Intervento alla presentazione del numero speciale di Limes
Cari colleghi, gentili ospiti,
è per me un grande piacere ospitare nella Sala Zuccari del Senato la presentazione del numero di novembre della Rivista Italiana di Geopolitica Limes, che affronta un tema di estrema attualità al quale, con entusiasmo, anche io ho voluto offrire un contributo attraverso un’intervista.
Vorrei ringraziare il direttore della rivista Lucio Caracciolo per l’impegno e la passione con cui ha ideato e guida questa opera editoriale che rappresenta un punto di riferimento innovativo e fondamentale per gli studi internazionali e geopolitici. Saluto i relatori di questo incontro, ringraziandoli per aver voluto condividere oggi con noi la loro esperienza e loro idee sulla lotta alle mafie in Italia e nel mondo. Mi fa molto piacere in particolare la presenza dell’On. Bindi che ha assunto il delicato incarico di presiedere la Commissione parlamentare antimafia, a cui rivolgo i miei migliori auguri di buon lavoro.
Il titolo che avete scelto per questo numero di Limes – il circuito delle mafie – illumina una accezione moderna del fenomeno mafioso che non si esaurisce in una questione di ordine pubblico interna agli Stati ma ha invece un carattere molto più ampio: politico, geopolitico, economico. E globale. Le mafie influenzano i rapporti fra gli Stati, corrodono la democrazia, inquinano l’economia.
Il modello mafioso italiano, che si è radicato ed esteso in Italia al di fuori dalle regioni di origine e in diverse aree del globo, nasce da un intreccio fra crimine, società e territorio ed è storicamente connotato da uno specifico rapporto con la politica e l’amministrazione pubblica. Altri fenomeni criminali organizzati nati in altri paesi hanno caratteri diversi e non sempre sono così efficienti nel penetrare i territori e la politica ma a prescindere dalle specificità è essenziale osservare lo sviluppo della criminalità organizzata transnazionale in termini globali.
L’esperienza internazionale rimanda casi in cui le strutture mafiose sono giunte ad impossessarsi di interi stati: quelli che definiamo “Stati-mafia”. In altri casi le mafie influenzano in profondità la società, la politica, l’economia e convivono con le istituzioni come parassiti. Ancora altrove l’azione della criminalità organizzata ha sgretolato le strutture dello Stato dando vita a “Stati falliti”, incapaci di controllare il territorio, imporre la legge, controllare i conflitti.
I fenomeni criminali cambiano ad una velocità inusitata. E’ una conferma della loro straordinaria capacità adattiva ai cambiamenti del mondo esterno, alla globalizzazione, che evolve a ritmo frenetico. La globalizzazione dell’economia ha cambiato il volto al crimine organizzato che è sempre più simile ad un’impresa commerciale transnazionale, caratterizzata dal multi-traffico, cioè dalla fornitura simultanea di diverse tipologie di beni e servizi illegali. La criminalità organizzata ha raggiunto proporzioni macroeconomiche.
Per combattere l’espandersi delle realtà illecite è importante che gli Stati adottino norme e strategie comuni per un coordinato sviluppo delle indagini e delle politiche. Non basta fermarsi alle operazioni di polizia congiunte e ai procedimenti penali collegati, che pure sono strategiche per l’identificazione e la localizzazione delle organizzazioni criminali. Bisogna andare oltre. Alla globalizzazione del crimine dobbiamo opporre quella della legalità e per fare questo serve innanzitutto armonizzazione legislativa delle regolazioni nazionali.
E’ compito delle istituzioni riaffermare il ruolo e la forza della decisione politica, perseguendo politiche pubbliche capaci di operare su quelle condizioni sociali, economiche e culturali che maggiormente favoriscono il radicamento delle mafie.
In Italia, ci sono molti cambiamenti in atto che tendono a colpire la mafia non solo nella sua dimensione criminale, ma anche in quella sociale. Mi riferisco ad esempio ai movimenti dei commercianti e dei professionisti contro il pizzo che rappresentano l’inizio di una rivoluzione culturale di portata straordinaria.
Vorrei ricordare, in proposito, il protocollo di legalità, sottoscritto nel 2010 tra il Ministero dell’interno e la Confindustria, poi rinnovato nel 2012, che, proprio attraverso una fattuale collaborazione tra imprese e autorità pubbliche finalizzata all’attivazione di misure di salvaguardia atte a contrastare l’azione delle organizzazioni criminali nell’economia, ha segnato un momento di rilevante evoluzione nella garanzia della libertà di impresa.
Ma anche su questo piano dobbiamo saper andare oltre. La lotta alla mafia non può essere solo una battaglia di ideali; dobbiamo intervenire sulle condizioni di sviluppo, sulla capacità dei territori locali di attrarre investimenti e risorse professionali. Se i giovani sono educati alla legalità, ma poi sono costretti a lasciare le regioni di origine, perché lì non trovano concrete opportunità di inserimento, si crea un circuito vizioso in cui rimane solo chi in qualche modo viene a patti con la criminalità organizzata. Dobbiamo proseguire con coraggio nei programmi educativi contro la mafia, operando innanzitutto sulla famiglia e sulla scuola, che rappresentano gli ambiti di intervento prioritari. Come diceva Antonio Caponnetto: “La mafia teme la scuola più della giustizia” perché l’istruzione taglia l’erba sotto i piedi della cultura mafiosa”.
La mafia si può e si deve sconfiggere. Questa deve essere la nostra comune convinzione. Se ci crediamo fortemente avremo una possibilità di sconfiggere alla radice il fenomeno.
Per farlo occorrono una serie di strumenti. In primo luogo risorse materiali: soldi e uomini da dedicare alla repressione, alla bonifica e alla riconquista del territorio. Poi, soprattutto, bisogna rafforzare le istituzioni adattando la normativa anche a tutti i fenomeni connessi alla mafia. La mafia attecchisce laddove lo Stato è debole e non è in grado di soddisfare i bisogni dei cittadini. Lo constatiamo in particolare a livello internazionale dove i processi di formazione di uno Stato mafia passano per eventi traumatici, profondi conflitti interni che determinano una conseguente disgregazione dello Stato.
Il dovere delle istituzioni è quello di creare valide alternative all’azione criminale, dobbiamo rendere la mafia superflua, spezzando quel consenso che la necessità sociale genera nei suoi confronti. Questo sarà possibile solo ricostruendo quel rapporto di fiducia tra politica e cittadini attraverso la cura dell’interesse collettivo.
C’è poi la questione etica, che oggi più che mai appare centrale. La crisi della legalità è innanzitutto una crisi dell’etica pubblica e privata: nasce infatti dal radicamento, e prima ancora dall’accettazione sociale, di comportamenti quali la corruzione, il lavoro nero, l’evasione e l’elusione fiscale, l’economia sommersa. Non possiamo più tollerare che il bene comune venga quotidianamente offeso dalla ricerca a tutti i costi del beneficio individuale. Solo se mossi da questo senso di responsabilità sociale prima ancora che professionale, potremmo liberarci da quelle catene e dai vincoli che il radicamento di comportamenti scorretti sul piano etico quotidianamente pone sul nostro cammino.
Finché la mafia esiste, bisogna parlarne, discuterne, reagire. Per contrastare la mafia è indispensabile avere la percezione esatta della sua pericolosità e questa coscienza si ha soltanto se si cerca di comprendere appieno il fenomeno e le sue ragioni sociali, culturali, economiche.
Per parte mia non posso dimenticare 43 anni di vita professionale dedicati alla lotta contro la mafia, alla tutela della legalità, alla difesa dei diritti fondamentali dei cittadini. Oggi come politico e come Presidente del Senato sono fermamente convinto che il futuro delle mafie dipende dall’impegno della politica e che il futuro del Paese dipende dalla capacità che avremo di sanare un vuoto profondo di cui la politica soffre verso i cittadini, di comprensione, rappresentatività e di legittimazione etica. Questo il mio impegno, questa la mia speranza.