Dov’è la mafia oggi? In nessun posto e dovunque

Massimo Martinelli e Malcom Pagani per il Messaggero

Pietro Grasso pensa di essere un uomo fortunato: «Il fato ha contato. In certi casi la morte mi ha sfiorato e in tante occasioni me la sono cavata per un pelo. Ho passato le consegne da Presidente della Repubblica supplente allo stesso uomo che avevo conosciuto il 6 Gennaio 1980 dopo l’omicidio di suo fratello e non posso non pensare che il destino c’entri qualcosa. In quel momento mi sono detto: “Chi poteva immaginarlo? Nessuno dei due faceva politica nel 1980, fosse un film direbbero che è esagerato”.  A 25 anni dalle stragi di Mafia, in “Storie di sangue, amici e fantasmi” (Feltrinelli, la presentazione oggi pomeriggio, al Salone del libro di Torino) Grasso ripercorre il film dei propri ricordi. Memorie feroci dell’epoca in cui lo chiamavano Sandokan («Il giorno della sentenza del maxi avevo la barba lunga»), quando era precipitato in una giungla fitta di pericoli e nemici abili nel mimetizzarsi. Tra allarmi reali e bilanci, qualcosa sembra essere rimasto nell’ombra: «So che ho fatto tutto il possibile per inseguire la verità, ma so anche che non sempre sono riuscito a raggiungere l’obiettivo. Provenzano avrebbe potuto chiarire molti aspetti oscuri: per suffragare certe ipotesi avremmo avuto bisogno che lui chiarisse tanti misteri, ma i suoi segreti Binnu se li è portati nella tomba».

Quali aspetti oscuri?

«Poco dopo la morte di Bontade, in una Palermo in piena guerra per il dominio locale sul traffico di stupefacenti, venimmo a sapere che Provenzano aveva sciolto una loggia massonica, quella dei trecento. Come poteva avere l’autorità per farlo? Ne faceva parte?».

È una domanda interessante.

«Gli anni spesi a indagare e a studiare l’arcipelago mafioso ci hanno fatto capire che Cosa Nostra non è solo un fenomeno criminale, ma un sistema in cui la ricerca del consenso e i rapporti con la politica e l’imprenditoria rappresentano le tre gambe del tavolo. Provenzano, legato all’antica mafia agricola e perfettamente in grado di vivere in un rudere mangiando ricotta e cicoria, avrebbe potuto illuminarci sull’evoluzione della Mafia stessa. Era stato latitante per 43 anni, era impossibile che non avesse goduto di concreti appoggi sul territorio».

L’organizzazione dei corleonesi però è stata cancellata.

«Se si esclude Matteo Messina Denaro. Alcuni dicono che sia morto, ma io non ci credo. Quando non si vuol far catturare qualcuno si inizia sempre a far circolare la voce che sia deceduto. Provarono a farlo anche con Provenzano, ma avevamo il suo Dna e non ci potevano fregare facendoci trovare un qualunque cadavere carbonizzato. Si erano evoluti loro, ma ci eravamo evoluti anche noi».

Quindi Matteo Messina Denaro è vivo.

«Fino a prova contraria ritengo di sì. Forse non è mai diventato il capo perché, pur sollecitato, ha preferito continuare a curare solo i propri affari. Oggi, in piena globalizzazione, non è più necessario rimanere nel trapanese per farlo».

Se lo immagina in Asia, a migliaia di chilometri?

«E perché così lontano? Basta essere a Tunisi. I mafiosi di un tempo, per atavica diffidenza, difficilmente porterebbero i propri capitali così lontano. All’epoca in cui Cangemi iniziò a collaborare con la giustizia, ci capitò una cosa curiosa».

Quale?

«Non eravamo soddisfatti di lui, avvertivamo la sua reticenza e glielo dicemmo chiaramente. Allora lui per dimostrarci che non mentiva ci fece ritrovare il suo tesoretto in Svizzera».

Nel caveau di una banca?

«Macchè. Sotto terra, in un sacco di iuta. “Mi hanno giurato che in Svizzera sono più sicuri” ci disse, e noi non sapevamo se piangere o ridere».

Nel libro commozione e ricordi lieti si alternano a ogni pagina, ma è come se dopo tanto tempo, ci fosse maggiore libertà nel poter raccontare quegli eventi.

«Il tempo mi ha dato l’opportunità di riflettere meglio e di avere una visione globale, ma il senso di colpa del sopravvissuto e la ricerca delle risposte mi hanno fatto soffrire a lungo».

Perché parla di senso di colpa?

«Perché il Maxiprocesso, un monumento giuridico che vide un’inedita e coesa partecipazione istituzionale, costò la vita a tanti colleghi e amici. Abbattemmo ostacoli apparentemente insormontabili e ogni tanto, anni dopo, mi sono trovato a chiedermi: “Ma se quegli ostacoli ci avessero fermato, Paolo e Giovanni sarebbero ancora vivi?” Per superare il senso di colpa ci sono voluti anni e l’unica possibile consolazione a posteriori è pensare a chi fossero davvero Borsellino e Falcone. Due che non si sarebbero fermati comunque, davanti a nulla».

Il Maxiprocesso è stato lo spartiacque della sua vita.

«Il passaggio da un’esistenza normale a una blindata che dura tuttora. Sono sotto scorta dal 1985, non mi ricordo più neanche cosa significhi poter camminare per strada da solo».

Con Falcone a Roma lo facevate spesso.

«Ci sentivamo più liberi, meno controllati, meno assediati dal pericolo. Ogni tanto liquidavamo la scorta e ce ne andavamo in giro come due turisti qualsiasi».

Cosa nostra avrebbe voluto uccidervi in un ristorante.

«Per fortuna Riina mandò il commando alla trattoria sbagliata, ma prima o poi avrebbero colpito. Ancora mi interrogo sui motivi che spinsero Cosa Nostra a cambiare idea. Falcone inizialmente doveva essere ucciso a Roma».

Invece fu ucciso in Sicilia.

«Riina dice a Sinacori: “Tornate, abbiamo trovato di meglio” e l’azione romana viene interrotta. Cercavano una strage che facesse parlare tutto il mondo, un evento che spaventasse la gente nel contesto eversivo di una neo-strategia della tensione che dopo Lima non aveva più i politici nel mirino- i rapporti con la politica evidentemente servivano- ma i magistrati».

Come mai secondo lei?

«Falcone e Borsellino erano nemici di Cosa Nostra e avevano fatto condannare per la prima volta all’ergastolo mafiosi in precedenza sempre assolti per insufficienza di prove. Per spiegare la loro morte però, il contrasto alla Mafia non basta. C’è dell’altro. Ricordo l’importanza che Falcone attribuiva alla posizione di Ignazio Salvo nel Maxiprocesso».

L’imprenditore Ignazio Salvo, poi ucciso a settembre del 1992.

«La sua condanna fu importante perché provava il legame tra imprenditoria, politica e mafia che era alla base del sistema allora dominante in tutta la Sicilia. E’ facile dedurre che il sistema per autodifesa avesse innescato un’azione preventiva per mettere Falcone e Borsellino in condizione di non nuocere. Non a caso, in una strategia che definirei conservativa, la loro eliminazione fu seguita dalla stagione delle stragi in continente tanto che Giuseppe Graviano, dopo via D’Amelio, dice a Spatuzza: “Ne faremo tante altre adesso”».

Borsellino e Falcone sapevano di dover morire?

«Paolo me lo disse: “So che è arrivato l’esplosivo per me, molti amici mi pregano di lasciare Palermo, ma come faccio a tradire la fiducia di tanta gente che crede in me?”. Anche Falcone con il sentore della morte conviveva da sempre. Negli ultimi tempi poi era molto amareggiato, deluso, segnato dai contrasti e dalle continue delegittimazioni. Un giorno a pranzo, a Catania, dopo aver testimoniato sull’omicidio Costa, prendendo un lembo della sua giacca disse: “Sono siciliano e la morte non mi fa paura: in questo momento la mia vita vale meno di questo bottone»

Ha mai creduto all’esistenza dell’agenda rossa?

«Un’agenda è stata trovata, ma non quella rossa. Sono state fatte tante indagini e tante ipotesi, purtroppo senza raggiungere certezze».

Come spiegherebbe a un ragazzo cosa è stata la presunta trattativa Stato-Mafia?

«Gli farei leggere la sentenza definitiva di Firenze del processo sulla strage dei Gerogofili, nella quale sono ricostruiti fatti e comportamenti definiti come “trattativa”, anzi, come “trattative” essendone emerse più di una».

Ma davvero lo Stato venne a patti con la Mafia?

«Cosa Nostra è un’organizzazione che ha sempre cercato i contatti con lo Stato perché la forza della Mafia deriva dalle risorse, dagli affari, dagli appalti pubblici. Provenzano nutriva dubbi sull’opportunità di eliminare i politici perché uccidere i propri interlocutori non gli pareva poi una grande idea. Uccidere i magistrati è una cosa, poter ricattare lo Stato per rinverdire un’alleanza alimentata dai reciproci favori, un’altra. Il problema è che questioni del genere vanno provate in aula: c’è un processo in corso da tempo, aspettiamo di vedere come finirà».

Lei nel libro usa più volte il termine “ricatto”.

«Il meccanismo di Cosa Nostra è semplice: io ti faccio un danno perché tu debba poi venire da me a chiedermi protezione. Non vengo a estorcerti il pizzo o a pietire un’elemosina, ma creo il bisogno. Metto in piedi una strage in maniera che poi qualcuno a vario titolo mi preghi di smetterla. Mori, che rappresentava una parte dello Stato, prova a interloquire. E cosa gli rispondono? “Non smettiamo se prima non abbiamo garanzie dalla politica”».

Fino all’estate di sangue del ’93 il ricatto pare continuare.

«Ma i morti in continente sono occasionali, non cercati. Il passaggio successivo, la strage indiscriminata, è una minaccia che non viene attuata. Il telecomando di Spatuzza, allo Stadio Olimpico, non funziona. I carabinieri si salvano e a Spatuzza nessuno chiederà più di ritentare. Si disse che il telecomando non funzionò, anche se oggi sappiamo che già allora esistevano tecnologie capaci di interferire e neutralizzare un congegno elettronico a distanza».

Dov’è la mafia oggi?

«In nessun posto e dovunque: se guardiamo le statistiche si muore di più in famiglia, ma questo significa soltanto che la Mafia silente di un tempo, quella che non vuole riflettori e confusione intorno ai propri affari è tornata di moda. Alla globalizzazione di mafie che non attaccano più frontalmente le istituzioni, ma investono nel mondo, dobbiamo rispondere con una globalizzazione della legalità e con leggi che favoriscano la cooperazione giudiziaria».

Non si chiede mai chi gliel’abbia fatto fare?

«Mai. Ma vedere morire le persone che come me credevano in qualcosa e vivere nel pericolo mi è costato sofferenza. Mio figlio all’epoca del Maxiprocesso era adolescente. Ero stato nominato giudice a latere senza aspettarmelo minimamente e da un momento all’altro mi trovai precipitato in un lavoro che mi impegnò giorno e notte. Una mattina venne da me a lamentarsi, aveva bisogno di una nuova tuta, sua madre insegnante era appena uscita e mi chiese di comprargliela. Scesi in un negozio di articoli sportivi e dall’altra parte del bancone trovai un ragazzo che mi salutò: “Buongiorno dottor Grasso, si ricorda di me?”, “No, dovrei?”, “Siamo stati due anni faccia a faccia, io dietro le sbarre, lei come giudice del Maxiprocesso”. Feci quasi un salto indietro: “E cosa ci fa qui?”, “Lei rigettò 12 istanze di scarcerazione e fu cattivo, ma poi arrivarono i giudici buoni e mi liberarono”. Tornai a casa e controllai il faldone. Era il figlio di un boss indicato come un feroce killer. In quel momento, per un attimo, mi chiesi: “Chi me lo fa fare se intanto c’è qualcuno che rovina tutto quello per cui combatto?”. Ma fu un istante. Con mio figlio poi il rapporto l’ho recuperato. Era stato sulle gambe di Giovanni, aveva capito che per le proprie idee, se fai il magistrato, si può anche morire. Oggi è funzionario di Polizia. In qualche modo ha preso una strada parallela».

A proposito di strade parallele, è vero che avrebbe voluto diventare calciatore?

«E’ una vecchia storia: da ragazzo giocavo nella Bacigalupo e per divertirmi gioco ancora, ma il calcio italiano non ha perso un Totti».

Dell’Utri, che era l’allenatore, disse maliziosamente che lei usciva dal campo immacolato.

«Gli risposi con le parole di mia madre. Si lamentava di quanto fossero luridi i panni che riportavo a casa e un giorno mi fulminò: “Piero, stai attento, se continui così il fango non se ne va più”. E il fango in Sicilia è più di una metafora».