Discorso in occasione della presentazione del volume di Marco de Paolis e Paolo Pezzino
Autorità, gentili ospiti, care ragazze e cari ragazzi,
è con grande piacere che partecipo alla presentazione del primo volume di una collana che si propone l’ambizioso ma importante obiettivo di ripercorrere le vicende storiche e giudiziarie dei gravissimi crimini commessi nel periodo tra l’autunno del 1943 e la primavera del 1945, durante il quale l’esercito tedesco, in ritirata, faceva terra bruciata sul suo percorso, distruggendo paesi e borghi e commettendo stragi atroci e sanguinarie di civili inermi, per lo più di donne, bambini e anziani.
Permettetemi di ringraziare il procuratore Marco de Paolis, che ha seguito decine di processi su queste vicende, e Paolo Pezzino, autori dei primi due volumi e curatori dell’intera collana, e, con loro, tutte le persone che si sono impegnate nella realizzazione di questo progetto. Per me è stato molto interessante leggere la ricostruzione puntuale delle difficoltà, delle omissioni, degli ostacoli di questi percorsi giudiziari, faticosi ma necessari, che hanno un valore non solo nel mondo del diritto ma anche in quello storiografico. Non voglio però entrare nel merito del volume, sarà compito degli autorevoli relatori che interverranno dopo di me delineare un quadro esaustivo. Vorrei piuttosto soffermarmi su alcuni aspetti che suscitano in me riflessioni che ritengo valide per l’Italia di oggi. Per farlo è opportuno partire da un dato che ci restituisce immediatamente la drammatica dimensione dei reati che furono commessi tra l’8 settembre del 1943 e la fine del secondo conflitto mondiale: complessivamente si contano 23479 vittime tra civili, partigiani ed ebrei. Ci sono eventi ormai entrati nella memoria collettiva del nostro Paese: penso ad esempio alle stragi di Marzabotto e Sant’Anna di Stazzema, che hanno assunto un significato di grande rilievo simbolico e segnato per sempre, come una ferita mai rimarginata, i cuori e le menti di tutti noi. Ci sono poi eventi meno noti ma altrettanto dolorosi che attendono da troppo tempo di ottenere il giusto collocamento nella nostra storia.
Ai numeri già spaventosi delle morti dei civili vanno aggiunti i massacri operati contro i nostri militari, brutalmente trucidati in molte parti d’Europa. Solo in due casi, Rodi e Cefalonia, si sono celebrati dei processi. Oltre ai numeri bisogna poi considerare la tipologia dei reati che, senza alcun dubbio, sono da considerarsi tra i più gravi previsti dal nostro ordinamento giuridico. Nonostante siano passati più di 70 anni, sono convito che occorra proseguire, con tenacia e determinazione, sulla strada della giustizia, inchiodando i responsabili alle proprie colpe, siano essi tedeschi o italiani, perché i crimini contro l’umanità non possono essere né prescritti né archiviati. Né, tantomeno, dimenticati. Devono essere perseguiti, non per vendetta, ma per spirito di giustizia, anche decenni dopo che sono stati commessi, per poter consegnare la verità della memoria alle generazioni future. La dedizione e la perseveranza di chi, nonostante tutto, ha continuato a insistere perché fosse fatta giustizia è una lezione di impegno civile e un esempio di adesione morale ai valori della Repubblica di altissimo valore.
La stagione processuale riprese solo nel 1994, dopo il ritrovamento, avvenuto dopo quasi cinquant’anni per motivi mai del tutto chiariti (ma senz’altro vergognosi) di 695 fascicoli d’inchiesta occultati presso l’Archivio della Procura generale militare di Roma, quello che Franco Giustolisi chiamò, coniando una definizione talmente evocativa da entrare nell’immaginario collettivo, l’ ”Armadio della vergogna”. Non si può parlare di queste vicende senza citarlo: fu grazie a lui, al suo battersi fino all’ultimo giorno con invidiabile grinta e passione, che si accese l’attenzione dell’opinione pubblica su un passato colpevolmente taciuto e volutamente occultato. Noi stessi che siamo qui oggi eravamo stati già “convocati” proprio da Franco, nella sua ultima apparizione pubblica, nell’aprile 2014 in questa stessa sala, per affrontare il bilancio dei 70 anni passati da quel periodo.
Giustolisi ha testimoniato, soprattutto ai più giovani, il valore di un’informazione forte e libera, di un giornalismo davvero al servizio dei cittadini e non a quello dei potenti, una ispirazione per tutti gli uomini e le donne che hanno scelto un lavoro difficile, a volte rischioso e troppo spesso scandito da cocenti delusioni che rappresenta però un insostituibile presidio della nostra democrazia, presente e futura. Le inchieste di Giustolisi e la storia dei processi raccontati nei volumi che saranno pubblicati, sono un monito per ciascuno di noi: ci insegnano a non arrenderci mai e a continuare a nutrire la nostra speranza, anche quando si è soli e le possibilità di farcela sembrano ridotte al lumicino.
Nel libro “Il buio oltre la siepe”, Harper Lee fa dire ad uno dei personaggi: “aver coraggio significa sapere di essere sconfitti prima ancora di cominciare, e cominciare egualmente e arrivare sino in fondo, qualsiasi cosa succeda. È raro vincere, in questi casi, ma qualche volta succede”.
Tenetelo a mente, care ragazze e cari ragazzi: qualche volta succede. Grazie.
Foto: ANSA/MAURIZIO BRAMBATTI