Promuovere l’integrità nella governance per combattere la corruzione politica

Autorità, Gentili Ospiti,

è con grande piacere che apro i lavori di questo seminario promosso dall’Onorevole Nicoletti nel quale verrà presentato per la prima volta in Italia il rapporto “promuovere l’integrità nella governance per combattere la corruzione politica” approvato dall’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa nel giugno di quest’anno. La corruzione si manifesta in forme molto differenti: ognuna necessita di azioni specifiche nell’ambito di un più ampio disegno. Questa è dunque una preziosa occasione per riflettere sulle strategie che ciascun Paese sta mettendo in campo, per confrontarsi e soprattutto per valutare il grado di collaborazione degli Stati membri in una battaglia che ci accomuna tutti. Il rapporto e le raccomandazioni contenute si inseriscono in un lungo percorso di attività che l’Assemblea ha svolto in questi anni, anch’esse di primaria importanza: ritengo sia davvero utile che questa Istituzione, con la propria sensibilità e il prestigio di cui gode, sia impegnata a mantenere alta l’attenzione su un tema che è centrale nella vita democratica di ogni Stato e nelle sue prospettive future. La corruzione è infatti un fenomeno complesso che investe molteplici attività e settori e si insinua pericolosamente anche e soprattutto nel cuore di una comunità, rendendola più fragile. È, in primo luogo, una minaccia alla ricchezza di una nazione perché favorisce chi agisce al di fuori del perimetro della legge danneggiando gli onesti, i più capaci, i meritevoli: questo stato di cose produce gravi effetti sulla qualità dei servizi e delle opere pubbliche. Vi è poi un aspetto che mi sembra ancora più rilevante e decisivo: la corruzione mina la credibilità del sistema e la fiducia dei cittadini. Abbiamo in questi anni assistito a troppi scandali che hanno fatto emergere come venga umiliato l’interesse della collettività in favore di un interesse particolare. Il rischio è che un cittadino – osservando un disprezzo verso la cosa pubblica esibito con così tanta arroganza – smetta di credere nella legalità, nel valore delle regole come fondamento dello Stato, nella democrazia. Quando viene meno la fiducia diminuisce anche l’impegno verso il prossimo, in una crescente spirale negativa che attanaglia le nostre comunità, i nostri cittadini, i nostri ragazzi. La prima è più importante dimensione attraverso la quale combattere il fenomeno della corruzione è quindi di carattere culturale.

Da questo punto di vista credo le parole di Papa Francesco siano, per tutti noi, un irrinunciabile punto di riferimento. Cito:

“la corruzione rivela una condotta anti-sociale tanto forte da sciogliere la validità dei rapporti e quindi, poi, i pilastri sui quali si fonda una società: la coesistenza fra persone e la vocazione a svilupparla. La corruzione spezza tutto questo sostituendo il bene comune con un interesse particolare che contamina ogni prospettiva generale. Essa nasce da un cuore corrotto ed è la peggiore piaga sociale, perché genera gravissimi problemi e crimini che coinvolgono tutti. La parola «corrotto» ricorda il cuore rotto, il cuore infranto, macchiato da qualcosa, rovinato come un corpo che in natura entra in un processo di decomposizione e manda cattivo odore”.

Parole forti, che non lasciano alcuno spazio al compromesso o al temporeggiamento. I primi destinatari di questo messaggio sono senza dubbio le istituzioni che hanno un duplice compito: da un lato devono perfezionare, integrare, aggiornare gli strumenti normativi e con essi conferire maggiore forza alle autorità impegnate tante nel campo della prevenzione quanto in quello della repressione; dall’altro devono sostenere tutti i processi che rendano il loro operato il più trasparente possibile, a tutti i livelli di governo e rappresentanza. Solo così infatti le istituzioni possono tornare a essere un punto di riferimento per i cittadini che, a loro volta, hanno il compito di fare la loro parte, non abbassando la guardia. Bisogna in qualche modo ribellarsi alla tentazione di voltare le spalle, di non farsi carico di questioni che riguardano la collettività: è solo quando questo genere di comportamenti divengono diffusi e sostenuti dalla maggioranza delle persone che le cose, anche quelle più difficili a apparentemente insormontabili, iniziano a cambiare.

Nel ringraziare il Presidente Nicoletti per il lavoro che ha svolto, lascio ora la parola ai relatori che, ne sono certo, sapranno entrare nel merito dei singoli aspetti enucleati nel rapporto e arricchire un dibattito di cui abbiamo veramente bisogno.

Grazie.

(Foto: ©2017 Carmine Flamminio / Senato della Repubblica)

 

Giornalisti aggrediti, colpevoli impuniti: convegno di Ossigeno

Intervento in occasione della giornata mondiale per mettere fine all’impunità per i crimini contro i giornalisti

Autorità, gentili ospiti,

sono lieto di aprire i lavori di questo convengo, voluto da Ossigeno, per celebrare la giornata mondiale per mettere fine all’impunità per i crimini contro i giornalisti indetta dall’Onu.

Il carattere internazionale delle iniziative di queste settimane corrisponde perfettamente alla dimensione del problema: in ogni parte del mondo – anche nelle più evolute e forti democrazie – ci sono giornalisti minacciati, ingiustamente querelati, intimiditi, uccisi. Solo nel corso di quest’ anno – ad esempio – sono stati registrati nel nostro Paese 317 attacchi: un numero raccapricciante se si considera che, mediamente, solo nell’1% dei casi viene individuato e punito l’aggressore. Tante volte ci siamo trovati – nel corso di questi anni – a sostenere assieme una battaglia importantissima per la nostra democrazia e per lo sviluppo della società; altrettante volte vi ho espresso la mia gratitudine per il vostro impegno che illumina le storie di tantissimi giornalisti ai quali è impedito di svolgere appieno il proprio lavoro al servizio della collettività. Non saranno mai sufficienti i ringraziamenti: è anche grazie ad Ossigeno che il tema della libertà di stampa e della tutela degli operatori dell’informazione è sempre più presente nel dibattito pubblico; è anche grazie a voi se la coscienza comune è più attenta, più sensibile, più coinvolta; è anche grazie a voi se intorno ai cronisti minacciati si è costruita una solida rete di vicinanza e solidarietà. Purtroppo non siamo sempre capaci di difenderli così come dovremmo e a volte le conseguenze sono davvero drammatiche.

Consentitemi a tal proposito di esprimere il mio personale cordoglio – e quello del Senato della Repubblica – per la morte violenta di Daphne Caruana Galizia, uccisa la scorsa settimana a Malta. La sua macchina è stata riempita di esplosivo, una immagine che evoca nella nostra mente altre atroci vicende. È successo nella nostra Europa, a pochi chilometri da noi. Daphne era una importante voce del suo Paese e aveva raggiunto notorietà internazionale con l’inchiesta relativa alle implicazioni maltesi dei “Panama Papers”, un’inchiesta particolarmente delicata per la quale si sono uniti reporter di tutto il mondo.

Alcuni mesi fa mi avete consegnato un pannello che riporta i nomi e i volti dei ventotto giornalisti italiani uccisi a causa della loro professione. Daphne non era italiana eppure credo che la sua vicenda sia identica alle loro. Quel pannello ha un titolo molto significativo: “cercavano la verità. 28 nomi una sola storia”. Sappiamo bene che la difesa del giornalismo libero non ha confini e che occorre vigilare ovunque ad un cronista sia impedito di esercitare il proprio fondamentale compito.

Oltre ad essere una giornalista coraggiosa, Daphne Caruana Galizia era una donna, una moglie e la madre di tre figli. Ai suoi cari giunga un caloroso abbraccio in questo momento di profonda rabbia e assoluta tristezza: la sua è un’altra vita sacrificata sull’altare dell’irreprimibile esigenza di verità che anima il giornalismo più valido e autorevole. Suo figlio Mattew – anche egli apprezzato reporter d’inchiesta – ha scritto sulla sua pagina Facebook:

“Mia madre è stata uccisa perché si è messa tra la legge e quelli che cercavano di violarla, come molti bravi giornalisti. Ma è stata colpita perché era l’unica persona a farlo. È questo quello che succede quando le istituzioni sono incapaci: l’ultima persona rimasta in piedi è spesso una giornalista. Il che la rende la prima persona a essere uccisa”.

Sono parole durissime che però restituiscono chiaramente il quadro entro il quale si realizzano la maggior parte delle intimidazioni e delle minacce ai danni degli operatori dell’informazione. La prima e più grande minaccia è la solitudine: siamo noi, tutti noi, a dover porre rimedio. Sono poi parole che descrivono perfettamente il fondamentale ruolo che svolge una stampa libera e indipendente rispetto al potere. Essa è funzionale al buon andamento delle Istituzioni perché una democrazia ha bisogno di penne libere, capaci di accendere i riflettori laddove si nascondono inefficienze, corruzione, malaffare.  In questi cinque anni avremmo dovuto – e potuto – agire anche sul piano legislativo per correggere delle gravi lacune del nostro sistema nel senso di una maggiore tutela del giornalismo. In ogni incontro con la stampa parlamentare, dal 2013 a oggi, ho sempre ribadito ad esempio la necessità di intervenire sul tema delle querele temerarie, che sono certamente meno pericolose di minacce di morte o aggressioni fisiche ma comunque incidono pesantemente sull’attività di molti vostri colleghi. Purtroppo temo che a meno di una tardiva ma ben accetta assunzione di responsabilità da parte di tutte le forze politiche presenti in Parlamento, la legislatura rischia di chiudersi senza l’approvazione di tali norme. Ringraziandovi ancora per l’importante ruolo che Ossigeno ha nel pungolare l’opinione pubblica e le istituzioni lascio la parola ai relatori, augurando a tutti voi buon lavoro.

Grazie.

(Foto: © 2017 Carmine Flamminio / Senato della Repubblica)

Centenario del Senatore Leopoldo Franchetti

Autorità, gentili ospiti

è per me un onore condividere con voi questo momento di riflessione e di approfondimento incentrato sulla figura e il pensiero del Barone Leopoldo Franchetti: il suo percorso umano e politico, come deputato e successivamente Senatore del Regno, e gli incarichi di grande rilievo a lui affidati, sono autentiche testimonianze delle straordinarie risorse e capacità di un uomo sempre orientato, con la forza e il coraggio delle idee riformiste e liberali, al perseguimento del bene comune. Grazie al professor Angelo Capecci e ai suoi colleghi per essere tra i più fattivi promotori delle attività della Fondazione Hallgarten-Franchetti che, continuando la tradizione dei fondatori, sviluppa e valorizza il patrimonio culturale e scientifico, operando nel campo della scienza dell’educazione, della ricerca e della istruzione. Eccellente sede di educazione formativa, che ospitò nel 1909 il seminario della Professoressa Maria Montessori, la Fondazione è oggi in Italia e in ambito internazionale un importante polo di sviluppo delle molteplici espressioni intellettuali e della crescita dell’uomo, arricchito costantemente da nuovi studi e contributi, attraverso pubblicazioni di ricerche. La giornata di oggi ha lo scopo significativo di ripercorrere la vita e l’attività di Leopoldo Franchetti, uno studioso e un uomo politico capace di riflettere sulla realtà del suo tempo in modo non ideologico, e di esplorarne gli aspetti più complessi attraverso indagini circostanziate condotte in prima persona, lontane da ogni astrazione teorica. Promotore di un conservatorismo liberale e illuminato, fu fortemente influenzato dal clima positivista del periodo, che considerava il metodo dell’indagine sul campo il primo passo per individuare le misure di intervento per risolvere i problemi sociali, e che vedeva nella combinazione tra politica e linguaggio economico-empirico un aspetto essenziale del governare.

Determinanti per il suo percorso di crescita culturale furono il soggiorno giovanile in Francia e i successivi viaggi per l’Europa, come anche l’incontro e il sodalizio negli anni universitari a Pisa con giovani intellettuali come Pasquale Villari, Sidney Sonnino, Enea Cavalieri, costituendo con loro un gruppo di intellettuali apertamente contrario all’avvento della Sinistra al potere. Erano i tempi in cui il barone Giovanni Nicotera, Ministro dell’Interno del primo Gabinetto Depretis, aveva la sfrontatezza di ammettere che un’azione repressiva condotta in maniera veramente incisiva e determinata contro la mafia ed il brigantaggio avrebbe alienato alla Sinistra buona parte del corposo sostegno elettorale ricevuto nel Mezzogiorno, il quale, per di più, costituiva l’asse portante della sua forza in campo nazionale.

Tre furono i suoi campi di indagine e di studio: la “questione sociale”, la “questione agraria” che all’epoca evidenziava tutta la sua drammaticità nel Mezzogiorno ed in particolare in Sicilia, e la “questione mafiosa”. Nato nel 1847, il contesto storico in cui visse e svolse la sua attività fu il periodo post-unitario. Il giovane Stato italiano aveva ereditato dal Risorgimento particolarismi regionali e territori economicamente e politicamente autosufficienti, ma anche un forte malcontento popolare, una profonda ineguaglianza tra le varie aree del Paese e una seria arretratezza socio-economica, soprattutto nel meridione. Ad aggravare la situazione vi era anche il profondo problema culturale di far crescere de facto nella coscienza degli italiani l’idea di essere una nazione, affinché le ragioni dello stare insieme prevalessero sulle innegabili differenze, e potesse emergere il sentimento di essere un solo popolo accomunato da una stessa lingua e da valori e tradizioni condivise. E’ in questo contesto che nacque la “questione meridionale”, che in Franchetti trovò un’autorevole voce nel panorama politico e culturale italiano. Le sue inchieste costituirono materiale prezioso per l’impostazione del problema del Mezzogiorno e per un’analisi più approfondita dei fenomeni di trasformazione della società dell’epoca. Non è senza significato che dal 1978 al 1882 Franchetti insieme a Sonnino si trovò a dirigere la “Rassegna Settimanale”, rivista edita con lo scopo precipuo di diffondere, in Italia ed all’estero, i temi della “questione meridionale”. Questo importante impegno culturale e sociale portò il Franchetti ad occupare un posto alla Camera sin dal 1882, dalla quindicesima alla ventiduesima legislatura, quale deputato di Perugia e Città di Castello, e al Senato dal 1909 fino alla sua morte, che lo colse a Roma nel 1917.

Seppe indagare gli aspetti più crudi del disagio sociale e della miseria del mondo rurale, con chiarezza di espressione e linearità di pensiero, senza nascondersi dietro parole condiscendenti e complici della colpevole sottovalutazione di un problema di cui aveva riconosciuto tutta la drammaticità. Così spiegava nella prefazione al piccolo volume Condizioni economiche ed amministrative delle province napoletane, pubblicato per la prima volta nel 1875: “ho chiamato le cose coi loro nomi ed ho usato espressioni dure dove mi sembrava che fossero giustificate”, ma nessuno incorra “in un patriottismo locale male inteso, che nega tutto e rifiuta di cercare i rimedi ai mali piuttostoché convenire […] di cose che tornino a disdoro della sua regione, provincia o comune”. “Gli abitanti di quelle province – prosegue – non sono responsabili dei mali che vi hanno trovati nascendo. […] Sono bensì responsabili di tutto ciò che non fanno, potendolo, per rimediarvi”.

La ricchezza e l’efficacia descrittiva di cui fu capace furono dunque accompagnate da un suo preciso e concreto impegno: riscattare il Mezzogiorno dal clientelismo e dalla corruzione che per buona parte lo dominavano, e imporvi l’autorità dello Stato e della legge. Decise di intraprendere insieme all’amico Sidney Sonnino un viaggio privato di studi e di indagine nel Mezzogiorno devastato da una forte crisi agraria, da gravi squilibri nella assegnazione delle proprietà fondiaria, da livelli di produttività inadeguati, da lotte tra proprietari terrieri e classe contadina e dalla presenza del brigantaggio e della mafia. Il mondo rurale siciliano aveva sete di giustizia e di riforme agrarie. Deluso, rivendicava le terre promesse durante le lotte risorgimentali: terre che invece andarono ad incrementare il patrimonio del ceto borghese e dell’aristocrazia.

La descrizione che Franchetti fece di Palermo mi pare ancora oggi straordinaria. Descrive quella che è la mia città come un paradiso in terra, ma dopo la prima impressione di struggente bellezza dovuta alla natura, agli agrumi della Conca d’oro, al clima, all’ospitalità dei suoi abitanti, lentamente l’incanto svanisce quando gli indicano luoghi facendo riferimento agli omicidi che li hanno bagnati di sangue, gli raccontano storie di violenze, di avvertimenti, di prepotenze, di delitti, di latitanti introvabili solo per le istituzioni, di interessate reticenze e segnali di omertà. Così, quello che appariva un paradiso si rivela un luogo infestato da demoni. Un’immagine dolce, affascinante ma anche forte e crudele che mi ricorda la Palermo della mia giovinezza e dei primi anni di magistratura. Durante il viaggio Franchetti e Sonnino scoprirono l’estrema povertà delle province siciliane: l’arretratezza economica, l’analfabetismo, l’incapacità di governo della classe dirigente locale di far fronte ai bisogni primari di una popolazione stremata da una lato, e la necessità dei latifondisti di ottenere “garanzie” perché il loro patrimonio fondiario venisse protetto dal malcontento popolare, dall’altra, aprirono un varco all’organizzazione mafiosa pronta, con la sua condotta criminale e contra legem, a colmare le lacune di uno Stato assente. Dei due volumi che derivarono dalla corposa inchiesta, il primo, scritto da Franchetti, Condizioni politiche e amministrative della Sicilia, torna spesso sul concetto di mafia, spingendosi a definirne i contorni, i meccanismi di sviluppo e radicamento nel territorio, descrivendo la figura del capo mafia, i crimini e le violenze commesse, gli sfregi, le intimidazioni, i condizionamenti, la paura.

Oggi la definizione che Franchetti propose della mafia può apparire per diversi aspetti inadeguata. Per definirla scelse, a suo dire, le parole di “una persona d’ingegno, profonda conoscitrice dell’Isola”: “la Mafia è un sentimento medioevale; mafioso è colui che crede di poter provvedere alla tutela e alla incolumità della sua persona e dei suoi averi mercé il suo valore e la sua influenza personale indipendentemente dall’azione dell’autorità e delle leggi. Dispone a modo suo dell’amministrazione pubblica e quasi delle sostanze e della vita di tutti”. Stentò a riconoscerne la dimensione unitaria e verticistica, pensandola piuttosto come insieme di “vaste unioni di persone d’ogni grado, d’ogni professione, d’ogni specie [prive di alcun] legame apparente, continuo e regolare”.

Tuttavia, della mafia seppe cogliere alcuni aspetti caratteristici, quali l’esercizio dell’influenza attraverso le relazioni d’interesse con ogni settore della società, il potere intimidatorio implicito, e il vantaggio, anche indiretto, che un membro della classe dirigente può trarre in termini di potere da un legame esistente, o anche solo supposto, con la mafia. L’industria della violenza gli appare in mano non a semplici malfattori, ma ad una classe media, che, con una organizzazione superiore, l’unità delle sue direttive strategiche, la profonda abilità con la quale sa voltare a suo profitto perfino le leggi e l’azione del Governo contro il delitto, si propone per garantire l’ordine, imponendo la violenza privata. I cosiddetti capi mafia vengono rappresentati da Franchetti come persone di condizione agiata, rispettose ma che si fanno rispettare, dotati di un’intelligenza superiore, capaci di legare attorno a sé, come docili strumenti, giovani disposti ad eseguire qualsiasi delitto venga loro ordinato, o depositari di quella finissima arte che consente loro di decidere sulla base delle circostanze se convenga per un momento sospendere la violenza, oppure reiterarla o darle un volto più feroce; se uccidere la persona recalcitrante agli ordini della mafia, oppure farla scendere ad accordi con uno sfregio, con l’uccisione di animali, col taglio degli alberi, con la distruzione dei beni o semplicemente con una schioppettata volutamente a vuoto; se in relazione alle condizioni del mercato fare talune operazioni d’affari, ovvero tal altre; se e quali persone sfruttare. Insomma scegliere l’intimidazione la violenza più funzionali al raggiungimento del fine prefissato. Questi elementi erano veri allora come lo sono oggi, pur in un contesto così diverso e di fronte a una mafia contemporanea che, come sappiamo, ha abbandonato la dimensione locale per estendersi a tutto il territorio nazionale, per poi valicarne i confini e divenire fenomeno transnazionale.

Conosciamo il grado di infiltrazione della mafia negli apparati pubblici, nei consigli di amministrazione, la sua capacità di esercitare un controllo diretto dall’interno dei centri di potere e di mettere in atto attraverso canali formalmente legali il proprio disegno criminoso di indebolimento della società fin dalle sue radici. Conosciamo la sua capacità di condizionare il sistema produttivo e controllare il mondo del lavoro, di bloccare lo sviluppo economico e culturale del paese, di limitare il pieno sviluppo dei principi democratici sanciti dalla Costituzione, di cui peraltro festeggeremo tra poco più di due mesi il settantesimo anniversario. Oggi come allora la responsabilità di combattere e affrontare un fenomeno così grave è di ognuno di noi, e in particolare di chi ricopre cariche pubbliche, che ha il dovere di restituire concretezza al concetto di legalità come” fondamento della democrazia. A questo ho dedicato la mia attività di magistrato e su questo ho sempre basato il mio convincimento e la mia azione a servizio dello Stato.

La responsabilità dei Governi nell’affrontare le emergenze delle terre su cui conduceva la sua inchiesta fu sempre chiara a Franchetti, che la ribadì in diverse sedi. Nel corso di un’animata seduta alla Camera dei deputati nel 1895, a proposito delle condizioni della pubblica sicurezza in Sicilia, nel descrivere “quel sistema che mette a servizio delle clientele e delle prepotenze private tutti gli ordinamenti pubblici” affermò con vigore che i governi non devono limitarsi a reprimere, ma “lavorare a sradicare le cause del male”.

Fra i tanti rimedi per cercare di ristabilire in Sicilia l’ordine e la sicurezza pubblica Franchetti ne propone alcuni che rappresentano delle felici intuizioni, successivamente adottate nell’ambito della legislazione antimafia. Ad esempio, fra l’altro, egli rappresenta al Governo italiano, per cercare di prevenire i reati e fare giustizia, le seguenti improrogabili necessità:

–          Necessità di una stretta unità d’azione fra magistratura inquirente e polizia, con dipendenza funzionale della seconda dalla prima.

–          Necessità di uno stabile coordinamento dei Pretori (allora magistrati inquirenti in sede locale), con possibilità di estendere le indagini anche in territori limitrofi rispetto alla propria competenza.

–          Necessità di mantenere un più rigoroso segreto sulle indagini e nell’istruzione penale, evitando, fra l’altro, di servirsi degli scrivani temporanei.

–          Necessità di riforme che rendano più rapide le istruzioni penali ed il corso della giustizia.

–          Necessità di sopprimere le giurie popolari perché facilmente influenzabili, all’uopo prevedendo eventuali spostamenti dei dibattimenti al di fuori della Sicilia. Soprattutto per evitare la ritrattazione dei testimoni.

–          Necessità di rendere più rigoroso il controllo dei detenuti nelle carceri dell’isola, ove le comunicazioni con l’esterno sono continue e facili e la mafia si impone anche dalla prigione, con previsione di trasferimenti nelle prigioni del Nord.

–          Necessità di un uso più oculato delle ammonizioni e del domicilio coatto contro i soli sospetti di gravi delitti, con esclusione dei semplici ladri e degli oziosi e vagabondi inoffensivi.

Infine, condizione indispensabile di tutte le proposte è la scelta di personale di pubblica sicurezza, giudiziario e politico non solo dotato di intelligenza, di energia, di coraggio e d’onestà eccezionali, ma ancora inaccessibile a qualunque influenza locale, anche la più lecita.

Seppure alcune misure oggi ritenute di primaria importanza, come la confisca dei beni, non siano presenti nell’elenco proposto da Franchetti, le sue proposte operative continuano ad essere di estrema attualità anche per combattere l’attuale natura del fenomeno mafioso. Molto efficace e suggestiva è la similitudine della goccia d’olio che cade sopra il marmo e rimanendone separata si può facilmente asciugare, ma se cade sopra un pezzo di carta si espande, si immedesima e si compenetra talmente nella materia da divenire una cosa sola, difficile da eliminare, se non con energici reagenti chimici. In Sicilia se non si riesce a sopprimere i mafiosi appena comparsi e si lascia loro il tempo di infiltrarsi nella società attraverso le relazioni esterne, l’autorità troverà dinanzi a sé tutta un’organizzazione sociale e per estrarre dalla società “l’umore malsano” ha necessità di un’energia e di un’abilità eccezionali. Da questa analisi è chiara l’eccezionalità dell’opera di Falcone e Borsellino rispetto a questa missione così difficile.

Franchetti seppe approfondire la riflessione risalendo alle radici del dilagare del fenomeno mafioso, ovvero il grave disagio delle popolazioni delle terre meridionali. Tra i correttivi propose infatti un programma ambizioso orientato ad aiutare le popolazioni del Sud a vincere le gravi condizioni di inferiorità sociali ed economiche, a partire da una grande iniziativa contro l’analfabetismo, attraverso la creazione di un’efficiente rete di scuole e di biblioteche su tutto il territorio siciliano. Proprio Franchetti si fece promotore, lo voglio ricordare, insieme a due altri senatori del Regno (Giustino Fortunato e Pasquale Villari), subito dopo il grande terremoto che colpì Messina e Reggio, dell’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia (ANIMI), di cui fu primo Presidente. Un’associazione che con lui, insieme a un’altra grande personalità che ha onorato il Senato repubblicano, Umberto Zanotti Bianco, promosse tra le tante attività a favore del nostro Mezzogiorno proprio la creazione di centinaia di scuole per bambini e adulti analfabeti nei luoghi più disperati delle nostre province meridionali. Franchetti legò il progresso delle regioni meridionali ad una maggiore responsabilizzazione delle classi dirigenti, verso cui fu molto critico, e sostenne che senza un Mezzogiorno capace di crescere non si sarebbe dato compimento al disegno risorgimentale di un’Italia unita.

Se l’Italia ha il dovere di esistere,”- afferma Franchetti – “a lei spetta quello di usare tutti i mezzi di cui può disporre per portare la Sicilia al grado di civiltà delle sue parti più progredite”. La sua visione lungimirante gli permise di capire che il riconoscimento dei diritti di libertà non può essere completato senza l’acquisizione dei diritti politici, elettorali, civili ed economici, non solo da parte del ceto borghese, ma anche da parte di chi versa nella miseria. La sua vicenda umana e politica si chiuse con una preziosa esperienza sui banchi del Senato del Regno, e proprio dal suo scranno fu un instancabile animatore degli interessi sociali ed economici del Mezzogiorno. Tra gli atti parlamentari conservati dall’Archivio del Senato riporto uno stralcio tratto da un suo autorevole intervento pronunciato in una seduta della nostra Aula a favore della riforma elettorale il 26 giugno del 1912. In quell’intervento egli espresse tutta la sua solidarietà verso la classe contadina e agricola.

L’Italia” – queste le sue parole – “non diventerà mai un paese realmente grande e forte, se non quando uno degli elementi maggiori di grandezza e di forza che essa contenga, cioè le plebi agricole, e specialmente, lasciatemelo dire, le plebi agricole meridionali, saranno rappresentate dallo Stato e sentiranno la loro solidarietà coll’interesse generale del Paese”.

L’idea di una politica che fosse rappresentativa degli interessi e dei bisogni di tutti i cittadini fu lo spirito vitale di tutta l’attività politica e parlamentare di Franchetti, nella convinzione che l’equità sociale fosse necessaria per raggiungere la prosperità e il benessere necessari alla stabilità del Paese. Oggi noi ci ripetiamo spesso che la legalità è parte essenziale del bagaglio democratico di una nazione i cui cittadini, e i giovani in particolare, siano pienamente liberi di conquistare i propri traguardi sulla base del rispettivo merito, con fiducia, senza mai pensare di dover ricorrere per questo all’intermediazione o al favore dei politici o della mafia e senza doversi rifugiare all’estero alla ricerca di una vita piena e soddisfacente.

Vivere in un paese in cui democrazia e libertà procedano di pari passo è, come ho avuto modo di ripetere in molte occasioni, un diritto fondamentale che noi abbiamo il dovere di tutelare. Si tratta di un obbligo morale ineludibile, in difesa del nostro Paese e della Repubblica e per questo è necessaria un’azione collettiva e una forte responsabilizzazione delle classi dirigenti. Ricordare oggi Leopoldo Franchetti, nel centenario della sua morte, significa cogliere la straordinaria attualità del suo pensiero politico riformista liberale, la sua incondizionata fede nell’Italia e negli italiani. Significa promuovere quella dimensione morale della politica come servizio pubblico che deve sempre ispirare l’azione delle Istituzioni. Rimane l’auspicio che la sua eredità intellettuale, morale e politica non vada perduta ma trasmessa alle nuove generazioni.

 

 

 

 

Petizione legge elettorale

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La consegna da parte del Coordinamento democrazia costituzionale e di Marco Travaglio

Il Presidente del Senato, Pietro Grasso, ha ricevuto oggi a Palazzo Madama una delegazione del Coordinamento Democrazia Costituzionale e il Direttore de  “Il Fatto Quotidiano”, Marco Travaglio.

Il Vice Presidente del Coordinamento, Alfiero Grandi, e il Direttore Travaglio hanno consegnato le 160 mila firme raccolte in calce alla petizione in favore di una legge elettorale che “restituisca ai cittadini il diritto di scegliersi i parlamentari”, come si legge nel testo illustrato al Presidente Grasso.

 

Incontro con Coordinamento Democrazia Costituzionale e il Direttore del “Fatto Quotidiano”

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Il Presidente del Senato, Pietro Grasso, ha ricevuto oggi a Palazzo Madama una delegazione del Coordinamento Democrazia Costituzionale e il Direttore de  “Il Fatto Quotidiano”, Marco Travaglio.

Il Vice Presidente del Coordinamento, Alfiero Grandi, e il Direttore Travaglio hanno consegnato le 160 mila firme raccolte in calce alla petizione in favore di una legge elettorale che “restituisca ai cittadini il diritto di scegliersi i parlamentari”, come si legge nel testo illustrato al Presidente Grasso.

Incontro con l’Ambasciatore Usa Eisenberg

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Il Presidente del Senato, Pietro Grasso, ha ricevuto oggi a Palazzo Madama l’Ambasciatore degli Stati Uniti d’America, Lewis M. Eisenberg.

Al centro del colloquio, le eccellenti e profonde relazioni di amicizia e collaborazione fra i due popoli.

 

Antisemitismo. Incontro con La Malfa, “B’ NAI B’RITH” e'”Osservatorio Solomon”

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Il Presidente del Senato, Pietro Grasso, ha ricevuto oggi a Palazzo Madama l’on. Giorgio La Malfa della “Fondazione Ugo La Malfa”, i rappresentanti dell’associazione “Solomon – Osservatorio sulle discriminazioni” e del “B’ NAI B’RITH”, la più antica organizzazione ebraica attiva da oltre centosettant’anni e presente in cinquanta paesi del mondo.

L’incontro era stato chiesto dalle organizzazioni per rappresentare al Presidente Grasso l’esigenza di recepire attivamente la risoluzione del Parlamento Europeo che prevede la nomina da parte degli Stati membri di un coordinatore nazionale per la lotta contro l’antisemitismo e la necessità di introdurre una concreta definizione operativa di antisemitismo, come già avvenuto in Germania, Austria, Belgio e Inghilterra.

Incontro con il Presidente della Repubblica di Georgia

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Il Presidente del Senato, Pietro Grasso, ha ricevuto oggi a Palazzo Giustiniani il Presidente della Repubblica di Georgia, Giorgi Margvelashvili, in visita ufficiale nel nostro Paese.

Al centro del colloquio, le relazioni di amicizia e di cooperazione politica ed economica fra i due Paesi, il percorso di riforma costituzionale della Georgia e l’auspicio per un ulteriore incremento delle relazioni interparlamentari.

Nuovi giornalismi, le sfide e le opportunità del futuro

Discorso alla Cerimonia inaugurale Master in Giornalismo

Magnifico Rettore, Eminenza, autorità, care studentesse e cari studenti,

ringrazio la Lumsa per avermi invitato a questa giornata inaugurale del Master in Giornalismo. Il titolo di questo incontro, “Nuovi giornalismi, le sfide e le opportunità del futuro”, apre ad un’ampia serie di temi che saranno discussi in maniera approfondita dai relatori che seguiranno, professionisti di altissimo livello.

L’epoca contemporanea, con tutti i suoi innumerevoli pregi, impone un supplemento di riflessione, un confronto serio e lungimirante per tenere il passo con i repentini cambiamenti che il progresso tecnologico ha avviato nelle relazioni sociali, nei meccanismi di partecipazione, nella diffusione e nella fruizione dell’informazione. Stiamo assistendo ad un paradosso che deve indurci a reagire: in troppi casi il progresso tecnologico, che ha cambiato radicalmente il nostro modo di comunicare con gli altri e ha aperto infinite strade alla conoscenza, ha poi nei fatti ridotto i nostri orizzonti culturali. E’ un processo noto da anni agli studiosi, che ha assunto nell’ultimo decennio evidenza plastica con i social network: mi riferisco a quella che è stata chiamata l’omofilia delle reti sociali, o fenomeno delle “camere dell’eco”.

Semplificando: pur avendo a disposizione innumerevoli fonti e punti di vista, tendiamo tutti a selezionare esclusivamente ciò che è affine al nostro modo di pensare, convincendoci progressivamente sempre più delle nostre supposizioni e finendo talvolta per esasperarle grazie ad un effetto di rinforzo costante e conferma reciproca. In questa spirale ci scopriamo meno inclini al confronto con l’altro, al dialogo, e più sensibili ad argomentazioni estreme e semplificatorie. Rischiamo di diffidare di soluzioni complesse a problemi che non percepiamo come stratificati, che invece necessitano di essere affrontati con un pensiero lungo e strategico, inevitabilmente meno accattivante e meno funzionale alla logica dello slogan.

La polarizzazione emotiva dell’opinione pubblica si riflette negativamente sulla qualità del dibattito: tendiamo a premiare, anche in termini di consenso elettorale, le opinioni più intransigenti e approssimative a discapito di chi usa argomentazioni meno facili e meno polarizzate. Il rischio è quello di ritirarsi nelle proprie convinzioni, rifiutare il dialogo e radicalizzare ulteriormente opinioni e comportamenti. Un’informazione libera, autorevole e indipendente è uno dei prerequisiti essenziali in un sistema democratico maturo e anche il più efficace antidoto a questo rischio di isolamento tra simili. Essa infatti gioca un ruolo fondamentale nella definizione dei temi e della qualità del dibattito pubblico: va da sé che il grado di democrazia di un Paese sia direttamente connesso alla capacità del sistema dell’informazione di svolgere liberamente il suo compito.  Oltre che a livello editoriale però, occorre educare allo sforzo e alla fatica del confronto anche i cittadini, a partire dai più giovani. Non basta un solo giornale né un solo sito, non basta seguire i link che gli amici pubblicano su Facebook o scorrere i tweet dei profili che seguiamo, non basta un programma televisivo o qualche breve video su YouTube per capire la complessità del nostro Paese e del nostro mondo. Serve tutto questo, e molto di più. La capacità di assegnare a ciascuna fonte il suo peso, l’intelligenza di saper unire i puntini e infine la capacità di sintetizzare il tutto in una opinione, finalmente, davvero informata.

Se è fondamentale valorizzare la pluralità di idee e di luoghi di conoscenza è altrettanto vitale tenere alta l’attenzione sull’etica e la deontologia degli operatori dell’informazione. Nell’epoca dei motori di ricerca il problema non è certo trovare un’informazione ma, come abbiamo visto, saperne dare una lettura consapevole. In questo senso ha una grande responsabilità chi opera nei settori della stampa, dell’editoria, dell’informazione e della cultura in generale. Due sono i rischi principali: da un lato l’abbassamento degli standard deontologici, dall’altro la dipendenza economica o normativa dal potere. Non è un mistero che negli ultimi anni questi siano stati settori fortemente penalizzati dalla crisi economica e, per rispondere a queste difficoltà, si sia fatto ricorso a modelli di business che puntano più alla quantità dei click che alla qualità dei contenuti.

Nel lungo periodo credo che questo atteggiamento sia controproducente: gli utenti non sono semplicemente alla ricerca di una curiosità o di uno slogan ma di una notizia o di una visione originale e approfondita della realtà. Ma questo non è un problema solo dei siti internet. Io stesso potrei raccontarvi moltissime esperienze di titoli virgolettati che mi attribuivano frasi mai pronunciate, utili però ad esasperare i concetti e favorire una polemica che avrebbe potuto riempire altre pagine nei giorni seguenti.  Nella società dell’informazione siamo tutti immersi in un flusso costante, caotico e ridondante di stimoli.

Come lettore, per quanto possa sembrare paradossale la prima competenza da avere e da insegnare è quella di saper filtrare, capire velocemente cosa ignorare, quindi scegliere cosa interessa sapere e a quali fonti ragionevolmente affidarsi. Come giornalista invece quella di sfruttare al meglio le infinite possibilità che le reti e le connessioni ci offrono, non fermarci al recinto dei simili ma spaziare tra le conoscenze e i saperi, accettando di sfidare i nostri pregiudizi e preconcetti, con curiosità e spirito critico. Per tutti il dovere è non fermarsi alla lettura e all’approfondimento, ma impegnarsi nella produzione di contenuti originali, ciascuno per i propri ambiti di competenza e di interesse. La facilità nella condivisione, il confronto costruttivo, la possibilità di migliorare grazie alle risposte degli altri è un’opportunità che è passata dai ristretti ambiti accademici o professionali alle diffuse reti sociali e telematiche. E’ faticoso, ma è la più grande possibilità di cambiamento e miglioramento che offre il nostro tempo.

Nel difendere e valorizzare chi diffonde informazione viene garantita alle giovani generazioni la possibilità di sviluppare talenti, realizzare sogni, infrangere barriere. Le università possono e debbono essere al centro di uno sforzo di riappropriazione degli spazi di formazione, confronto e dialogo.

In questa sala ciascuno di voi sogna di diventare un giornalista, e questo Master vi fornirà il maggior numero di strumenti utili per poter essere all’altezza delle difficoltà che il mercato editoriale presenta oggi e presenterà in futuro.

La democrazia richiede un giornalismo responsabile.  È giornalismo responsabile quello che soddisfa il diritto del cittadino a sapere e conoscere, senza trascurare i diritti con esso eventualmente confliggenti e avendo cura dei soggetti deboli coinvolti ed esposti dall’informazione. Il sistema dei mezzi di informazione dovrebbe riconoscere e rispettare una precisa gerarchia di valori. L’etica e la moralità sono per il giornalismo un dovere assoluto, perché è diritto dei cittadini non solo e non tanto l’essere informati, ma soprattutto l’essere correttamente informati. Perché ciò sia possibile è necessario che le notizie siano “trattate”: un fatto concreto va inserito in un quadro di riferimenti ampi e complessivi, con un’analisi approfondita dei protagonisti, dei presupposti e delle conseguenze. Gli interessi che lo caratterizzano devono essere identificati e valutati in relazione all’interesse generale. Sono questi gli aspetti che qualificano l’informazione nel senso più alto e autentico del termine. Ricordate: anche la stampa è un potere, e come ogni potere ha diritti, doveri, limiti e responsabilità: non è facile seguire tali principi in un mercato informativo come quello odierno, ma saper ottenere click e copie vendute rispettandoli garantisce quel ruolo primario nel gioco democratico cui la stampa è da sempre chiamata. Dovrete essere bravi, e coraggiosi. Ancora oggi ci sono luoghi nel nostro Paese in cui un giornalista che descriva senza veli la realtà del potere rischia la vita; in cui si combatte una battaglia quotidiana tra la passione, il dovere dell’informazione e la pretesa del silenzio, che diventa violenza, intimidazione, minacce. La criminalità pretende il silenzio e mal digerisce i giornalisti scomodi. Anche il potere, a volte, cerca lo stesso silenzio utilizzando mezzi diversi ma ugualmente subdoli: un esempio sono le querele temerarie fatte solo per imbavagliare singoli giornalisti o intere redazioni.

Da parte vostra, ragazzi, dovete mettercela tutta: abbiate il coraggio di mettervi alla prova e di impegnarvi tanto sotto il profilo accademico quanto su quello professionale e della cittadinanza attiva. Siate protagonisti e non comparse: abbiamo bisogno della vostra forza ideale e critica per poter difendere e accrescere il pluralismo e la profondità dei contenuti che rappresentano le vere sfide della contemporaneità.

Grazie.

(Foto: Lumsa)

Presentazione del libro “Il Disobbediente” di Andrea Franzoso

Una storia vera di coraggio e giustizia

Autorità, gentili ospiti, caro Andre

sono felice di ospitare in Senato la prima presentazione de “Il disobbediente”, libro che racconta la storia di una persona che ha scelto di fare la cosa giusta, anche a costo di subire intollerabili conseguenze.

Consentitemi di ringraziare l’autore e l’editore di questo libro: queste sono pagine preziose che descrivono con chiarezza disarmante le implicazioni di un atto di coraggio tanto semplice quanto rivoluzionario. Quello che mi ha colpito è che questo libro, sin dal titolo, è la storia di un continuo paradosso: “disobbediente” è la qualifica attribuita a chi, di fronte a una serie di illegalità, si rivolge ai carabinieri, le denuncia e consente l’avvio di indagini e processi. In una democrazia basata sullo stato di diritto dovrebbe essere la norma, non l’eccezione. Anzi, chi segnala un reato nel proprio posto di lavoro dovrebbe ricevere encomi per aver dimostrato l’attaccamento all’Istituzione, all’amministrazione, all’ente o all’azienda cui appartiene.

Andrea invece dice di aver preso ispirazione dagli insegnamenti di una lettura fatta ai tempi del liceo, il trattato sulla “Disobbedienza civile” di Henry David Thoureau. Continua il paradosso: rispettare e far rispettare la legge come atto di ribellione. Mi viene in mente la frase di un ragazzo appena assunto che, entrato in un ufficio dove la corruzione era sistemica, una volta scoperto confessò dicendo: “ero in prova e ho avuto paura di essere cacciato. Non ho avuto il coraggio che ci vuole per essere onesto”.

C’è un dialogo raccontato nel libro che è, a mio parere, emblematico. Andrea parla con i propri genitori, intimoriti dalle conseguenze a cui dovrà far fronte il figlio. Lo scambio di battute che si consuma nella loro cucina è drammatico: in pochissime parole si manifesta immediatamente la profondità di una scelta che ha un grandissimo impatto sulla vita personale e che la cambierà per sempre. Ad un certo punto suo padre commenta amaramente:

“Lo capisci che hai mandato all’aria la tua carriera… e che a quei farabutti tanto non succederà nulla? Tu, invece….”

“Ho fatto ciò che era giusto. Sono in pace con la mia coscienza”

“Qui è cosi: se non ti va bene, piglia su le tue cose e vattene in Inghilterra, vattene in Canada, vai dove vuoi, ma non qui. L’Italia è il Paese dei furbi; se vuoi vivere onestamente, qui, hai vita dura”.

È umanamente comprensibile la preoccupazione di un genitore che vede suo figlio rischiare la carriera per “fare la cosa giusta”. Eppure è proprio qui che si consuma uno dei più importanti cortocircuiti che rende la corruzione un male così difficile da sradicare. Nella percezione collettiva – espressa nei legittimi timori di un padre che teme per il futuro di suo figlio, e arriva a darsi la “colpa” di non averlo educato bene – l’Italia è un Paese senza speranza nel quale lo stigma sociale è subìto dalle persone che scelgono la legalità e non da quelle che trasgrediscono la legge. Per poter vivere una vita onesta l’unica alternativa sembra quella di fuggire, o tacere. Un Paese che tende ad oscillare tra omertà, indifferenza, rassegnazione, da un lato, e la qualifica di delatore e di “infame” nei confronti di chi segnala alimenta una sorta di riprovazione sociale che bisogna invertire. Un’Amministrazione sana dovrebbe tenere alla propria integrità.

Purtroppo il paradosso è dato dal fatto che in Italia non è facile scegliere di diventare un whistleblower, colui che segnala un’irregolarità sapendo di andare incontro a frustrazioni, vessazioni, demansionamento, isolamento sociale. Con tutte le differenze del caso, Andrea Franzoso in azienda viene trattato – attenzione, non dalle persone che ha denunciato ma da chi ne ha preso il posto dopo le loro dimissioni e dai suoi stessi colleghi, con la stessa considerazione riservata in altri contesti agli “infami”, ai traditori. Quei colleghi che uno degli imputanti descrive dicendo “Non esiste i ladri e gli onesti. Bene che vada esiste una serie di conniventi”.

È chiaro che la prima prospettiva con cui approcciare il problema debba essere di carattere culturale. Bisogna in qualche modo ribellarsi alla tentazione di voltare le spalle, di non farsi carico di questioni che riguardano la collettività. È insopportabile accettare che chi denuncia un illecito sia isolato, deriso, ostacolato: persone come Andrea hanno bisogno dell’appoggio concreto di tutti noi perché, nel seguire la voce della loro coscienza, compiono un gesto con un profondo valore sociale e, in prospettiva, costruiscono un orizzonte in cui il rischio di essere scoperti potrà essere un deterrente significativo. È solo quando questo genere di comportamenti diventeranno diffusi e sostenuti dalla maggioranza delle persone che le cose – anche quelle più difficili e apparentemente insormontabili – inizieranno a cambiare. Possiamo anche minimizzare e lamentarci delle classifiche sulla percezione della corruzione nel nostro Paese ma, finché a chi denuncia viene riservato il destino subìto dall’autore, le proteste sono destinate a cadere nel vuoto.

D’altro canto non può essere sufficiente un cambiamento di mentalità, o il singolo atto coraggioso di qualche cittadino. È per questo che le istituzioni devono agevolare il comportamento virtuoso dei “disobbedienti”, anche attraverso un testo di legge che finalmente ieri è approdato in Aula in Senato, dopo un lavoro approfondito in I Commissione che ne ha migliorato il testo rispetto alla prima lettura anche grazie al supporto di “Riparte il futuro”, Transparency International e al presidente dell’Anac Raffaele Cantone, il titolare e il vertice, insieme ai responsabili delle singole amministrazioni, di tutte le misure preventive contro la corruzione. La speranza è che il disegno di legge venga approvato al più presto, in modo da poterlo mandare alla Camera, per la terza lettura, in tempi brevi e comunque prima della fine di questa legislatura.

Da molto tempo ho rappresentato l’urgenza di approvare le norme che tutelano i lavoratori che denunciano episodi corruttivi: in questo modo non solo si tuteleranno loro ma l’intera collettività, perché spezzare le catene corruttive fa risparmiare risorse, e molte, al bilancio del Stato, risorse che potrebbero essere meglio utilizzate per garantire servizi ai cittadini. Siamo tutti vittime della corruzione, siamo quindi tutti in debito verso Andrea Franzoso e chi, come lui, ha avuto il coraggio di rompere il silenzio.

Grazie.