Totò Riina è uno di quei personaggi della cronaca che non passano certamente inosservati. Il capo di Cosa nostra rimane ben presente nella nostra memoria collettiva ed anche nei ricordi di uomini dello Stato come il presidente del Senato. Pietro Grasso ha conosciuto bene il boss attraverso le migliaia di pagine del primo maxiprocesso di Palermo, quando era giudice a latere in corte d’Assise. «Il racconto dei collaboratori – ricorda adesso la seconda carica dello Stato – ci restituiva un ritratto formidabile del tandem che guidava la mafia, Riina e Provenzano, ma anche dell’intera compagine corleonese uscita vincitrice dallo sterminio totale inflitto alla vecchia Cosa nostra “palermocentrica”. Furono Buscetta, Contorno, Mannoia e tutti gli altri ad aprirci gli occhi su una realtà allora poco conosciuta. Ma con Riina ci fu pure, qualche anno dopo, qualcosa di più».
Potrebbe appagare, a questo punto, la nostra curiosità?
«È una storia che risale all’autunno del 1992, dopo le stragi di Falcone e Borsellino. Cosa nostra aveva in animo di colpire il potere politico da cui si sentiva abbandonata. C’era un elenco di uomini politici indicati come obiettivi da abbattere e i gruppi di fuoco di Cosa nostra si apprestavano alla battaglia. Si dice che fu Bernardo Provenzano a far riflettere la dirigenza di Cosa nostra, obiettando che se avessero colpito i politici avrebbero perso ogni appoggio per il futuro. Bisognava, perciò, continuare coi magistrati. E allora, raccontano i pentiti, Riina si rivolse a Giovanni Brusca, non ancora collaboratore, dicendogli: “Ci vorrebbe un altro colpettino”».
Un colpettino dopo Capaci e via D’Amelio?
«Esattamente. E la scelta cadde su di me, che avevo la colpa di essere stato “esecutore” del maxiprocesso di Giovanni Falcone. Dovevano uccidermi col tritolo, a Monreale, mentre mi recavo a casa dei miei suoceri».
Attentato mai compiuto, per fortuna.
«Trovarono difficoltà perché vicino al posto designato c’era una banca i cui sistemi di allarme interferivano coi timer mafiosi e c’era il pericolo che la bomba esplodesse quando non doveva. Poi, a gennaio, arrivò la cattura di Riina e perciò sono qui a raccontare».
Riina viene descritto come un pazzo sanguinario. Condivide questo giudizio?
«Non credo si possa definirlo matto. È stato un capo che ha saputo applicare una ferma e spietata strategia militare. La guerra di mafia, vinta con la forza ma anche con la furbizia e la capacità di allettare taluni nemici a schierarsi al suo fianco, con la promessa di più soldi e più potere, è una chiara dimostrazione della sua attitudine al comando».
Manipolatore e votato all’inganno?
«Accorto e prudente, come Provenzano. Non andavano mai insieme alle riunioni per non correre il pericolo di essere uccisi entrambi e per poter sempre prendere tempo con la scusa di dover consultare l’assente. Ha governato Cosa nostra anche quando formalmente il capo era Michele Greco (“il Papa”) e questo perché era forte di una maggioranza interna non manifesta».
Lo descrive quasi come un politico navigato.
«Cosa nostra ha frequentato la politica ed ha imparato. La sua storia recente ci racconta addirittura il suo tentativo, con le stragi, di condizionare le Istituzioni e lo Stato. E non è attitudine degli ultimi tempi. Dopo le uccisioni di Mattarella, La Torre e Dalla Chiesa, inizio Anni Ottanta, toccò al giudice Rocco Chinnici con l’autobomba di via Pipitone. I politici locali, i Salvo – dicono le indagini – portarono a Riina gli “umori di Roma” che consigliavano di “darsi una calmata” per non provocare provvedimenti repressivi. Ma Riina, già pieno di arroganza rispondeva: “Ci lascino fare, noi siamo sempre stati a disposizione per favori che abbiamo fatto».
Si riferiva ai cosiddetti omicidi eccellenti?
«Questo le indagini non lo hanno potuto appurare e bisognerà indagare ancora a fondo. Ho raccontato l’episodio solo per spiegare le aspirazioni di Cosa nostra alla politica. Ma ci sarebbero tanti altri esempi da addurre, per esempio il legame della mafia con l’imprenditoria e col mondo degli appalti. Riina trattava con gli industriali di Catania e di Palermo, lo ha spiegato pure il prefetto Dalla Chiesa, prima di morire. E hanno ucciso il presidente Piersanti Mattarella perché qualcuno non gradiva la sua politica regionale, l’apertura alla sinistra e come stava entrando negli interessi economici che legavano la politica, l’imprenditoria e la criminalità».
Presidente Grasso, cosa accadrà adesso? Fine di Cosa nostra?
«La mafia non finisce quando muore un capo e guai ad abbassare la guardia. Bisognerà stare molto attenti, adesso. Cosa nostra entrerà in una fase di transizione, si esprimeranno anche i vecchi boss che hanno finito di scontare il carcere, peseranno le alleanze tra le diverse famiglie che sono cambiate mentre Riina era in carcere».
Potrebbe toccare a Messina Denaro?
«Da quello che si sa è più interessato ai suoi affari che a quelli di Cosa nostra. Lo stesso Riina, nei suoi dialoghi intercettati in carcere, fa sapere il suo giudizio sul boss trapanese e non è entusiasmante: “Quello si fa i fatti suoi”. Ma un capo lo troveranno, i boss sanno essere molto concreti».