L’antimafia è sana ma non c’è la verità sulle stragi

Trent’anni fa, oggi, era un giovane giudice palermitano sposato e con un figlio quattordicenne, prescelto per essere il giudice a latere del primo maxi processo a Cosa Nostra. Per la prima volta la direzione strategica, i quadri intermedi e la manovalanza della mafia siciliana erano a processo tutti insieme, pedine di un unico schema decisionale e militare. Un processo che avrebbe cambiato per sempre la storia d’Italia. Per molti versi avrebbe cominciato allora a scriverla. Piero Grasso ha ricordato più volte il peso della responsabilità quando il presidente del Tribunale Francesco Romano lo convocò per affidargli l’incarico. O lo sgomento quando Giovanni Falcone, giudice istruttore, lo portò in una stanza blindata per presentargli «il maxi processo», quattro pareti piene di scaffali da cielo a terra. Ma trent’anni dopo ancora molto c’è da fare nella lotta alla mafia. E ancora di più per scrivere tutta la verità su quello che è successo dopo, dopo il gennaio 1992, quando la Cassazione mise la parola fine a quel processo iniziato il 10 febbraio 1986. Ecco che allora ricordare diventa un’azione declinata sul presente e sul futuro.

Presidente Grasso, quando ebbe la percezione che quel processo sarebbe diventato un capitolo della nostra storia?
«Quando ho iniziato a studiare gli atti, più di 400 mila pagine, e c’era la storia dei delitti di mafia per la prima volta messi in fila, un racconto unico che fino ad allora era stato diviso in tanti rivoli. L’unitarietà di Cosa Nostra era stata un’intuizione di Giovanni Falcone. Portarla a processo, in aula, era una scommessa giudiziaria e processuale. Quel processo è stato un monumento giuridico straordinario. Erano mille le trappole procedurali che lo avrebbero potuto mettere in discussione. Lo Stato era con noi. E ci aiutò».

In che modo?
«Costruì l’aula bunker in sei mesi. Adattò la procedura.  Per l’appello quotidiano, ad esempio: anziché farlo per tutti i 475 imputati ad ogni udienza – equivaleva a non iniziare mai –  m’inventai il registro del processo che gli imputati firmavano ad ogni passaggio dall’Ucciardone all’aula bunker. Gli avvocati denunciarono che non era possibile seguire il processo con 438 capi di imputazione sparsi in 400 mila pagine. Vero. Così organizzai un fascicolo per ogni imputazione che fu incrociato con le singole posizioni e arricchito durante le varie udienze. Per garantire le verbalizzazioni – agli avvocati sarebbe bastato molto meno per chiedere l’annullamento – impiegammo microregistratori con cassette di 30 minuti e gruppi di otto periti con turni di mezz’ora ciascuno. Una perfetta catena di montaggio».

Lo Stato decise di nominare sostituti dei giudici togati e popolari
«Se qualcuno di noi fosse stato ucciso o messo in condizione di non poter più essere in aula, il processo sarebbe dovuto iniziare daccapo. Non si poteva correre questo rischio: a seguire le udienze c’erano 4 giudici togati e 18 popolari. Anche quello fu un segnale straordinario. Insomma, fu già una vittoria poter iniziare quel processo. Figurarsi arrivare alla condanne e alla sentenza definitiva in Cassazione».

Quella del gennaio 1992. A cui poi sono seguiti l’ omicidio di Lima, le stragi di Capaci e via d’Amelio, le bombe fatte esplodere a Roma, Firenze e Milano nel 1993. Ma restiamo ancora a oggi, trent’anni fa. Tre momenti che sono, per lei, significativi del maxiprocesso?
«Il groppo alla gola di quella mattina, trent’anni fa, quando entrai in aula bunker, le gabbie con centinaia di mafiosi, gli avvocati, 600 giornalisti. Gli occhi del mondo erano puntati su di noi. Un’altra immagine che vive sempre nella mia memoria è l’ingresso di Buscetta in aula, il primo pentito che ci avrebbe raccontato Cosa Nostra dall’interno, lo accompagnava un giovane Antonio Manganelli e un silenzio agghiacciante. Quando entrò Totuccio Contorno, invece, i boss nelle gabbie cominciarono ad urlare, non si capiva perchè. Scoprii dopo anni che Contorno faceva loro le corna di nascosto. C’è poi un terzo momento, la protesta dei boss nelle gabbie che speravano di ottenere la scarcerazione allungando i tempi del processo. Era successo che avevo letto un’ordinanza per superare lo scoglio dell’accordo tra le parti necessario per la lettura degli atti. Cosa succede, mi ero chiesto, se qualcuno si oppone alla lettura? Salta tutto. La mia intuizione era stata giusta. La trappola era pronta. L’avevamo anticipata. Una legge dello Stato – Mancino- Violante – superò il problema».

Presidente Grasso, qual è la potenza attuale di Cosa Nostra?
«Dal 1993 non ci sono più stati omicidi eclatanti. La strategia della sommersione, inaugurata da Provenzano, prosegue negli anni. Tutta la struttura di comando, la direzione strategica, non c’è più e i tentativi di sostituirla vengono stroncati. Sotto il profilo militare, possiamo dire che la repressione investigativa è molto valida. Quella che comanda oggi è la mafia degli affari e dei colletti bianchi. E su questo fronte la repressione è ancora più difficile».

Il 10 gennaio 1987, con il maxi processo in corso, Sciascia firmò sul Corriere della Sera il famoso articolo sui professionisti dell’Antimafia. Negli ultimi due anni l’antimafia civile e giudiziaria ha subìto colpi pesanti. Che succede?
«Nel corpo dell’articolo di Sciascia non c’era quell’espressione. Fra gli altri, c’era un riferimento alla nomina di Borsellino a procuratore a Marsala. Esempio assolutamente sbagliato: come si poteva etichettare come carrierista Borsellino che aveva fatto così tanto e concretamente per combattere Cosa nostra? Ripescare quella frase per affrontare alcuni casi accaduti in questi ultimi mesi mi sembra fuori luogo. Alcune inchieste recenti confermano invece che esistono gli anticorpi necessari per isolare chi si avvale di questi ideali per fini personali. In questi giorni ho ricevuto 9 associazioni antimafia che sollecitano la calendarizzazione del disegno di legge che modifica le norme sui beni confiscati. Mi sembra un segnale positivo. Detto questo, i fatti accaduti devono spingere questo mondo, che è il mio mondo, ad una maggiore riflessione e a una maggiore attenzione nel recupero dello spirito originario e di un principio cardine: con l’Antimafia non ci si guadagna, ci si spende».
Sapeva che nel 1982 Sciascia fu convocato da Falcone nell’ambito del falso rapimento di Sindona? In alcune intercettazioni emergeva che ambienti mafiosi ipotizzarono un suo intervento, in un editoriale, in chiave garantista.
«Non lo sapevo. Mi vengono in mente altre intercettazioni fatte nel salotto buono del boss Guttadauro (inchiesta Cuffato, ndr) in cui si ipotizzava, tra le altre cose, di contattare giornalisti importanti per affrontare temi di legalità e diritti che potessero indirettamente favorire Cosa nostra».

Mancano tanti pezzi di verità sulle stragi del ‘92 e ‘93. Ventiquattro anni dopo sono appese a due processi: a Caltanissetta sulla strage di via D’Amelio; a Palermo sulla trattativa Stato-Mafia. Lei conosce bene entrambi. Arriveranno le verità mancanti?
«Su quegli anni ci sono ancora domande senza risposta. Finchè ho guidato la Procura nazionale ho cercato in continuazione e con tutti i mezzi a disposizione, la verità, le informazioni per dare nuovi impulsi alle indagini e trovare i necessari riscontri. A volte ci sono intuizioni che non si riescono a far diventare verità giudiziaria. Ma è dovere di chi indaga continuare a cercare gli elementi perchè lo diventino, anche se dovessero risultare scomodi. Oltre agli omicidi di Falcone, Borsellino, dei loro agenti di scorta, ci sono ancora troppe vicende dolorose ma irrisolte, con vuoti da colmare. Penso all’omicidio La Torre, Dalla Chiesa, Mattarella, l’agente di polizia Agostino, Insalaco, Reina”.

Nel 1994, due pm come Ilda Boccasini e Roberto Saieva, denunciarono in tutte le sedi che il pentito Scarantino non era attendibile. Eppure tre processi sulla strage di via D’Amelio, sono arrivati a sentenza sulla base di quelle dichiarazioni fasulle. Perchè abbiano dovuto aspettare lei, nel 2008, per scoprire la verità grazie a Spatuzza?
«Posso solo dire che è stato un privilegio per me, sedici anni dopo e tra lo scetticismo di molti, raccogliere le prime dichiarazioni di Spatuzza, che hanno riscritto completamente dinamiche, responsabilità e moventi, e che poi hanno trovato conferme e riscontri dagli approfondimenti delle procure”.

Oggi uno degli strumenti del controllo mafioso è la corruzione. Trent’anni fa lo Stato era con voi giudici e pm nella lotta alla mafia. Oggi lo è altrettanto nel combattere la corruzione?
“In questi anni governo e parlamento hanno fatto passi avanti. Il problema resta quello di far emergere la corruzione. Servono strumenti e strategie particolari. Ad esempio dare protezione e incentivi a chi denuncia dentro la pubblica amministrazione potrebbe essere un passo avanti ulteriore”.