Intervento al convegno “Convenzione di Istanbul e Media”
Cari amici,
è per me un grande piacere ospitare nella Sala Zuccari del Senato il convegno “Convenzione di Istanbul e Media”. Vorrei innanzitutto ringraziare la collega e Vice Presidente del Senato, Valeria Fedeli, che ha organizzato e reso possibile questo incontro, i relatori e tutti i presenti. Un saluto particolare lo voglio indirizzare all’amica e collega Laura Boldrini, che in questi giorni sta affrontando un’ondata di offese e attacchi senza precedenti.
Quella di oggi è un’occasione preziosa per riflettere su un fenomeno che ha ormai assunto la dimensione di una vera e propria emergenza sociale: la violenza di genere, che non è una collezione di fatti privati ma una tragedia che parla a tutti, che parla di tutti. Sono pienamente consapevole e preoccupato della portata di un fenomeno che va combattuto in tutte le sue forme: dalle offese, alle minacce, agli atti di violenza fisica e psicologica.
Dobbiamo affrontare questa emergenza non solo in via repressiva ma anche, e prioritariamente, in via preventiva, utilizzando tutti i mezzi a nostra disposizione per garantire la sicurezza delle donne nelle strade, nei luoghi pubblici, all’interno delle pareti domestiche. Queste ultime sono il luogo dove è certamente più difficile intervenire perché è necessaria la collaborazione della vittima, che in molti casi non denuncia per sfiducia nelle istituzioni, per paura, per mancanza di mezzi. Non dobbiamo dimenticare che vi sono anche casi, invece, in cui le donne, pur avendo denunciato, continuano a subire violenza fino a trovare la morte. E questo è intollerabile. Poche ore fa abbiamo avuto l’insopportabile notizia di altre due ragazze, giovanissime, uccise: Ilaria Pagliarulo, di soli 20 anni, ferita a copi di pistola una settimana fa, e Marta Deligia, strangolata a 24 anni dal suo ex.
La Convenzione di Istanbul è il primo strumento giuridicamente vincolante che crea un quadro giuridico completo per proteggere le donne contro qualsiasi forma di violenza. Dopo il voto del Senato a luglio, pochi giorni fa il disegno di legge di ratifica è stato approvato alla Camera dei deputati all’unanimità: un segnale forte che ci accomuna tutti nella lotta alla violenza di genere.
Gli interventi di carattere legislativo sono necessari, ma l’arma vincente è rappresentata dal cambiamento culturale. Sappiamo infatti che non sarà certamente uno strumento giuridico, una convenzione, una Nuova Carta dei diritti, a fermare la strage delle donne. Anche le migliori leggi da sole non bastano, soprattutto se a queste non si affiancano le risorse per renderle efficaci, come il finanziamento dei numeri d’emergenza e delle strutture di accoglienza.
La parità tra i generi è una meta di civiltà rispetto alla quale il Paese non può abdicare. Deve essere il frutto di una progressiva ed inesorabile azione di maturazione delle coscienze di tutti coloro che vivono in Italia: cittadini italiani, responsabili della cosa pubblica, migranti che hanno scelto di integrarsi nelle nostre comunità.
Da uomo delle istituzioni e da servitore dello Stato suona quasi come una sfida dire che la parità tra i generi deve essere conseguita andando “oltre le regole”, oltre quel concetto di quote di genere previsto dalla legge. La realizzazione della parità non si costruisce per legge, a nulla serve sforzarsi di trovare delle donne da indicare per ricoprire un certo ruolo solo perché è una norma a prevederlo! E’ uno sforzo vano che non premia, non fa crescere, e rischia anzi di mortificare colei che viene scelta solo perché è la legge a prevederlo. Anche perché sappiamo che dove si viene nominati le percentuali premiano gli uomini, mentre dove si accede per regolare concorso sono le donne a prevalere.
Andare “oltre” le regole non significa andare contro le regole. Tutt’altro. E’ il modo per renderle realmente sentite, metabolizzate, frutto di un processo di maturazione ampio che deve interessare tutti gli strati della popolazione, un processo che deve coinvolgere tutti gli ambienti, tutti i luoghi rilevanti della vita e del confronto pubblico, a partire dalla politica, che spesso da una cattiva immagine di se, e soprattutto dalle scuole, sin da quelle primarie. Per questo ho letto con piacere stamattina la notizia dei corsi di “educazione alla differenza” e “nuovi occhi per i media” lanciati a Torino.
Occorre esplorare i mezzi utilizzati dai giovani, e non solo da essi, per svolgere riflessioni, condividere informazioni, maturare identità e sensibilità. Oggi i ragazzi e le ragazze sono alla ricerca di regole e di valori. Penso, ad esempio, alla funzione, sempre più radicata, che i social media svolgono, creando luoghi di scambio di idee e di veicolazione di messaggi. Anche in ragione della loro diffusione, questi nuovi media rappresentano il contenitore dove nascono, si formano e si sviluppano le coscienze dei giovani, dove può e deve maturare una sensibilità diffusa e profonda sul tema della violenza di genere. Vengono spesso additati come il luogo del male, dove le violenze psicologiche si consumano e diventano pubbliche, dove le vittime vengono umiliate. Possono però diventare anche i luoghi dove tutto questo viene analizzato e soprattutto superato dalle giovani generazioni. Ci sono stati già esempi positivi, seppure tardivi e riparatori, ma sono certo che se sapremo accompagnare alla diffusione di questi strumenti una buona educazione all’uso, alla lettura e all’influenza dei social media nella vita dei giovani, potremo avere buoni risultati senza dover passare da anatemi inutili e lamentazioni sterili.
Gli stereotipi veicolati dai mezzi di comunicazione (televisione, giornali, riviste, pubblicità, internet) hanno prodotto modelli del femminile e del maschile estremi sotto il profilo della differenza di genere. Questi stereotipi devono essere modificati per giungere ad una nuova definizione del femminile.
E qui voglio provare ad entrare nello specifico del tema di oggi e lanciare qualche spunto agli ospiti che interverranno dopo di me.
Partiamo dalla televisione anche se all’inizio del mio mandato, da Grasso a Grasso, Aldo, il mio omonimo critico televisivo, mi ha caldamente sconsigliato di intervenire in tv e sulla tv. Oggi dovrò fare una piccola eccezione a quella regola che finora ho cercato di seguire.
C’è una frase di un critico cinematografico francese, Serge Daney, che descrive bene quello che ormai è accettato come evidente: “La televisione rappresenta l’inconscio a cielo aperto della nostra società”. Se è così, l’inconscio del nostro Paese ha bisogno di un’analisi seria, approfondita e radicale. Occorre chiamare in causa chi è chiamato a decidere, scegliere, scrivere e produrre televisione in Italia e chiedergli di fare qualche sforzo in più di immaginazione, di creatività e di rispetto. Non mi riferisco solo al noto discorso sul “corpo delle donne”, che altri e meglio di me hanno già affrontato e discusso in moltissime sedi. Parlo di andare oltre stereotipi e pregiudizi, sia positivi che negativi, che bloccano l’immaginario del nostro sistema mediatico, e quindi il nostro, a parecchi decenni fa.
Il ruolo importante che il sistema televisivo dovrebbe assumersi è quello di restituirci, in forma artistica o comunque mediata, la complessità del reale, con tutte le sue sfide, i suoi problemi, le sue soluzioni. Proprio Aldo Grasso, nel suo libro sulla “buona maestra” televisione, cita una frase dello scrittore Gabriele Romagnoli che dice: “Eravamo così impegnati a parlare male della televisione che non ci siamo accorti di quanto fosse (almeno in parte) diventata bella. La “meglio tv” è rappresentata dalle lunghe serialità americane. Più del cinema, a volte perfino più della letteratura contemporanea, sanno raccontare la realtà, ne colgono le novità, divertono e, al tempo stesso, affrontano temi alti che nessun talk show affollato di esperti discuterebbe per paura dell’audience. Invece, catturano pure quella, perfino in Italia”.
Quello che è successo è che da qualche anno il compito di darci una visione critica e complessa della nostra società si è spostato dalla letteratura alle serie tv, alcune delle quali interrogano davvero in profondità il rapporto con l’etica, la morale, le difficili scelte quotidiane di ciascuno. Potremmo passare ore a disquisire se questo sia un bene o un male, ma oggi diamolo per assodato e chiediamoci: la nostra tv ha saputo affrontare questa sfida o ha rinunciato a questo confronto diretto con la modernità, mostrandoci un mondo di buoni e cattivi senza sfumature, di divisione manichee, di ruoli stereotipati che replicano e rafforzano ruoli e funzioni, anche tra uomini e donne, che invece andrebbero discussi e, magari, superati? Nel mondo delle nostre fiction abbiamo soprattuto agiografie, poliziotti buoni, avvocati integerrimi, preti detective, storie rassicuranti e a lieto fine.
Ma i maggiori successi, quelli che hanno appassionato e stanno appassionando le nuove generazioni in tutto il mondo, parlano di altro, hanno protagonisti sfaccettati e complessi (medici misantropi e arroganti, professori repressi che di fronte alla notizia di una malattia terminale diventano criminali, mafiosi in analisi, pubblicitari misogini, poliziotti corrotti, militari passati al nemico, politici che sacrificano ogni ideale alla carriera..): queste trame spesso esagerate sono però il pretesto per discutere di temi universali, interrogare il confine tra il giusto e l’ingiusto, tra la giustizia e la vendetta, tra il bene personale e quello collettivo. Soprattutto ci restituiscono l’immagine di donne e uomini a tre dimensioni, immersi nella vita, di fronte a scelte e azioni difficili, assolutamente sullo stesso piano, come nella nostra quotidianità. E’ questo secondo me il piano su cui è utile intervenire, quello dell’immaginario, della narrazione, più di quello del dibattito, perché è lì che le ragazze e i ragazzi costruiscono il loro sistema di credenze e di valori.
Sull’informazione il discorso è altrettanto complesso, e non posso non riconoscere l’impegno e la costanza con cui i diversi media stanno affrontando da mesi il tema delicato del rispetto delle donne e della prevenzione dei comportamenti violenti e criminali messi in atto contro di loro dagli uomini. In questa sede mi limiterò a suggerire una maggiore attenzione a quei riflessi automatici che a volte rischiano di vanificare la profondità e l’analisi che, dalle stesse testate, è stata dedicata a questo tema con l’obiettivo di costruire un diverso sentire comune. Faccio solo un esempio: nelle ultime settimane una ragazzina di venti anni, ex star della Disney, ha deciso di conquistare l’attenzione dei media con un balletto e un video molto provocatori e ad alto contenuto erotico.
In ogni sito di informazione del mondo abbiamo avuto video e gallerie fotografiche, nell’ordine: del balletto, delle imitazioni, delle parodie, delle reazioni e delle curiosità, ognuna di queste corredata da immagini esplicite di adolescenti seminude. Se posso esprimere un parere, suggerirei alle testate maggiormente impegnate sul tema che affrontiamo oggi di fuggire dalla tentazione di qualche contatto in più, e di declinare l’invito implicito a partecipare ad una campagna di marketing così ben costruita. Per non parlare delle gallerie delle “tifose più belle”, le “atlete più sexy” e quant’altro. Addirittura nel 2011 abbiamo avuto “Miss Camera”!
Non possiamo infine trascurare l’importanza della formazione di figure professionali che sappiano affrontare la questione della violenza in un’ottica corretta. Formazione per le forze dell’ordine con specialisti che abbiano una particolare sensibilità e una preparazione per il sostegno alle donne vittime di violenza e alle loro famiglie. Soltanto se ciascuna di loro inizia a credere di poter reagire e agire, sapendo di non essere sola, un giorno le cose cambieranno. Il silenzio non aiuta, le parole si. La dignità delle donne è la dignità di un Paese: questo deve essere il nostro punto di partenza e, insieme, il nostro punto di arrivo.