. Il 4 settembre 1982, dal pulpito della chiesa di San Domenico, il cardinale fece impallidire i più importanti uomini politici siciliani e d’Italia, che assistevano nelle prime file alla messa funebre del prefetto Dalla Chiesa, citando la nota frase tratta dalle Storie di Tito Livio: Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur; mentre a Roma ci si consulta, la città di Sagunto viene espugnata. Sagunto è Palermo. Povera la nostra Palermo! Come difenderla?» A seguito delle sferzanti accuse, dal fondo della chiesa, dove sedeva la gente comune, esplose un fragoroso applauso. Un urlo liberatorio, un grido di condanna diretto allo Stato. Pappalardo fece vergognare la classe politica italiana che, indugiando a concedere al generale Dalla Chiesa i poteri speciali che aveva richiesto, l’aveva lasciato in una situazione di incertezza dalla quale non era uscito vivo.

L’omicidio Dalla Chiesa non fu un buon affare per Cosa nostra. Questa valutazione negativa è emersa anche dall’interno dell’organizzazione, tanto che alcuni mafiosi si chiedono ancora oggi quali interessi così importanti avesse potuto toccare il prefetto Dalla Chiesa in soli cento giorni da deliberarne l’eliminazione fisica o, di converso, per le finalità di quale potere occulto esterno abbia operato la mafia. Deponendo al processo Andreotti, il collaboratore di giustizia Tullio Cannella, riferì che proprio il feroce killer Pino Greco “Scarpuzzedda”, che aveva partecipato all’eccidio del prefetto, gli aveva confidato: “Quest’omicidio non ci voleva. Ci vorranno almeno dieci anni per riprendere bene la barca, e comunque qua io ho avuto uno scherzetto in quest’omicidio, e questo scherzo me lo fece u Raggiuneri. Cà c’è a manu d’u Raggiuneri, u sap’iddu chiddu ca cummina (lo sa lui quello che combina)”. Secondo Cannella, Greco alludeva al fatto che le vere motivazioni dell’omicidio Dalla Chiesa erano diverse da quelle fatte circolare in Cosa nostra e che, comunque, non vi erano state quelle coperture promesse a Provenzano e di cui si era fatto lui stesso garante. Infatti, in pochi giorni venne approvata, dopo anni di attesa, la legge Rognoni-La Torre, che aveva resistito all’omicidio dello stesso La Torre, introducendo l’associazione mafiosa, i controlli bancari sugli enti pubblici e gli appalti, il sequestro e la confisca dei beni. Non solo, quei poteri di coordinamento investigativo sul piano nazionale che egli aveva, ripetutamente e invano, sollecitato sin dal primo momento, e che al di là delle promesse formali e delle dichiarazioni di intenti non gli erano stati concessi, vennero dati al suo successore tramite un Decreto legge, ampliandoli addirittura su tutto il territorio nazionale, anche in materia di camorra e di ’ndrangheta.

Sul piano delle indagini, dopo l’inspiegabile e pretestuoso accesso da parte di funzionari della Prefettura nella residenza di Dalla Chiesa, asseritamente per prelevare delle lenzuola da usare per coprire i cadaveri in camera mortuaria, c’è il giallo della cassaforte, trovata inspiegabilmente vuota soltanto l’11 settembre, quando in bella evidenza viene scoperta la chiave, invano cercata per tanti giorni nel medesimo cassetto dove di solito era riposta. Misteri che nemmeno l’inchiesta dibattimentale al Maxiprocesso riuscirà a chiarire. Dopo le condanne inflitte nel Maxiprocesso ad alcuni mandanti facenti parte del vertice mafioso, le dichiarazioni di alcuni collaboratori hanno consentito di individuare e processare tutti gli esecutori materiali, ma non di dare un volto agli eventuali mandanti esterni. Del resto, tutti gli omicidi eccellenti commessi da Cosa nostra hanno cause complesse, talune delle quali assolutamente ignote anche agli stessi esecutori materiali. E oggi tutto il materiale sinora raccolto, tutti i sussurri provenienti da Cosa nostra, depongono per un interesse esterno all’eliminazione del generale, addirittura antecedente di tre anni alla sua “missione” a Palermo. Dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, Buscetta riferì che nel 1979, su incarico personale di Stefano Bontate, aveva contattato durante la comune detenzione al carcere di Cuneo il brigatista rosso Lauro Azzolini chiedendogli se le Br fossero disponibili a rivendicare l’attentato nel caso in cui qualcuno avesse ucciso Dalla Chiesa. La risposta fu tranciante: “Noi rivendichiamo solo gli attentati a cui partecipiamo”. Pertanto è ipotizzabile che, non appena mandato in Sicilia, si fosse realizzata una coincidenza di interessi tra la nuova mafia Corleonese, che aveva sostituito ai vertici quella di Bontate ed Inzerillo, che lo vedeva pur sempre come un pericolo potenziale, e altri centri di potere, che ne temevano il potere costruito sul consenso o sulla conoscenza di segreti che, se rivelati, potevano risultare destabilizzanti o quantomeno imbarazzanti.

Il collaboratore Giovanni Brusca riferì ai giudici di Caltanissetta che, a un certo punto, dopo la strage di Chinnici, arrivò a lui, da Roma, tramite Lima e quindi i Salvo, l’avvertimento di darsi una “calmata” (nel senso di non commettere altri delitti che turbavano l’opinione pubblica), perché altrimenti si sarebbero dovuti prendere seri provvedimenti repressivi. La risposta arrogante di Riina, che egli stesso riportò ai Salvo, per recapitarla al mittente, fu: “Ci lascino fare. Noi siamo sempre stati a disposizione per tanti favori che gli abbiamo fatto”. Di quali favori si tratta non si saprà mai. Certo é che gli unici omicidi eccellenti l’anno prima di Chinnici erano stati quelli di La Torre e Dalla Chiesa. Provenzano ha portato nella tomba i suoi misteri e Riina non pare disposto a rivelarli.

Del resto, coloro che avevano in precedenza sostenuto e apprezzato Dalla Chiesa come il salvatore della patria dal terrorismo, per le stesse ragioni potevano averlo temuto particolarmente. Ne conoscevano l’intuito investigativo, la capacità organizzativa, l’intelligenza, la dedizione, l’impeto, l’incorruttibilità e anche una inveterata indipendenza di giudizio unita ad un indomito coraggio. Tutte queste qualità, unite alla memoria dei segreti di Stato del terrorismo, possono ben aver costituito un’incontrollabile miscela esplosiva, rappresentata da un uomo che non si è mai asservito alla politica e che sul fronte della mafia stava  rivelando di averne compreso le evoluzioni in chiave Corleonese, soprattutto sull’asse Palermo-Catania. Un uomo che, sfruttando i rapporti con la stampa e l’opinione pubblica, parlando alla gente, andando nelle scuole, orientando le coscienze, stava innescando una rivoluzione che rischiava di spezzare l’egemonia sub-culturale della mafia e del sistema di potere ad essa collegato. Il valore della vita, del sacrificio di Carlo Alberto Dalla Chiesa e, con lui, di Emanuela e di Russo, rimarrà nella memoria collettiva, non si potrà mai disperdere. È stato proprio lui a liberarci dalla minaccia eversiva; è stato proprio lui a tracciare, con la sua esperienza, con la sua alta professionalità le direttrici investigative, organizzative e metodologiche della moderna lotta contro la mafia.

Di fronte all’uccisione di un servitore dello Stato come il prefetto Dalla Chiesa, accanto alla responsabilità penale di autori e mandanti, vi è anche la responsabilità morale di chi non l’ha ascoltato o l’ha privato dei mezzi per garantire libertà e democrazia, legalità e giustizia. Come disse il generale pochi giorni prima di essere ucciso a suo figlio Nando: “Certe cose si fanno per poter guardare in viso i nostri figli e i figli dei nostri figli senza avere la sensazione di doverci rimproverare qualcosa”.

Scomparsa di Luciano Guerzoni

Il messaggio inviato ai familiari dell’ex Senatore Luciano Guerzoni

“Rattristato per il grave lutto che Vi colpisce, desidero manifestare sentimenti di profondo cordoglio a nome mio personale e dei colleghi Senatori per la scomparsa di Luciano Guerzoni, che di questa assemblea è stato autorevole componente per quattro legislature, ricoprendo anche il ruolo di Vice Presidente di gruppo.”

Così il Presidente del Senato, Pietro Grasso, nel messaggio inviato ai familiari dell’ex Senatore Luciano Guerzoni, scomparso ieri.

“Uomo di riconosciuta onestà e rettitudine, è stato precedentemente Consigliere comunale, poi regionale, fino a diventare, dal 1987 al 1990, Presidente della regione Emilia-Romagna. Dopo l’esperienza in Senato, ha continuato ad operare, con passione, all’interno dell’ANPI, di cui era Vice Presidente nazionale. Rendo omaggio – conclude il Presidente Grasso – a chi ha dedicato con coerenza tutta la sua vita all’impegno civile e politico.”

L’Italia ricorda Simone Veil

Caro Presidente Casini, Autorità, gentili ospiti, cari amici

Sono particolarmente lieto di poter ospitare oggi qui in Senato questa cerimonia con la quale, con profonda commozione, rendiamo omaggio a una figura di straordinario spessore politico, culturale e sociale quale è stata Simone Veil. Permettetemi di ringraziare sentitamente la Commissione Affari esteri, emigrazione, ed in particolare il suo Presidente, Pier Ferdinando Casini, per aver fortemente voluto questo momento e per averlo organizzato. Saluto con affetto anche Emma Bonino e Nathalie Loiseau, che con il loro prezioso contributo, ci accompagneranno nel ricordo di questa donna straordinaria. Personaggio dal destino eccezionale, protagonista di primissimo piano della politica internazionale, Simone Veil, è stata una donna libera, appassionata, che ha sempre lottato con determinazione, in coerenza con i propri ideali.

E’ stata la prima donna Presidente del Parlamento Europeo e lo divenne prendendo il testimone da un’altra grande donna simbolo dell’Europa unita, francese ed ebrea come lei, la decana dell’Assemblea Louise Weiss.

Come Louise Weiss, anche Simone Veil aveva mosso severe critiche agli Stati-nazione e al nazionalismo esasperato, visti come portatori naturali di conflitti. Sopravvissuta insieme alla sorella al disumano orrore dell’olocausto che le aveva portato via i genitori e un fratello, vedeva in un’Europa libera, unita e sovranazionale l’unica possibilità di coesistenza pacifica tra Paesi che nel corso della storia si erano sempre aspramente combattuti. Simone Veil, donna di diritto, ma grande appassionata di politica, divenne la prima Presidente di un Parlamento europeo eletto a suffragio universale e diretto, il Parlamento di un’Europa ormai concreta e reale, in piena fase di istituzionalizzazione. A lei, libera e forte, venne quindi affidato il compito gravoso della quotidiana gestione, tra mille difficoltà di bilanci, conflitti tra governi e ostruzionismi politici. Con la sua elezione divenne il simbolo della riconciliazione possibile tra francesi e tedeschi, alla quale già pensava quando, appena diciottenne, liberata da Auschwitz, guardava al futuro a testa alta, con fierezza e determinazione. Nel suo memorabile discorso di insediamento, Simone Veil invocò la creazione di un’«Europa della solidarietà», «dell’indipendenza» e «della cooperazione», una «Comunità fondata su un patrimonio comune e sul comune rispetto per i valori umani fondamentali». La chiave dell’Europa del futuro era nella sua stessa identità, unitaria e non gregaria. Nella sua lucida visione, l’unità dell’Europa rappresentava al tempo stesso l’unica possibilità di salvaguardare tutte le autonomie nazionali.

Simone Veil era stata magistrato, era stata ministro, era una donna delle Istituzioni ma prima di tutto è stata colei che ha messo sempre in primo piano il valore della persona. La sua storia personale, seppur da lei mai raccontata, ma solo e sempre accennata con grande commozione, l’ha sempre portata a battersi a tutela dei più deboli. Credeva fermamente nella trasmissione della memoria, un dovere nei confronti di coloro che erano stati vittime del furore nazista, ma un dovere anche verso i giovani, come contributo alla presa di coscienza individuale e collettiva.

Oggi tutti noi ne omaggiamo e ricordiamo la figura ma la sua eredità, forte e chiara, è rappresentata da dalle ambizioni che ancora oggi può avere l’Europa. Senza di lei non sarebbe stato possibile.

Grazie.

 

Cerimonia del ventaglio 2017

Cari giornalisti, cari colleghi, gentili ospiti,

sono davvero felice di essere qui con tutti voi, il presidente Sergio Amici e i componenti dell’Associazione Stampa Parlamentare, per rinnovare la lunga tradizione della cerimonia del Ventaglio, che ci porta ogni anno a passare in rassegna i principali temi politici e a tracciare un bilancio prima della pausa estiva. La ringrazio, presidente Amici, per aver bene inquadrato il tema delle migrazioni come un fenomeno strutturale che va affrontato in modo serio e lungimirante, alla ricerca di quello che ha chiamato un delicato equilibrio.

Una prima considerazione è certamente legata alla dimensione e all’origine del fenomeno migratorio: i profondi cambiamenti geopolitici che hanno interessato l’Africa, il Mediterraneo e il medio-oriente determinano imponenti flussi di persone che lasciano i loro Paesi d’origine in cerca di un futuro migliore. Si tratta di una realtà che non interessa solo l’Italia ma tutta l’Europa, che ha colpevolmente sottovalutato le conseguenze delle crisi degli anni scorsi, dall’Iraq alle “primavere arabe”, dalla Siria alla Libia. Il nostro continente si misura con una sfida epocale, e dal modo di affrontarla dipenderà il suo futuro e il giudizio che ne daranno le nuove generazioni di cittadini europei.

Le Istituzioni comunitarie, gli Stati e i governi che ne fanno parte devono assumersi la responsabilità di scegliere se dare un valore concreto agli ideali sui quali si fonda il sogno europeo, aiutando con animo solidale il nostro Paese nella gestione dei migranti, o se sacrificarli in nome di interessi e calcoli elettorali; scegliere se la vita sia ancora un bene non negoziabile e la sua difesa un valore assoluto, come ci siamo promessi all’indomani della II guerra mondiale, oppure no; scegliere se il diritto al futuro di un bambino di Aleppo o nigeriano sia minore di quello di uno di Roma o di Berlino. L’Unione europea deve decidere, in poche parole, se incidere sui processi storici o affidarsi egoisticamente alla geografia. La politica, a livello nazionale ma soprattutto a livello europeo, deve abbandonare i tatticismi – che si consumano drammaticamente sul dolore di chi fugge e soffiano sulla paura dei cittadini – e ragionare in termini strategici e complessivi. Si deve assolutamente rifiutare la logica dell’emergenza e impegnarsi pazientemente nel sostegno ai Paesi dove oggi non esistono diritti, stabilità politica, possibilità di sviluppo: solo in questo modo potremo – nei prossimi decenni, non giorni – gestire e controllare le migrazioni. Da questo punto di vista credo che il Governo, con l’opera del presidente Gentiloni e del ministro Minniti, stia facendo un importante lavoro che deve essere sostenuto e incoraggiato da tutte le forze politiche.

Se questa strada, necessaria, avrà effetti solo nel lungo periodo, nell’immediato non possiamo eludere per nessuna ragione il tema del salvataggio di chi affronta il mare perdendo troppo spesso la vita. In questi mesi molto si è discusso sulle modalità di queste operazioni, sulla ripartizione delle responsabilità e degli oneri, su possibili infiltrazioni della criminalità organizzata. Sono rilievi che meritano attenzione e approfondimento. D’altro canto, però, ci si è troppo in fretta dimenticati che fino a pochi mesi fa assistevamo dalle nostre coste alla morte di centinaia e centinaia di uomini, donne e bambini. Con tutti i nostri limiti e i nostri difetti, stiamo impedendo il perpetrarsi di una tragedia di enormi dimensioni. Vorrei dunque ringraziare la Guardia Costiera, la Marina militare, tutte gli uomini delle Forze Armate e delle Forze dell’Ordine e i volontari per lo straordinario lavoro che svolgono in condizioni spesso difficili: abbiamo uomini e donne di grande competenza, di incredibile professionalità e di profonda umanità dei quali dobbiamo essere tutti, nessuno escluso, veramente orgogliosi. Lo ripeto da mesi, in uno sforzo dialettico che ritengo essenziale proprio nel momento di maggiore crisi della politica, delle idee e della comunicazione: salvare vite umane e accogliere i rifugiati non è un atto di buon cuore ma un dovere giuridico sancito dalla nostra Costituzione e dai trattati internazionali.

Oltre a questo, vi è anche una prospettiva morale e culturale. Cedere sui valori sui quali si fonda la nostra cultura democratica significa dare avvio a una spirale negativa sempre più difficile da fermare. Lo vediamo dalle reazioni che si stanno diffondendo nel Paese, con blocchi e proteste per l’arrivo anche solo di minori non accompagnati. Lo vediamo dal dato per cui più del 50% dei comuni non contribuisce all’attuazione del piano di accoglienza diffusa, l’unica che possa garantire maggiore tranquillità e sicurezza per i cittadini. Soffiare sulla paura, diffondere odio e cavalcare il disagio espone la nostra comunità a un progressivo indebolimento. La paura è un sentimento legittimo, cui la politica deve prestare ascolto e attenzione: i partiti, i movimenti e i loro leader devono riappropriarsi del compito di accompagnare i cittadini, ascoltandone gli umori senza subirli, e di mostrare loro una visione complessiva dei problemi senza accettare le lusinghe di un facile quanto effimero consenso.

Presidente Amici, tra i temi da bilanciare lei cita anche la questione della cittadinanza, troppo spesso e strumentalmente connessa a quello degli sbarchi. Con una frettolosa approssimazione la legge in discussione è stata impropriamente definita “Ius soli”, prestando il fianco a eccessi retorici che ne hanno, al momento, rallentato l’iter. Il provvedimento, ora in seconda lettura in Senato, intende modificare il meccanismo che già conferisce, su richiesta, la cittadinanza ai figli di stranieri regolarmente presenti sul nostro territorio, solo al compimento del diciottesimo anno di età. Nello specifico verrebbero introdotte altre due modalità di ottenimento della cittadinanza, attraverso il cosiddetto “Ius soli temperato” e lo “Ius culturae”, modificando una legge che, al momento, è tra le più restrittive in Europa. Dal mio punto di vista questa è una legge che non disegna il futuro ma fotografa l’esistente: nelle classi dei nostri figli e nipoti, in ogni città, siedono negli stessi banchi bambini italiani con la cittadinanza e bambini che possiamo definire “italiani senza cittadinanza”, e che condividono il tempo, gli studi, i percorsi di legalità, le passioni, i desideri e i sogni. Personalmente, l’ho detto molte volte, credo che offrire a chi nasce, studia e cresce in Italia la possibilità di sentirsi pienamente parte della nostra comunità nazionale serva a rendere il nostro Paese più forte e sicuro: chi è escluso dalla vita comune, chi non esercita i diritti e i doveri di cittadinanza, chi è rinchiuso nelle periferie esistenziali delle nostre città è più debole, e quindi più vulnerabile al radicalismo ideologico e all’illegalità. Vale per tutti, italiani e stranieri. Integrare, riconoscere diritti, doveri e opportunità significa fare sicurezza. Credo anche che sia in linea con la nostra tradizione democratica, con i principi della nostra Costituzione e, per chi ha fede, anche con i valori cristiani. Per tutte queste ragioni auspico che l’augurio, da più parti condiviso, possa tradusi nell’approvazione di questa legge.

Nel suo intervento, presidente Amici, lei faceva riferimento a una nota frase di James Freeman Clarke, citata in Italia da Alcide De Gasperi: “Un politico pensa alle prossime elezioni, uno statista alla prossima generazione”. Debbo con rammarico rilevare che spesso il pensiero si ferma, in molti casi, ai giornali del giorno dopo. E’ quanto mai vitale che la politica torni ai suoi valori essenziali – competenza, passione, responsabilità, lungimiranza strategica e slancio etico –  e ad un linguaggio diverso nei toni, nelle parole, nei contenuti: le ferite che si producono nel tessuto della nostra società, sempre più fragile ed esposta a rabbia e frustrazione, ci indeboliscono come nazione, allontanano i cittadini dalle urne ma anche dalle Istituzioni.

Presidente Amici, i miei doveri istituzionali di presidente del Senato, rispetto a quando ho espresso l’impossibilità di candidarmi a Presidente della Regione siciliana sono, se possibile, ancor più stringenti in questo momento. E’ noto a tutti che negli ultimi giorni si siano avvertite fibrillazioni politiche nella maggioranza che sostiene il governo, e che i prossimi mesi saranno particolarmente delicati. La fase finale della legislatura sarà, temo, fortemente influenzata dall’avvicinarsi delle elezioni nella primavera del 2018. Su due passaggi fondamentali però il senso di responsabilità dovrà prevalere su qualsiasi calcolo elettorale.

Il primo è la legge di Bilancio: spetterà al Governo trovare, calibrando le richieste delle parti politiche, il giusto equilibrio dei conti dello Stato per il prossimo anno, sulla base delle linee della Nota di aggiornamento al DEF predisposta dal ministro Padoan e votata dal Parlamento, con l’intento di sostenere la ripresa – con particolare attenzione all’occupazione giovanile, i cui dati restano preoccupanti – e proseguire nel percorso di aggiustamento dei conti pubblici, in piena condivisione con l’Unione europea ed evitando possibili intenti speculativi.

Presidente Amici, sulla Legge elettorale si giocherà la credibilità dei partiti da qui alle elezioni. Credo fermamente che due sentenze della Corte Costituzionale – che hanno dichiarato la parziale incostituzionalità di due leggi elettorali diverse – non possano da sole disciplinare la rappresentanza dei cittadini in Parlamento. Le disomogeneità da superare sono molteplici: al Senato sono ammesse le coalizioni fra le liste, mentre alla Camera no; le rispettive soglie di sbarramento sono notevolmente differenti, con conseguenze sulla diversità di composizione delle Camere; al Senato andrebbero introdotte le preferenze rispettando l’equilibrio di genere, così come previsto per la Camera; alla Camera è previsto il capolista bloccato e pluricandidato, mentre al Senato no; al Senato non è previsto alcun premio di maggioranza per le coalizioni, mentre alla Camera si, ma solo per la lista che ottenga il 40% dei voti.Questi non sono né tecnicismi da addetti ai lavori né minuzie da risolvere con un Decreto a fine legislatura: sono questioni che incidono sul principio costituzionale della rappresentanza e della sovranità popolare, e che vanno affrontate con grande serietà, responsabilità e la più ampia condivisione. Appare evidente che queste disomogeneità tra Leggi elettorali possano generare troppe incertezze e il forte rischio di consegnare al Paese due Camere senza maggioranza o con maggioranze completamente diverse. Auspico quindi che da settembre riprenda, alla Camera o in Senato, il dialogo tra i Gruppi per dare al Paese una legge chiara e funzionale, che tenga nel giusto equilibrio il principio costituzionale della rappresentanza e l’esigenza politica della governabilità.

Presidente Amici,

sulla riforma dei regolamenti parlamentari credo che ci sia la concreta possibilità di realizzare in questa legislatura modifiche condivise, anche se limitate ad alcuni specifici punti, ma comunque dirette ad accelerare l’iter legislativo, semplificare le procedure e ad aumentare l’efficienza del nostro sistema parlamentare. L’attuale bicameralismo può essere profondamente trasformato, a Costituzione invariata, attraverso l’innovazione delle procedure parlamentari. Per questa ragione ho presentato alla Giunta per il Regolamento un documento stilato per punti, una sorta di “decalogo” attraverso il quale conseguire quel “bicameralismo razionalizzato” di cui parlava già il professor Leopoldo Elia negli anni ’80. L’iniziativa, che corrisponde ad una esigenza diffusa da parte di tutti i gruppi parlamentari, è ora al vaglio di un comitato ristretto della Giunta formato da quattro componenti (i senatori Zanda, Calderoli, Bernini e Buccarella), che hanno già trovato un accordo di massima su molti dei punti proposti: da parte mia non mancherà l’impegno per proseguire in quel percorso che ho considerato essenziale sin dall’inizio della legislatura ma che, nelle more della Riforma Costituzionale, era stato temporaneamente accantonato.

Presidente Amici, non posso che ribadire che si debba fare tutto il possibile per concludere in questa legislatura l’esame di alcuni provvedimenti molto importanti: norme che incidono sulla vita dei cittadini, sull’economia, sugli investimenti, sulla giustizia, sulla libertà di informazione. In questi anni ho imparato che i tempi dipendono soltanto dalla volontà politica: quando vi è accordo tra le parti il percorso diventa agevole e rapido; non posso allora non augurarmi che ciascun gruppo parlamentare assicuri, nell’interesse del Paese, la propria collaborazione per l’approvazione queste leggi.

Rispetto alle tre specificamente richiamate da lei, credo che rimandare ulteriormente l’approvazione di quella sulla concorrenza restituisca l’immagine di un Paese prigioniero di veti incrociati e incapace di produrre il cambiamento necessario in molti settori strategici per la crescita e lo sviluppo economico e sociale.  Ritengo doveroso procedere speditamente anche sulle norme in materia di candidabilità, eleggibilità e ricollocamento dei magistrati quando scelgono di impegnarsi in politica. Personalmente, nel 2012, quando accettai la candidatura alle elezioni politiche decisi di lasciare definitivamente la magistratura ma, in generale, ritengo sia opportuno trovare un giusto equilibrio tra la necessaria indipendenza tra i poteri legislativo e giudiziario, un ricollocamento fuori dai ruoli inquirenti e giudicanti e il diritto costituzionale di ciascun cittadino, anche magistrato, di ricoprire un incarico elettivo o di governo. Sul tema della diffamazione, dell’abolizione del carcere per i giornalisti e il contenimento delle querele temerarie devo invece constatare che nulla è cambiato dal nostro ultimo incontro: come ho avuto modo di ribadire in moltissime occasioni ritengo che sia di fondamentale importanza garantire ai professionisti dell’informazione la possibilità di svolgere fino in fondo il loro prezioso lavoro, che definisce la qualità del dibattito pubblico e quindi della nostra democrazia.

Presidente Amici, mafia e corruzione sono certamente connesse. Se abbiamo sconfitto la ‘cosa nostra’ violenta, stragista e sanguinaria, non possiamo dire lo stesso di quella capace di sparire, inabissarsi e ricomparire sotto altre forme. In particolar modo abbiamo assistito ad una rapida evoluzione delle mafie, sempre più passate dalle intimidazioni alla corruzione, soprattutto fuori dai territori d’origine, e alla loro pericolosissima capacità di infiltrarsi, a tutti i livelli, nella società, nell’economia, nella politica locale e nazionale, nella Pubblica Amministrazione. L’Italia ha, complessivamente, un’ottima legislazione sia sotto il profilo della prevenzione che sotto quello della repressione dei reati. La recente revisione del codice appalti, ad esempio, è un importante tassello che può sicuramente essere migliorato, soprattutto nella sua fase applicativa. Al lungo elenco dei provvedimenti che giacciono nelle Commissioni e che potrebbero essere rapidamente approvati non posso allora non aggiungere quello che tutela i lavoratori che denunciano episodi corruttivi, i cosiddetti whistleblower. La speranza, anche in questo caso, è che si possa presto riprendere e concludere il cammino di una legge utile a far emergere la corruzione.

Sul Codice antimafia è utile premettere che comprende misure di contrasto efficaci ed attese che colpiscono le mafie soprattutto sul profilo patrimoniale, allargando la confisca alle ecomafie, snellendo i passaggi dal sequestro alle confische, e soprattutto rinnovando l’Agenzia per i beni confiscati, in modo da poter gestire con maggior agilità e profitto i beni ai fini dell’utilità sociale e dare così prova di efficienza del sistema. Nel contempo si sono aumentate le garanzie delle misure di prevenzione per tutti, prevedendo un ampliamento del diritto di difesa nella fase del sequestro, introducendo la possibilità di un controllo da parte di un amministratore giudiziario per eliminare preventivamente le infiltrazioni mafiose, e istituendo l’incompatibilità tra chi gestisce i beni e i magistrati. L’articolo 1, a seguito delle polemiche sorte durante la discussione in Senato, è stato modificato secondo le indicazioni del Procuratore nazionale antimafia, limitando la portata di applicazione delle misure di prevenzione previste per i più gravi reati contro la Pubblica amministrazione alle sole ipotesi di associazione a delinquere, che quindi presuppongono una rete corruttiva e quindi un’alta pericolosità sociale.  Questa esigenza che sembra attuale in conseguenza dell’utilizzazione da parte delle mafie dei sistemi corruttivi, era in realtà già avvertita il 26 febbraio 1980 da un intellettuale di sicuro spirito garantista come Leonardo Sciascia, eletto nelle fila di un Partito, quello Radicale, che del garantismo ha sempre fatto una bandiera. Intervenendo alla Camera su una mozione presentata dall’On.le La Torre, che conteneva la proposta di combattere il fenomeno mafioso riformando il sistema delle misure di prevenzione secondo criteri che introducessero forme di controllo sugli illeciti arricchimenti, ebbe a dire:

“Secondo me, è questo il punto; l’illecito arricchimento. Questa proposta va benissimo, ma bisogna allargarla, estenderla; il controllo, cioè, deve estendersi anche a noi, che stiamo su questi banchi, a coloro che siedono sui banchi del Senato, a coloro che siedono nelle assemblee regionali e nei consigli municipali, non trascurando nemmeno certi funzionari e certi ufficiali che hanno il compito di prevenire e reprimere appunto il fenomeno mafioso”.

Come si può vedere, parole di bruciante attualità.

Concludo facendo i miei più sinceri complimenti a Elena Boni per il bellissimo ventaglio di cui oggi mi fate dono e, con lei, al presidente dell’Accademia di Belle arti di Roma, Mario Alì, ed alla direttrice Rosa Passavanti. Ringrazio tutti i giornalisti dell’Associazione Stampa Parlamentare che svolgono un lavoro delicato e prezioso nel descrivere e raccontare con attenzione e professionalità la vita quotidiana e le attività del Senato. È soprattutto attraverso di voi che i cittadini possono informarsi ed essere puntualmente aggiornati sull’attualità politica. Ringrazio il Segretario Generale Elisabetta Serafin, i due Vice Segretario Generale, Federico Toniato e Alfonso Sandomenico, e attraverso loro tutto il personale dell’Amministrazione del Senato per il prezioso contributo che hanno dato e danno al Presidente e a tutti i Senatori. Infine, un particolare ringraziamento al nostro Ufficio stampa e al suo direttore, impegnati nel difficile compito di garantire la trasparenza e la completezza delle informazioni sui lavori di questa antica Istituzione con moderni strumenti di comunicazione, social network inclusi: un compito che richiede tanta passione e competenza e per il quale vi sono sentitamente grato.

Grazie a tutti.

Noi e i 57 giorni di Borsellino

Ricordo di Paolo Borsellino per il Sole 24 Ore

Il 19 luglio è un giorno che racchiude in sé dolore, emozione e pensieri, ricordi, bilanci e promesse che trovano spazio all’ombra dell’ulivo piantato nel luogo in cui un tremendo boato trascinò con sé la vita di Paolo Borsellino, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Il dolore e lo sconforto confondono e ridisegnano la nozione che abbiamo del tempo: ecco come venticinque anni – o cinquantasette giorni – sembrano interminabili e, al tempo stesso, volati via in un secondo. La quiete di una domenica qualunque d’estate si trasformò, in un istante, in una ferita che non potremo mai sanare. Non abbiamo dimenticato nulla di quella domenica palermitana, né della vita e dell’esempio degli uomini e delle donne vittime della furia omicida della mafia.

Quando penso a Paolo Borsellino, nella mia mente si affollano i ricordi di un uomo solare, simpatico, sempre pronto allo scherzo: memorabili i lanci di molliche di pane che puntualmente iniziava nelle seriose cene tra colleghi della procura. Sul lavoro aveva uno straordinario talento, supportato da una passione viscerale e una ineguagliabile capacità di superare fatica e delusioni. Paolo trovava sempre il tempo per aiutare un collega più giovane: io stesso fui ben lieto di poter contare sui suoi preziosi suggerimenti e consigli quando affrontai le migliaia di carte dell’istruttoria del maxiprocesso. Credeva in quello che faceva, sentiva di avere una grande responsabilità e nulla lo avrebbe fatto desistere dai suoi obiettivi. Neanche la strage di Capaci, quando tutto cambiò per sempre: fu proprio lui, quando mi precipitai all’ospedale nella speranza che fosse ancora vivo, a dirmi che non c’era più nulla da fare per Giovanni Falcone. Nella sua espressione lessi molto di più dell’incommensurabile dolore che ci univa in quel triste momento. Paolo sapeva: dopo Giovanni, lui era la vittima designata. Molti, al suo posto, avrebbero reagito diversamente, magari avrebbero abbandonato il campo. Lui no. Scelse di non arrendersi, di continuare a lavorare incessantemente. Ci offrì una commovente lezione di coerenza e amore per la giustizia, per la verità, per il nostro Paese. Lo fece in cinquantasette giorni, il poco tempo che ‘cosa nostra’ gli concesse. Borsellino ha saputo– non solo con la sua morte ma con tutta la sua vita –  lasciare un indelebile segno nelle coscienze di un’Italia impaurita e senza fiducia.

L’eredità che ci tramanda si ritrova nella convinzione dei molti che ogni giorno si impegnano per la legalità; nella voce di chi non rimane più in silenzio; nel coraggio di quanti rifiutano di pagare il pizzo o di truccare un appalto. Abbiamo percorso molta strada da allora, ottenendo risultati straordinari sia con l’antimafia della repressione che con quella della speranza. Abbiamo bisogno dell’impegno di tutti per continuare, soprattutto delle ragazze e dei ragazzi nati dopo il 1992: pensando a loro, che non hanno avuto modo di conoscere le tante persone cadute nel contrasto a cosa nostra, ho voluto raccogliere nel libro “Storie di Sangue, Amici e Fantasmi” i miei ricordi, con la speranza di trasmettere loro i valori e gli ideali che ci hanno guidato in una battaglia che necessita ora anche del loro contributo. Potremo dirci soddisfatti solo quando – e succederà – la mafia avrà una fine.

Presentazione del programma europeo EL PAcCTO

E’ per me un grande piacere ospitare in Senato la presentazione del programma EL PAcCTO, e aprire personalmente questo incontro, proprio in coincidenza con la felice ricorrenza del 50° anniversario della Fondazione dell’IILA, l’Istituto Italo Latino Americano, cui spetta attuare questa importante iniziativa.

E ne sono particolarmente lieto per due ragioni. La prima di carattere personale: perché ho sempre interpretato il mio impegno professionale precedente di Procuratore Nazionale Antimafia anche in chiave internazionale e ho speso molte energie per far conoscere l’esperienza italiana, per costruire e rafforzare istituzioni e strumenti di contrasto al crimine organizzato transnazionale e per il rafforzamento dello Stato di Diritto. La seconda riguarda il luogo in cui siamo ed il ruolo che mi trovo oggi a ricoprire. Tutto qui ricorda la figura di Amintore Fanfani, Senatore a vita e Presidente del Senato. Fanfani che volle fare proprio di questa Sala un luogo privilegiato di confronti culturali e di appuntamenti essenziali nel dibattito pubblico italiano e internazionale. Non per caso qui In Senato, a pochi metri da noi, sono conservate, in Archivio Storico, le sue carte pubbliche e private, mentre la Biblioteca del Senato ha il privilegio di custodire parte dei suoi libri.

Alla straordinaria intuizione di Fanfani, allora Ministro degli Esteri, dobbiamo l’istituzione dell’IILA. Nel voler costruire uno strumento efficace di promozione dei rapporti tra il nostro Paese e l’America latina, Fanfani ebbe l’idea originale di costruire un organismo multilaterale, uno strumento che vede i rappresentanti del nostro Paese e dei Paesi del Continente sudamericano partecipare su un piano di perfetta parità a quella che lui amava chiamare “una piccola Onu”. Un organismo capace di valorizzare, si diceva già allora, i contributi al progresso compiuti da ciascun paese e, diceva lo stesso Fanfani, “eccezionale nella storia delle relazioni diplomatiche dell’Italia con l’America Latina, […] del continente americano con l’Europa, e […] infine anche dei rapporti interni fra i paesi latino americani”. Questi per la prima volta dopo diversi anni si sono trovati, allora, seduti attorno allo stesso tavolo, impegnati nella realizzazione di una significativa opera comune di cooperazione e di pace.

Proprio l’originale carattere multilaterale – perfettamente coerente con la tradizione diplomatica italiana –  rende questo Istituto uno strumento privilegiato nell’attuazione di programmi di ampio respiro, come questa iniziativa di cooperazione avviata dall’Unione europea.

Un programma che reputo utilissimo per il rafforzamento dello Stato di diritto e il contrasto al crimine organizzato transnazionale in America Latina, e che mi pare si ponga coerentemente nel solco di progetti cui l’Italia ha dato in passato un contributoprezioso. Mi piace ricordare, se mi è consentita una nota personale, che io stesso partecipai, su invito del Ministero degli Affari Esteri, a un programma italiano antesignano di questo, sulla criminalità organizzata e il riciclaggio nei Paesi del Centro America, che ebbe un grande successo e si concluse con un evento nella Sala dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nel quale io ebbi l’onore di rappresentare l’Italia insieme all’allora Ministro della Giustizia Paola Severino.

Le gravissime fratture geopolitiche e la dissoluzione di strutture politiche e istituzionali che caratterizzano il nostro tempo hanno determinato vuoti che sono stati spesso colmati da poteri informali, criminali e terroristici, generando o accentuando l’emersione di fenomeni globali capaci di influenzare la stabilità degli Stati, la democrazia, l’economia e la finanza, i diritti delle persone, l’ordine mondiale. Penso alla criminalità organizzata transnazionale, al terrorismo internazionale e all’economia criminale generata dalla vasta area dell’illecito, in cui rientrano a titolo di esempio anche corruzione, evasione e riciclaggio. Il carattere di tali fenomeni, che non sono controllabili dai singoli Stati, impone un’azione della comunità internazionale a diversi livelli. Occorre dare vita ad azioni coordinate che permettano di rispondere alla globalizzazione della criminalità con la globalizzazione della legalità. In altri termini, per reagire alla crescente internazionalizzazione delle reti delle mafie, del terrore e dell’economia illegale, gli Stati devono impegnarsi a superare forme cooperative obsolete, meccanismi farraginosi e ostacoli di carattere politico.

Personalmente sono sempre stato convinto della necessità di guardare a questi fenomeni anche attraverso la lente della geopolitica e delle relazioni internazionali. Per questo, nella prospettiva della globalizzazione della legalità, nella mia precedente esperienza di magistrato e di Procuratore nazionale antimafia, ispirandomi alle profetiche intuizioni di Giovanni Falcone, mi sono dedicato con convinzione ad implementare una rete di cooperazione internazionale per rafforzare l’azione giudiziaria, ed in particolare il ruolo della magistratura inquirente. Ho partecipato personalmente all’attivazione di progetti sovranazionali di contrasto al crimine, alla corruzione, all’economia illegale, fondati sulla condivisione di norme e di strumenti operativi, sulla realizzazione di programmi comuni di formazione e sullo scambio di informazioni e elementi di indagine.

Ho sottoscritto accordi di collaborazione con le massime autorità giudiziarie di decine di paesi del mondo, dai Balcani all’America Latina: una sorta di “diplomazia penale” che ha però avuto fortuna diversa, in relazione alle occasioni di cooperazione che si sono di fatto presentate nel corso di indagini a respiro transnazionale. In molti casi i protocolli di cooperazione hanno persino anticipato accordi governativi costitutivi di obblighi giuridicamente vincolanti in tema di estradizione e mutua assistenza. In altri casi, lo scambio informativo fra uffici giudiziari, rapido, essenziale e orientato a precisi obiettivi, ha certamente favorito lo sviluppo delle indagini; mentre la circolazione di idee e proposte investigative, oltre che di taluni specifici strumenti giuridici, ha permesso anche di far conoscere l’avanzato sistema italiano di contrasto alla criminalità organizzata, in tema soprattutto di aggressione ai patrimoni illeciti, di tecniche investigative, di protezione dei testimoni e dei collaboratori di giustizia.

Credo che in questa prospettiva il programma che oggi presenterete, per il consolidamento della sicurezza e dello Stato di Diritto in America Latina, possa una volta di più essere l’occasione per il nostro Paese, le nostre istituzioni e più in generale per il nostro sistema, di dare un contributo efficace alla costruzione di un mondo più pacifico e giusto. Vi esorto dunque a lavorare con impegno e fiducia reciproca e vi auguro ogni fortuna. Grazie.

 

 

Premio Peter H. Rossi al professor Alberto Martini

Onorevoli colleghi, gentili ospiti,

è per me un grande piacere e motivo di particolare soddisfazione poter ospitare oggi, in Senato, la cerimonia di consegna del prestigioso Premio Rossi al professor Alberto Martini, docente di statistica e di metodi statistici per la valutazione delle politiche pubbliche, presso l’Università del Piemonte Orientale. Voglio anzitutto ringraziare il professor Besharov, presidente della Commissione di valutazione del Premio, che ha voluto essere presente a questa cerimonia. Ringrazio anche gli altri quattro componenti della Commissione, professori di prestigiose Università statunitensi. Il Premio è assegnato annualmente e quest’anno, per la prima volta, è conferito a un esperto di valutazione delle politiche pubbliche che opera al di fuori degli Stati Uniti.

Il premio, che può essere assegnato per una singola ricerca oppure per un intero corpo di lavori, è stato attribuito ad Alberto Martini per il suo contributo, fornito nel corso della sua lunga esperienza professionale, all’avanzamento e all’approfondimento di metodologie rigorose di valutazione delle politiche pubbliche e dei programmi sociali, e vuole essere anche il riconoscimento alla sua leadership nell’aver promosso i più alti standard nella ricerca basata sull’inferenza causale, sia in Italia che in Europa. Al professor Martini rivolgo i più vivi complimenti del Senato e miei personali, contando fin d’ora sulla sua preziosa collaborazione per la nostra Istituzione. La valutazione delle politiche pubbliche è un tema essenziale e imprescindibile per il buon funzionamento delle moderne società democratiche. Il legislatore ha, infatti, sempre maggior bisogno di essere supportato nelle sue scelte da indicazioni che non si limitino più alla sola conformità con le disposizioni legislative e costituzionali, ma anche e soprattutto da indicazioni circa l’efficacia delle norme, già approvate o da approvare. Conoscere il più precisamente possibile quali sono stati o quali potranno essere gli effetti delle scelte, sapere se una legge ha funzionato, se ha avuto gli effetti desiderati, cosa sarebbe accaduto se non si fosse intervenuti e se magari sarebbe stato possibile impiegare meglio i fondi pubblici. Questi sono gli interrogativi, cruciali, ai quali gli studiosi di valutazione possono contribuire a dare una risposta che consenta al decisore politico di effettuare scelte maggiormente consapevoli e informate.
La valutazione delle politiche pubbliche è quindi uno strumento che non si sostituisce alla decisione politica. Ha l’obiettivo di rendere consapevole il decisore delle conseguenze delle varie opzioni possibili, promuovendo la conoscenza e la trasparenza di informazioni essenziali per il processo decisionale.

Per queste ragioni, ricordando le parole di Luigi Einaudi “conoscere per deliberare”, credo sia prioritario sviluppare e potenziare sempre di più la cultura della valutazione all’interno delle Istituzioni, sia parlamentari che amministrative. La Presidenza del Senato, con la collaborazione dei Senatori Questori, ha avviato un lavoro intenso di formazione e approfondimento che consentirà di verificare gli effetti che si sono riscontrati a seguito delle decisioni assunte e quale correlazione vi sia tra effetti e strumenti, obiettivi e assetti organizzativi.
L’analisi di impatto sulla base dell’evidenza empirica presuppone e preserva l’imparzialità delle strutture tecniche di supporto, caratteristiche peculiari delle Amministrazioni parlamentari. Nel contesto parlamentare, il riscontro delle evidenze empiriche non conclude tuttavia l’attività valutativa. L’ultimo passaggio del processo è necessariamente la consultazione, attenta e critica, dei destinatari finali delle politiche stesse.
Infatti, la consultazione consente al Legislatore di conoscere le osservazioni dei soggetti destinatari delle norme adottate. Tale riscontro può consentire alle Amministrazioni di effettuare campagne informative mirate, specialmente nei casi in cui si registri una distanza significativa tra l’analisi di impatto delle norme e la “percezione” degli effetti di quelle norme da parte dei cittadini. Ciò risulta tanto più essenziale in settori e casi – penso all’ambito della salute pubblica – nei quali una percezione non corretta possa tradursi in comportamenti da parte dei cittadini che siano contrari ai loro stessi diritti costituzionalmente garantiti.

La consultazione consente quindi la realizzazione di modelli maggiormente avanzati di trasparenza, interazione e condivisione tra Legislatore e cittadini. La valutazione delle politiche pubbliche può divenire, pertanto, il mezzo di maturazione di una consapevolezza civica maggiormente informata, libera, democratica.

Grazie.