Stati Generali della lotta alle mafie

Autorità, gentili ospiti, carissimo Nando, rappresentanti delle Associazioni e dei Movimenti antimafia,

è bellissimo ritrovarmi di nuovo in mezzo a voi e ringrazio il ministro Orlando per avermi invitato a questo importante evento. Quanta strada insieme abbiamo fatto!

Tra pochi giorni saranno trascorsi trent’anni esatti dal 16 dicembre 1987. Quel giorno, in un’atmosfera carica di emozione e di attesa, il Presidente della Corte di Assise di Palermo, Alfonso Giordano, lesse il dispositivo della sentenza di primo grado del Maxiprocesso alla mafia che inflisse 19 ergastoli e 2665 anni di reclusione. I numeri erano impressionanti: mai nella storia si era celebrato un processo con 475 imputati e con centinaia di imputazioni. Ricordo ogni istante di quel giorno e il durissimo lavoro che ci portò a quel risultato che, dopo qualche anno, diventò una sentenza definitiva. Sono passati trent’anni dal momento in cui, per la prima volta, la magistratura italiana ha potuto dimostrare, una volta per tutte, l’esistenza di Cosa nostra.

Oggi un’affermazione come questa può far sorridere, e probabilmente i tanti ragazzi delle vostre associazioni, nati dopo il 1992, neanche riescono a comprenderne l’esatto significato. Eppure c’è stato un tempo nel quale la mafia era considerata un’invenzione di alcuni giornalisti o romanzieri dotati di particolare fantasia, la “fissazione” di qualche investigatore troppo ligio o il frutto della stravagante teoria di pochi ma testardi magistrati. La vita di un’intera, bellissima, isola, e non solo, condizionata da un fantasma invisibile e sconosciuto ma allo stesso tempo tremendamente reale; una scia di violenza che ha insanguinato le strade della Sicilia e falcidiato i migliori uomini delle istituzioni, del giornalismo, delle forze dell’ordine e della società civile; un groviglio di interessi economici e politici, che ha pesato come una zavorra insopportabile sullo sviluppo economico, sociale, politico e culturale del meridione, controllandone capillarmente il territorio e stroncando sul nascere qualunque tentativo di rinascita e di libertà. Cosa nostra era tutte queste cose, e sembrava invincibile.

In pochissimi credevano si potesse infliggere un colpo così grande e decisivo all’immagine di quegli “uomini d’onore” che si sentivano intoccabili; in pochissimi avrebbero scommesso sul fatto che il maxiprocesso – tra mille difficoltà e altrettanti rischi – sarebbe giunto fino all’ultimo grado di giudizio. Sembrava impossibile, invece successe e da allora cambiò tutto.

Il 30 gennaio 1992 – contro ogni ragionevole aspettativa – la prima Sezione della Corte di Cassazione emise infatti la storica sentenza con la quale fu confermato il lavoro del Pool antimafia di Falcone e Borsellino.

1992: quello straordinario risultato concorse a provocare la reazione violenta di Cosa nostra, con le stragi di Capaci e Via D’Amelio. 2

5 anni dopo, oggi, gli Stati Generali della lotta alle mafie.

È nella distanza tra questi due eventi che possiamo riflettere sulle cocenti sconfitte subite e sui grandi successi ottenuti, ma soprattutto sull’abilità delle mafie di cambiare pelle e adattarsi al nuovo contesto internazionale e, quindi, sulla nostra reattività nelle modalità e nelle forme di contrasto. Abbiamo infatti debellato la mafia sanguinaria di Riina e Provenzano: i due boss corleonesi sono morti senza aver mai voluto collaborare, senza dare, nonostante il lungo periodo di carcerazione, quegli elementi che ci avrebbero certamente consentito di ricomporre i pezzi di verità mancanti sulla stagione delle stragi che tanto dolore ha causato al nostro Paese. Ciò non significa che ci si debba arrendere al tempo che passa o alle difficoltà, e nemmeno che possiamo considerare sconfitta Cosa nostra.

Oggi esiste una minaccia non meno grave e, a mio giudizio, addirittura più insidiosa: la mafia ha smesso di “far parlare” le armi e gli esplosivi ma non ha assolutamente rinunciato a mantenere la sua rete di potere e di arricchimento illecito. Lo fa con altri mezzi, corrompendo gli amministratori pubblici e infiltrandosi silenziosa nel tessuto sociale, economico e politico – non solo nelle regioni del sud – ponendosi sempre più come organizzazione in grado di operare a livello globale. Le mafie si lasciano guidare nella ricerca del profitto dai fattori geopolitici, servendosi ai propri fini di mutamenti e tendenze; e allo stesso tempo agiscono da attori geopolitici producendo in via diretta o indiretta processi di natura geopolitica.

Le mafie così possono determinare o risolvere conflitti, controllare territori, fare e disfare alleanze, ridisegnare confini, tenere in vita o soffocare intere economie o istituzioni politiche di interi Stati. La battaglia per la legalità, allora, è tutt’altro che terminata e non si può considerare un problema solo nazionale, ma anche mondiale e di estrema pericolosità anche per i collegamenti tra criminalità organizzata e Terrorismo, che hanno portato il nostro Paese, primo ed unico al mondo, ad unificare nella Procura Nazionale il coordinamento delle indagini contro le mafie ed il Terrorismo (colgo l’occasione per augurare buon lavoro al Procuratore Cafiero de Raho, appena nominato) e ad avere già da tempo, a livello governativo, un organismo centralizzato per la sicurezza come il C.A.S.A, Comitato di analisi strategica antiterrorismo, che riunisce allo stesso tavolo uomini dell’intelligence e delle forze di polizia e la Procura antiterrorismo, per una visione comune su questi temi.

Il fatto che, su invito del Ministro Orlando, si riuniscano in questa due giorni milanese figure istituzionali, associazioni, professori universitari, giornalisti e scrittori è già il più evidente segno del fatto che siamo sulla giusta strada. Le mafie prosperano dove manca lo Stato, dove manca il lavoro, dove i cittadini pensano di non poter avere un futuro dignitoso, o dove non conviene vivere nella legalità. Va da sé che non può bastare la dedizione e la competenza delle forze dell’ordine, della magistratura, delle istituzioni, che pure svolgono un lavoro straordinario, del quale dobbiamo tutti essere profondamente orgogliosi. Serve soprattutto un impegno diffuso che accenda la speranza là dove c’è rassegnazione, che porti sviluppo dove c’è crisi, che coinvolga le migliori energie civiche nei luoghi dove ci si aggrappa alla volontà e al coraggio di pochi. C’è anche un grande bisogno di descrivere il vero volto della criminalità organizzata, quello che emerge dai lavori d’inchiesta dei tanti cronisti che non rinunciano a raccontare la verità, anche a costo di minacce e intimidazioni. Proprio a loro vorrei rivolgere, anche da qui, un caloroso abbraccio: siamo con voi perché senza un giornalismo libero – il vero fondamento di una informazione consapevole –  la nostra società è più debole e quindi più esposta alle infiltrazioni mafiose.

Lo stesso calore e la stessa solidarietà dobbiamo trasmettere ai tanti amministratori locali coraggiosi che guidano il cambiamento nel loro territorio, e per questo vengono minacciati. Alle docenti e ai docenti che a scuola, ogni mattina, trasmettono alle giovani generazioni i valori di legalità e di giustizia, raccontano la storia dei tanti uomini e donne uccisi a causa del loro lavoro, educano a una cittadinanza consapevole. Una scuola, un campo sportivo, una palestra, un oratorio, un’associazione, possono fare tantissimo perché rendono possibile quei percorsi di legalità che dobbiamo saper sostenere e difendere. Per questo sono particolarmente felice di essere qui oggi con voi, ed ascoltare ancora una volta le vostre storie e le vostre esperienze nell’associazionismo: perché siete voi il primo motore di quella che a me piace chiamare l’antimafia della speranza. Siete voi che – passo dopo passo – state strappando alla mafia il suo più prezioso patrimonio, quello del consenso popolare. Con ogni vostra iniziativa dimostrate che esiste un’alternativa: penso alle cooperative che lavorano quotidianamente i campi nelle terre confiscate ai boss; alle centinaia di attività commerciali che, facendosi forza l’una con l’altra, hanno creato una rete libera dal racket; ai percorsi di legalità che coinvolgono migliaia di studenti che cresceranno rifiutando compromessi o scorciatoie illecite.

C’è quindi una rinnovata coscienza collettiva che sta innervando il nostro Paese, che lo rafforza, che gli restituisce una prospettiva di prosperità e di sviluppo nella legalità. C’è ancora moltissimo da fare ma con queste premesse e con la collaborazione di tutti potremo tener fede alla previsione che Giovanni Falcone ripeteva spesso: “la mafia è un fatto umano è come tutte le cose ha avuto un inizio e avrà anche una fine”. Non dobbiamo smettere di crederlo, non dobbiamo smettere di impegnarci affinché questo avvenga. Lo dobbiamo a tutte le donne e gli uomini che non hanno chinato lo sguardo e non hanno rinunciato alla loro dignità davanti ai soprusi della criminalità organizzata; a quelli che non avevano alcuna intenzione di essere ricordati come eroi ma volevano solo essere cittadini con la schiena dritta; a quanti – troppi – hanno sacrificato la vita per servire le istituzioni e a chi ancora, a distanza di moltissimi anni, chiede giustizia e verità per i propri cari. Lo dobbiamo a ciascuno di noi. Lo dobbiamo soprattutto ai nostri figli e nipoti, affinché possano vivere in un Paese migliore.

(Foto: LaStampa)

 

Don Luigi Sturzo un maestro per l’Italia di oggi e di domani

Sono onorato di essere qui oggi con voi ed aprire questa giornata di studi in ricordo di Don Luigi Sturzo, sacerdote per vocazione, politico e studioso per passione, testimone autentico della carità cristiana nella politica. Straordinario interprete dell’idea di una politica intesa come l’espressione più alta della carità al servizio del bene comune, dei cittadini, della verità, della libertà e della giustizia, Don Sturzo accolse con entusiasmo la pubblicazione della Rerum Novarum e l’invito di Leone XIII rivolto a tutti i sacerdoti di uscire “dal chiuso delle sacrestie” e di impegnarsi nella società civile per contribuire a migliorare la vita della povera gente.

La vita di Sturzo abbraccia vicende storiche importanti per il nostro Paese: il periodo liberale in cui maturò le sue idee e fondò il suo capolavoro politico, il Partito Popolare Italiano, la cui nascita fu accolta da Antonio Gramsci come il fatto storico più importante dopo il Risorgimento. Il periodo fascista, in cui conobbe l’amarezza e la sofferenza dell’esilio per sua opposizione intransigente al regime. L’esilio fu per Sturzo un fecondo periodo di studi e di riflessioni, di viaggi internazionali, durante i quali maturò il suo ideale di libertà e giustizia.

Infine il periodo repubblicano in cui divenne uno dei protagonisti della vita politica italiana, con la sua battaglia a difesa della democrazia contro le “tre male bestie” – così le definiva – “statalismo, partitocrazia e sperpero del denaro pubblico”; una battaglia che condusse dagli scranni del Senato. La sua attività politica ha inizio come pro-sindaco a Caltagirone, sua città natale. Sturzo ebbe a cuore il destino della sua città e il suo attivismo fu di trasformarla da dominio personale di notabili e latifondisti a vera comunità democratica, partecipata e capace di governarsi con proprie regole. Da cristiano, ma anche come studioso, Sturzo comprese che per riportare i cittadini al centro della vita politica municipale occorreva scalzare il sistema di potere del malaffare locale. Come ha ricordato Monsignor Pennisi in un bell’articolo pubblicato sull’Osservatore romano nei mesi scorsi, Sturzo “fu uno dei pochi politici che denunciarono senza timore l’esistenza di una mafia criminale e non come innocuo costume isolano, da sociologo comprese le cause più profonde del fenomeno e le sue tendenze all’urbanizzazione“. Già nel 1900 in un articolo proprio intitolato “MafiaSturzo denuncia la mafiache stringe nei suoi tentacoli giustizia, polizia, amministrazione, politica; quella mafia che oggi serve per domani essere servita – sono parole di Sturzo -, protegge per essere protetta, ha i piedi in Sicilia, ma afferra anche Roma“, temi che riprenderà anche in un testo teatrale.

Per Sturzo il riconoscimento dei diritti di libertà non poteva essere completato senza l’acquisizione dei diritti civili ed economici, prima, e politici, dopo, da parte del popolo. I successi politici e personali spinsero Sturzo a completare l’opera di rinnovamento e trasformazione iniziata a livello locale anche con una battaglia moralizzatrice della politica comunale, organizzando a livello nazionale il partito laico dei cattolici. Recandomi in Senato spesso passo davanti all’albergo Santa Chiara, dove una lapide ricorda l’appello a tutti gli uomini Liberi e Forti. Con quest’appello del 1909 rivolto a tutte le classi sociali che “sentono alto il dovere di cooperare ai fini superiori della Patria, senza pregiudizi né preconcetti”, Don Sturzo fondò il Partito Popolare Italiano a cui aderirono tutti coloro che, facendo propri i valori cattolici, desideravano impegnarsi per la rinascita della società. Presentò i cattolici come una terza via capace di conciliare il meglio delle due forze, liberali e socialiste, che si contendevano la società italiana.

Della nuova formazione politica rivendicherà il carattere laico, la piena autonomia dall’autorità ecclesiastica e la volontà di porsi e confrontarsi con gli altri partiti sul comune terreno della vita civile nazionale. La centralità della persona, lo Stato sociale, l’integrità e la tutela della famiglia e delle formazioni sociali intermedie, l’ampliamento del suffragio universale esteso anche alle donne, la forza rinnovatrice e creativa del decentramento amministrativo come alternativa allo Stato centralizzato, il rispetto di un’etica pubblica nella azione politica, la riforma agraria e tributaria, la libertà di insegnamento, costituiscono i principi cardine del suo pensiero. L’arrivo in Parlamento nel 1919 di cento deputati popolari fu un vero e proprio “colpo di fulmine”. La discesa in campo del cattolicesimo politico, con i propri programmi, le proprie bandiere, con tutto il peso delle sue tradizioni fu l’essenziale contributo di Luigi Sturzo al lungo processo di affermazione della libertà e della democrazia nel nostro paese.

Ma io non posso non ricordare, qui, caro Presidente Antonetti – in questo Istituto che Sturzo fondò tornato dall’esilio e che divenne sotto la sua guida una vera fucina di elaborazione politica e che oggi ne conserva la memoria – un altro suo fondamentale contributo allo sviluppo della democrazia e delle istituzioni: quella lezione di passione civile e di alta moralità che Sturzo, nominato da un altro grande italiano Luigi Einaudi, Senatore a vita, seppe dare negli ultimi anni della sua vita. Una lezione di cui vi è traccia fedele nei discorsi suoi e negli atti parlamentari di Palazzo Madama che Giovanni Spadolini (mio predecessore) e Gabriele De Rosa, Presidente di questo Istituto, vollero raccogliere in un volume pubblicato dal Senato. Queste pagine sono testimonianza vivida di un senso religioso della democrazia. Il senatore Sturzo fa appello alla moralità alta cui tutti, uomini politici e semplici cittadini, dovrebbero ispirare i propri comportamenti e denuncia, con parole di profetica attualità i rischi dell’ingerenza dei partiti per la tenuta del sistema democratico. Partiti di cui Sturzo propose una rigorosa disciplina, in attuazione dell’art. 49 della Costituzione, in un disegno di legge che è ancora un modello su cui riflettere.

Diceva Sturzo in Senato, “Parecchi colleghi vorranno da me sapere a che servono nella mia concezione i partiti. Come uomo politico e come fondatore di un partito, rispondo chiaramente: i partiti servono a molte cose utili e vantaggiose per la democrazia, meno che a sostituirsi al Governo, alle Commissioni parlamentari, alle due Camere, in quel che la Costituzione riconosce come potere, facoltà, competenza, responsabilità propria degli organi supremi dello Stato“.

Sturzo si batté con coraggio per la libertà del Parlamento. Nel suo ultimo discorso al Senato nel luglio del ’58 affermava: “Che ci stanno a fare i deputati e i senatori nelle rispettive Camere? Solo per eseguire gli ordini dei partiti, mentre i capi dei Gruppi parlamentari ne sono solo i portatori?“. Secondo Sturzo “(…) quando gli eletti dal popolo (e non dai partiti) varcano la soglia della Camera e del Senato (in Commissione o in Aula) hanno una loro responsabilità morale e politica che li lega allo Stato e rispondono personalmente della vita nazionale“. Son parole su cui dobbiamo tutti riflettere; testimonianza di una considerazione alta e nobile del mandato parlamentare, un modello cui noi eletti dal popolo oggi più che mai dobbiamo ispirarci.

Cari amici, questa giornata di studi si arricchisce di un significato profondo e spirituale in quanto oggi si chiude presso il Tribunale del Vicariato di Roma la fase diocesiana della Causa di Beatificazione di Don Luigi Sturzo. La grandezza e la sua attualità stanno proprio nell’aver posto al centro del dibattito politico la questione morale e nell’aver ancorato un partito laico di ispirazione cristiana a quei valori assoluti e inviolabili che stanno a fondamento della nostra Carta Costituzionale. Con l’auspicio che l’eredità cristiana e politica di Don Sturzo possa continuare a rimanere un termine di paragone e un riferimento essenziale per il mondo dei credenti ma anche per l’azione politica di qualsiasi governo e di ogni uomo politico che ha a cuore il bene comune, concludo con parole che Sturzo pronunciò sempre in Senato il 27 giugno del 1957 proprio a proposito della Costituzione: “La Costituzione è il fondamento della Repubblica. Se cade dal cuore del popolo, se non è rispettata dalle autorità politiche, se non è difesa dal governo e dal Parlamento, se è manomessa dai partiti, verrà a mancare il terreno sodo sul quale sono fabbricate le nostre istituzioni e ancorate le nostre libertà”.

Consegna dei premi giornalistici “Franco Giustolisi – Giustizia e verità”

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Si svolgerà in Senato, alla presenza del Presidente Pietro Grasso, la cerimonia di consegna dei premi di giornalismo “Franco Giustolisi – Giustizia e verità”. L’appuntamento è per giovedì 14 dicembre, alle ore 15, nella Sala dei Presidenti di Palazzo Giustiniani.

Giunto alla terza edizione, il premio 2017 è stato assegnato, ex aequo, alle giornaliste Valeria Ferrante e Marilù Mastrogiovanni. La prima per la sua inchiesta sulle Ong, il traffico di migranti nel Canale di Sicilia e le zone d’ombra del sistema dell’assistenza agli immigrati, trasmessa da “Agorà” (Rai 3). Marilù Mastrogiovanni viene invece premiata per il suo portale web su fatti e misfatti della Sacra Corona Unita, e perché, nonostante la condizione di giornalista precaria, continua a informare combattendo contro le minacce della malavita organizzata che la costringono a vivere sotto protezione.

La Giuria ha poi assegnato a Ilaria Bonuccelli il premio speciale “Franco Giustolisi – Fuori dall’Armadio”, promosso dal Presidente del Senato, per avere, con la sua inchiesta originale sui call-center, messo in moto non solo l’interesse del pubblico ma anche quello della politica fino ad arrivare a proposte normative che rafforzano la tutela della privacy e dei cittadini.

Ecco l’elenco degli altri premi assegnati nell’edizione 2017: premio per il libro inchiesta a Maurizio Molinari per “Il ritorno delle tribù” (Rizzoli); premio speciale della Giuria “Una vita per il giornalismo” a Ferruccio de Bortoli; premio speciale “Per la difesa del patrimonio culturale” a Fabio Isman; premio “Memoria e verità” a Donatella Alfonso per il libro “La ragazza nella foto”; premio “Voci dai fatti” a Raffaella Calandra per la trasmissione “Storiacce” su Radio24.

L’edizione 2017 vede, per la prima volta, una sezione dedicata alle scuole promossa dal Comune di Boves che saranno premiate il prossimo 20 gennaio nel comune piemontese. Gli alunni delle ultime classi delle scuole primarie e secondarie di primo grado sono stati chiamati a lavorare sulle tematiche care al giornalista che fu l’autore, tra l’altro, del libro “L’Armadio della Vergogna”: la Seconda guerra mondiale, la Resistenza, le sofferenze delle popolazioni. La città di Boves è stata per prima vittima delle rappresaglie tedesche durante la Seconda Guerra Mondiale a ridosso dell’Armistizio dell’8 settembre e poi, di nuovo, tra la fine del 1943 e i primi giorni del ’44.  La Giuria del Premio è composta dai giornalisti: Roberto Martinelli, con funzioni di presidente, Daniele Biacchessi, Livia Giustolisi, Bruno Manfellotto, Marcello Masi, Enrico Mentana, Virginia Piccolillo, Marcello Sorgi, Luigi Vicinanza, Lucia Visca.

La cerimonia del 14 dicembre sarà trasmessa in diretta dalla webtv e dal canale YouTube del Senato.

Seminario Gruppo Speciale Mediterraneo Assemblea parlamentare Nato

Presidente Boldrini, Presidente Alli, Presidente Gentiloni, Autorità,

ho accolto davvero con piacere anche quest’anno l’invito del Presidente della Delegazione italiana Andrea Manciulli – che ringrazio – ad introdurre il seminario del Gruppo Speciale Mediterraneo e Medio Oriente e della Sottocommissione sulla Cooperazione transatlantica in materia di difesa e sicurezza dell’Assemblea Parlamentare della NATOLe assemblee rappresentative sono la più alta espressione della democrazia. Ai Parlamenti spetta la fondamentale responsabilità di garantire i diritti e le libertà delle persone, e il dovere di stimolare e controllare la politica estera e di sicurezza dei governi: per questo ritengo molto importante la vostra presenza che nel tempo ha reso questo appuntamento un’occasione di dialogo e confronto sempre più rilevante che oggi coinvolge trentacinque Paesi.

Considero molto significativo che il seminario sia stato strutturato in modo tale da iniziare sul tema della minaccia del terrorismo internazionale rispetto al nostro continente; proseguire con sessioni di approfondimento sulla prevenzione della radicalizzazione e il contrasto all’estremismo, tema su cui è in discussione un Disegno di legge già approvato dalla Camera e dalla Commissione Giustizia del Senato; per giungere alla crisi migratoria nel Sahel e la difficile situazione in Libia e concludersi con un focus dedicato alla Siria e all’Iraq. Sono tutti temi profondamente interconnessi che vanno per questo affrontati insieme e valutati nella loro complessità. La sempre più vicina sconfitta dello stato islamico sotto il profilo militare può – ad esempio –  innalzare la minaccia terroristica a causa del rientro dei foreign fighter in Europa.

Un tema che mi sta particolarmente a cuore è quello del supposto nesso tra terrorismo e migrazioni. Il dato di fatto è che quasi tutti i terroristi che hanno agito in paesi europei erano cittadini francesi o belgi, non erano affatto arrivati insieme a migranti e rifugiati. L’ho detto molte volte: questa infondata connessione ha l’unica conseguenza di alimentare la paura e creare tensioni nel tessuto sociale. Certamente si devono rafforzare i controlli ma non possiamo mettere in discussione il dovere, morale e giuridico, di accogliere le persone che fuggono da guerre e persecuzioni. La nostra comune responsabilità è proteggere la vita e la serenità dei cittadini, combattendo la barbarie con gli strumenti dello Stato di diritto, della democrazia, del multilateralismo e della diplomazia e proteggendo in ogni circostanza i diritti fondamentali e la libertà di credo di ogni persona, che sia cittadino, residente, ospite, profugo o migrante.

Da questa due giorni di confronto mi aspetto scaturisca e si consolidi la consapevolezza che solo attraverso una sempre più stringente ed effettiva collaborazione – sin dalla fase di analisi strategica – si possono affrontare con successo le grandi sfide che la contemporaneità pone alla comunità dei nostri cittadini e alle loro istituzioni. Occorrono iniziative per garantire futuro nei territori instabili a tutte le componenti etniche, religiose e sociali; cooperazione nella circolazione di informazioni ed elementi di indagine per prevenire la violenza e punire i responsabili in processi equi; politiche che mettano al centro la coesione sociale, perché è ai margini della società che si creano alcune delle condizioni per l’illegalità e per il radicalismo. Ciascuno di noi nel proprio Paese si deve adoperare per rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’eguaglianza dei cittadini e impediscono la partecipazione di tutti alla vita comune. Ma non basta: dobbiamo proiettare questo dovere nello spazio geopolitico mediterraneo, e far sentire la nostra voce in Medio Oriente. La responsabilità che compete alla politica, particolarmente a noi parlamentari, è pensare e realizzare un progetto di futuro nel quale la cittadinanza non si edifica sulla religione, sulla nazionalità, sulla lingua o sull’etnia, ma sulla condivisione di valori, sogni e speranze e sulla volontà di impegnarsi per il bene comune.

Sarebbe miope vedere nel Medio Oriente e nel Mediterraneo solo fonti di minacce e instabilità e ignorare le grandi opportunità di sviluppo comune che non possiamo permetterci di non cogliere. La nostra comune storia, cari amici, ci vincola a un futuro insieme e questo è lo spirito che deve animarci in questa occasione e in ogni momento della nostra azione istituzionale e politica.

Buon lavoro a tutti. Grazie

Fermare la violenza contro le donne. Insieme si può fare

Presidente Boldrini, Presidente Puglisi, Autorità, Gentili Ospiti,

è con grande piacere che apro i lavori di questo seminario voluto dalla “Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere” e che vede la partecipazione di parlamentari, magistrati, docenti universitari, rappresentanti del volontariato e delle organizzazioni internazionali.

È un tema che tutti noi vorremmo appartenesse al passato ma, purtroppo, non è così, e i dati esposti ieri dal ministro Orlando proprio in Commissione lo confermano. La cronaca è tristemente colma di storie dove uomini di tutte le età usano la violenza, nelle sue diverse forme, contro le donne. L’ho già detto in passato ma ci tengo a ribadirlo: tutto ciò che limita una donna nella sua identità e libertà è una violenza di genere. Quello che desta ancor più allarme è che per ogni storia di cui abbiamo notizia ce ne sono molte altre dove il dolore e la violenza vengono avvolti dal silenzio, dalla vergogna, dall’impunità.

Dobbiamo riconoscere che siamo indietro anche sotto un profilo culturale e sociale: denunciare una violenza non è facile, c’è la drammatica tentazione di rimuovere interamente quanto accaduto, di non parlarne per colpa degli effetti pubblici e sociali di una denuncia, che spesso sono a carico più delle vittime che dei carnefici. Anche i più recenti casi di cronaca confermano infatti che davanti ad una denuncia non scatta una unanime solidarietà: le parole di una donna, le sue azioni, vengono soppesate quasi a cercare una giustificazione della violenza subita o, peggio ancora, una colpa o addirittura una convenienza nel tacere o nel denunciare dopo tempo. Bisogna lavorare moltissimo su questo aspetto, creare le condizioni perché ciascuna ragazza o donna che sia stata maltrattata, offesa, molestata venga aiutata e sostenuta, non criminalizzata. I media possono fare molto per cambiare le cose, soprattutto nel modo attraverso il quale raccontano queste vicende così delicate. La vita, la morte, il dolore di queste donne è enorme e drammaticamente reale: ci vuole rispetto della complessità delle situazioni e della terribile sofferenza subita. Spesso quando si raccontano questi fatti si usano parole sbagliate: “amore disperato”, “raptus di gelosia”, “ha ucciso l’amore della sua vita”, si finisce quasi per ammantare queste storie di un romanticismo esasperato che non c’è: sono atti violenti, chi li commette è un criminale e non un povero innamorato ferito o non corrisposto. Mi colpirono molto le parole che Noemi usò nel suo ultimo post di Facebook prima che la sua vita fosse spezzata dal suo fidanzato. Ne cito alcune:

Non è amore se ti fa male. Non è amore se ti controlla. Non è amore se ti fa paura di essere quello che sei. Non è amore, se ti picchia. Non è amore se ti umilia. Non è amore se ti proibisce di indossare i vestiti che ti piace. Non è amore se non rispetta la tua volontà. Non è amore se ti impedisce di studiare o di lavorare. Non è amore se ti tradisce. Non è amore, se colpisce i tuoi figli. Il nome è abuso. E tu meriti l’amore. Molto amore.”

Sono parole semplici, dirette, impossibili da fraintendere e che devono farci riflettere anche e soprattutto rispetto al cuore del problema, che è di ordine culturale. Stiamo – finalmente – mettendo in discussione i nostri antichi modelli di riferimento e, in questo senso, la scuola ha un ruolo decisivo nell’insegnare fin dalla più tenera età che non esiste scusante, non ci sono eccezioni, alibi o giustificazioni a comportamenti che violano la libertà di una donna. Stiamo abbandonando una cultura che prevedeva ruoli fissi e immutabili, ma nel profondo ci sono ancora degli stereotipi e delle gabbie che vanno sradicati. Liberarci da questi pregiudizi è un lavoro lungo, che ci coinvolge tutti e che investe principalmente gli uomini. Dobbiamo sentirci tutti partecipi di questo cambiamento, come uomini ma anche come padri, nonni, fratelli, amici. Passare dalla cultura del possesso a quella del rispetto, come prima cosa.

Della violenza sulle donne non devono dunque parlare “anche” gli uomini ma “soprattutto” gli uomini. Troppo a lungo si è sbagliato approccio: per anni abbiamo lasciato le donne da sole a combattere questa battaglia di civiltà. Per questo, personalmente, sostengo da tempo con convinzione la campagna internazionale “he for she” e quella lanciata dalla 27esima ora, “da uomo a uomo”. Per questo ho chiesto “scusa” a nome degli uomini al Tg1, e dal tono dei messaggi ricevuti – molti uomini mi hanno scritto facendomi notare che non avevano fatto nulla di male, non capendo il senso delle mie parole – mi sono convinto con ancor più forza che solo se noi uomini saremo capaci di cambiare allora le cose cambieranno.

Concludo. Le istituzioni hanno i loro doveri, le loro responsabilità, c’è molto da fare. Ci sono segnali incoraggianti, alcuni di essi compiuti proprio in questa Legislatura; c’è il prezioso lavoro che svolge la Commissione, del quale ringrazio ogni suo componente. Le leggi ci sono, e sono anche molto dure: semmai c’è un problema di tempestività e coordinamento, ma le cose stanno cambiando, in meglio, molto in fretta. C’è lo straordinario lavoro che carabinieri, magistrati, forze di polizia, medici, psicologi fanno ogni giorno per sventare decine di altre situazioni. È soprattutto grazie a loro se il numero degli episodi di violenza di genere sta diminuendo in questi anni; a loro bisogna riconoscere una dedizione e un impegno eccezionali, per cui bisogna ringraziarli. Sul tema degli orfani di femminicidio  assicuro il mio impegno per una rapida calendarizzazione. Oltre ai numeri ci sono le persone: anche un solo episodio è di troppo, quindi dobbiamo continuare senza sosta a parlarne per cambiare i comportamenti sbagliati sin da subito. Abbiamo fatto degli enormi passi in avanti ma siamo ancora molto distanti dalla meta.

Grazie a tutti e buon lavoro.

(foto: ANSA)

Incontro con delegazione di Ordine dei giornalisti e Federazione della stampa

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Il Presidente del Senato, Pietro Grasso, ha ricevuto questa mattina il Presidente dell’Ordine dei Giornalisti, Carlo Verna, il Presidente e il Segretario della Federazione Nazionale della Stampa Italiana (Fnsi), Giuseppe Giulietti e Raffaele Lorusso.

L’incontro si è svolto a Palazzo Madama poco prima della manifestazione di Piazza Montecitorio organizzata da OdG e Fnsi.

Al centro del colloquio, le iniziative di mobilitazione promosse dagli organismi di rappresentanza dei giornalisti per richiamare l’attenzione delle Istituzioni e dell’opinione pubblica sulla necessità di salvaguardare il diritto dei cittadini ad essere correttamente informati, le iniziative legislative contro le “querele temerarie” e l’abolizione del carcere per i giornalisti.

Mi ha salvato l’arresto di Riina. La mafia non finisce con lui, mai abbassare la guardia

di Francesco La Licata

Totò Riina è uno di quei personaggi della cronaca che non passano certamente inosservati. Il capo di Cosa nostra rimane ben presente nella nostra memoria collettiva ed anche nei ricordi di uomini dello Stato come il presidente del Senato. Pietro Grasso ha conosciuto bene il boss attraverso le migliaia di pagine del primo maxiprocesso di Palermo, quando era giudice a latere in corte d’Assise. «Il racconto dei collaboratori – ricorda adesso la seconda carica dello Stato – ci restituiva un ritratto formidabile del tandem che guidava la mafia, Riina e Provenzano, ma anche dell’intera compagine corleonese uscita vincitrice dallo sterminio totale inflitto alla vecchia Cosa nostra “palermocentrica”. Furono Buscetta, Contorno, Mannoia e tutti gli altri ad aprirci gli occhi su una realtà allora poco conosciuta. Ma con Riina ci fu pure, qualche anno dopo, qualcosa di più».

Potrebbe appagare, a questo punto, la nostra curiosità?  

«È una storia che risale all’autunno del 1992, dopo le stragi di Falcone e Borsellino. Cosa nostra aveva in animo di colpire il potere politico da cui si sentiva abbandonata. C’era un elenco di uomini politici indicati come obiettivi da abbattere e i gruppi di fuoco di Cosa nostra si apprestavano alla battaglia. Si dice che fu Bernardo Provenzano a far riflettere la dirigenza di Cosa nostra, obiettando che se avessero colpito i politici avrebbero perso ogni appoggio per il futuro. Bisognava, perciò, continuare coi magistrati. E allora, raccontano i pentiti, Riina si rivolse a Giovanni Brusca, non ancora collaboratore, dicendogli: “Ci vorrebbe un altro colpettino”».

Un colpettino dopo Capaci e via D’Amelio?  

«Esattamente. E la scelta cadde su di me, che avevo la colpa di essere stato “esecutore” del maxiprocesso di Giovanni Falcone. Dovevano uccidermi col tritolo, a Monreale, mentre mi recavo a casa dei miei suoceri».

Attentato mai compiuto, per fortuna.  

«Trovarono difficoltà perché vicino al posto designato c’era una banca i cui sistemi di allarme interferivano coi timer mafiosi e c’era il pericolo che la bomba esplodesse quando non doveva. Poi, a gennaio, arrivò la cattura di Riina e perciò sono qui a raccontare».

Riina viene descritto come un pazzo sanguinario. Condivide questo giudizio?  

«Non credo si possa definirlo matto. È stato un capo che ha saputo applicare una ferma e spietata strategia militare. La guerra di mafia, vinta con la forza ma anche con la furbizia e la capacità di allettare taluni nemici a schierarsi al suo fianco, con la promessa di più soldi e più potere, è una chiara dimostrazione della sua attitudine al comando».

Manipolatore e votato all’inganno?  

«Accorto e prudente, come Provenzano. Non andavano mai insieme alle riunioni per non correre il pericolo di essere uccisi entrambi e per poter sempre prendere tempo con la scusa di dover consultare l’assente. Ha governato Cosa nostra anche quando formalmente il capo era Michele Greco (“il Papa”) e questo perché era forte di una maggioranza interna non manifesta».

Lo descrive quasi come un politico navigato.  

«Cosa nostra ha frequentato la politica ed ha imparato. La sua storia recente ci racconta addirittura il suo tentativo, con le stragi, di condizionare le Istituzioni e lo Stato. E non è attitudine degli ultimi tempi. Dopo le uccisioni di Mattarella, La Torre e Dalla Chiesa, inizio Anni Ottanta, toccò al giudice Rocco Chinnici con l’autobomba di via Pipitone. I politici locali, i Salvo – dicono le indagini – portarono a Riina gli “umori di Roma” che consigliavano di “darsi una calmata” per non provocare provvedimenti repressivi. Ma Riina, già pieno di arroganza rispondeva: “Ci lascino fare, noi siamo sempre stati a disposizione per favori che abbiamo fatto».

 

Si riferiva ai cosiddetti omicidi eccellenti?  

«Questo le indagini non lo hanno potuto appurare e bisognerà indagare ancora a fondo. Ho raccontato l’episodio solo per spiegare le aspirazioni di Cosa nostra alla politica. Ma ci sarebbero tanti altri esempi da addurre, per esempio il legame della mafia con l’imprenditoria e col mondo degli appalti. Riina trattava con gli industriali di Catania e di Palermo, lo ha spiegato pure il prefetto Dalla Chiesa, prima di morire. E hanno ucciso il presidente Piersanti Mattarella perché qualcuno non gradiva la sua politica regionale, l’apertura alla sinistra e come stava entrando negli interessi economici che legavano la politica, l’imprenditoria e la criminalità».

 

Presidente Grasso, cosa accadrà adesso? Fine di Cosa nostra?  

«La mafia non finisce quando muore un capo e guai ad abbassare la guardia. Bisognerà stare molto attenti, adesso. Cosa nostra entrerà in una fase di transizione, si esprimeranno anche i vecchi boss che hanno finito di scontare il carcere, peseranno le alleanze tra le diverse famiglie che sono cambiate mentre Riina era in carcere».

Potrebbe toccare a Messina Denaro?  

«Da quello che si sa è più interessato ai suoi affari che a quelli di Cosa nostra. Lo stesso Riina, nei suoi dialoghi intercettati in carcere, fa sapere il suo giudizio sul boss trapanese e non è entusiasmante: “Quello si fa i fatti suoi”. Ma un capo lo troveranno, i boss sanno essere molto concreti».

 

Incontro con Noemi Di Segni (Ucei)

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Il Presidente del Senato, Pietro Grasso, ha ricevuto oggi a Palazzo Madama la Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (Ucei), Noemi Di Segni.

Al centro dell’incontro, le proposte Ucei per il Giorno della Memoria 2018 e per la presidenza dell’International Holocaust Remembrance Alliance che l’Italia assumerà nel mese di marzo del prossimo anno.

Incontro con delegazione Comitato “Officina dopo di noi”

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Il Presidente del Senato, Pietro Grasso, ha ricevuto oggi a Palazzo Madama una delegazione del Comitato “Officina dopo di noi“, guidata dal Presidente Michele Falzone e accompagnata dalla senatrice Annamaria Parente.

La delegazione ha illustrato al Presidente Grasso programma e finalità del Comitato, nato per diffondere ed attuare la legge 112 del 2016, recante “Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare“.

In particolare, il Comitato – ha spiegato la delegazione – si è dato il compito di dialogare con le Istituzioni, monitorare l’attuazione della legge, fornire servizi ai cittadini e alle associazioni di familiari.

Inaugurazione dell’Anno Accademico dell’Università di Pavia

Magnifico Rettore, professori, ricercatori, studentesse e studenti,

è con grande piacere che torno qui dopo qualche mese dal nostro ultimo incontro. A giugno scorso fui infatti invitato a tenere una lectio per ricordare quella che fece Giovanni Falcone proprio qui pochissimi giorni prima i drammatici fatti di Capaci. Fu un’occasione particolarmente toccante per me, non solo perché ci confrontammo sui temi della lotta alla criminalità organizzata e della legalità – temi ai quali ho dedicato gran parte della mia vita – ma anche e soprattutto perché ogni incontro con gli studenti mi arricchisce intellettualmente e rigenera il mio ottimismo nel futuro.

Con la stessa emozione oggi partecipo all’inaugurazione dell’Anno Accademico 2017-2018 di una Università di grande prestigio, che ha saputo dare nel corso della sua lunga storia uno straordinario contributo alla cultura del nostro Paese e non solo. Solo qualche giorno fa veniva qui conferita la laurea honoris causa in bioingegneria a Samantha Cristoforetti, un giusto riconoscimento ad una grande donna che dà con la sua competenza grandissimo lustro al nostro Paese: è il segno che questa Università è interprete di una dimensione internazionale che non può che generare preziosi frutti. Come è noto abbiamo inaugurato insieme – Senato, Università di Pavia e Cnr – un percorso che ci ha visto impegnati nel dar vita al Master “La lingua del diritto”, al fine di scrivere leggi più chiare e comprensibili per i cittadini, con un linguaggio efficace ed accessibile, a garanzia di democraticità per i cittadini.

Da ex studente di giurisprudenza, da ex magistrato, ora da presidente del Senato, credo sia davvero uno sforzo importantissimo che va sostenuto con assoluta convinzione perché è anche nella “lingua del diritto” che si promuove la cultura della democrazia. Come ho avuto modo di dire alla presentazione del Master, usare le parole giuste significa permettere ai cittadini di riconoscersi nello Stato, di poter pensare e dire, per citare Piero Calamandrei, che lo Stato siamo noi.

La presenza del Vice Segretario Generale di Palazzo Madama, Federico Toniato, testimonia l’attenzione che l’Amministrazione del Senato della Repubblica conferisce a questo progetto, una iniziativa che ha già mosso passi importanti e che ci auguriamo possa nel tempo costruire una solida alleanza tra il Parlamento e il mondo dell’università. Del resto l’università è il cuore pulsante del nostro futuro. In queste aule si forma ogni giorno una parte fondamentale del nostro domani, del nostro sapere, delle nostre speranze. Qui viene messo in discussione ciò che conosciamo e si creano i presupposti per nuove letture della realtà e per innovazioni scientifiche in grado di cambiare radicalmente la società. Per questo, come ci ha ricordato la presidente del Consiglio degli Studenti, il nostro Paese deve impegnarsi e investire di più nel diritto allo studio e nella ricerca. Dare piena attuazione ai principi costituzionali, significa, in prospettiva, garantire davvero l’uguaglianza, sostenere i “capaci e meritevoli”, migliorare il Paese, dargli la possibilità di crescere, prosperare, progredire. Viviamo in un mondo globalizzato, interconnesso, nel quale i cambiamenti procedono a una velocità mai sperimentata finora. L’apporto che la cultura e la scienza -tramite voi, care ragazze e cari ragazzi, cari docenti- possono dare alla politica e ai decisori, è indispensabile.

A proposito di sfide. Non voglio sottrarmi alla richiesta che mi è stata fatta sullo Ius Culturae. Visto il momento delicato, mi limiterò a ripetere quanto già detto altre volte nei mesi scorsi: chi è escluso dalla vita comune, chi non esercita i diritti e i doveri di cittadinanza, chi è rinchiuso nelle periferie esistenziali delle nostre città è più debole, e quindi più vulnerabile al radicalismo ideologico e all’illegalità. Vale per tutti, italiani e stranieri. Integrare, riconoscere diritti, doveri e opportunità significa fare sicurezza, significa progettare in maniera lungimirante il futuro della nostra società. Io ho ribadito moltissime volte che sarebbe importante concludere l’iter del disegno di legge sulla cittadinanza in questo ultimo scorcio di Legislatura.

Concludo.

Ho trovato molto belle le parole di Elisabetta che propone di cambiare domanda da rivolgere agli studenti: non più “che cosa vuoi fare dopo” ma “che cosa pensi di poter fare”. Nel secondo interrogativo c’è spazio per la fantasia, la creatività, l’immaginazione; c’è la personalissima capacità di ciascun individuo di ripensare in altri termini ciò che sembra immodificabile; c’è la possibilità e l’ambizione di contribuire autonomamente e in prima persona allo sviluppo socio-economico-culturale del nostro Paese.

Robert Kennedy amava citare le parole di un grande scrittore irlandese, George Bernard Shaw. Diceva che “alcuni uomini vedono le cose come sono e chiedono: perché? Io sogno cose non ancora esistite e chiedo: perché no?»

Cari ragazze e ragazzi, siate gli uomini e le donne che si domandano “perché no”. Mettetecela tutta perché dal vostro impegno dipende il cambiamento della nostra Italia: non limitatevi ad affrontare questi anni con l’unico obiettivo di laurearvi. Abbiate il coraggio di mettervi alla prova e di impegnarvi tanto sotto il profilo accademico quanto su quello della cittadinanza attiva. Siate protagonisti e non comprimari: abbiamo bisogno della vostra forza ideale e critica, delle vostre competenze, anche delle vostre rivendicazioni, per poter difendere e accrescere il pluralismo della nostra società; abbiamo bisogno delle vostre idee, delle vostre scoperte, delle vostre ricerche, della profondità dei vostri contenuti per riuscire ad affrontare le sfide, sempre più complesse, della contemporaneità.

A voi – a chi inizia a muovere i suoi primi passi in questo prestigioso Ateneo e a chi si appresta a concludere i suoi studi – ai vostri docenti, al personale tecnico-amministrativo, ai ricercatori, ai dottorandi auguri di buon lavoro per questo Anno Accademico!

Grazie.