Discorso in occasione del convegno per il trentacinquesimo anniversario dalla morte
Autorità, gentili ospiti, signore e signori,
è per me davvero un piacere partecipare, dopo l’intensa ed emozionante giornata commemorativa di ieri, a questo incontro sull’operato del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Come ho avuto modo di scrivere recentemente, ci sono uomini che, con la loro sola presenza, cambiano l’atmosfera del luogo in cui si trovano. Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa era uno di questi: autorevolezza, competenza, carisma lo avevano reso tra gli uomini più apprezzati di tutte le forze armate.
Il generale conosceva la Sicilia, c’era già stato due volte: da Capitano nel 1949 a Corleone, svolgendo le indagini sull’omicidio di Placido Rizzotto, e da Colonnello a partire dal 1966, al comando della Legione di Palermo, che aveva giurisdizione anche sulle province di Agrigento, Caltanissetta e Trapani, imparando a conoscere anche i mafiosi e le loro connessioni con la politica, prima di dedicarsi con tutta la sua intelligenza e le sue capacità alla criminalità milanese prima e alla lotta al terrorismo poi. Per i cittadini onesti di Palermo, martoriata e impaurita da almeno tre anni per il feroce attacco a rappresentanti delle istituzioni e per le centinaia di omicidi della guerra di mafia, che avevano inondato le strade di sangue, il suo arrivo costituiva un punto di riferimento autorevole e capace di infondere sicurezza, fiducia e speranza. Verso la metà di marzo 1982, si erano sparse le prime voci di una sua venuta a Palermo e quando Giovanni Falcone mi riferì che un avvocato gli aveva chiesto, a nome del generale, una copia dell’ordinanza di rinvio a giudizio del procedimento contro Rosario Spatola e altri atti, commentammo con favore e apprezzamento il fatto che il generale stesse valutando seriamente l’intenzione di venire a Palermo.
Proprio la conoscenza della complessità del fenomeno mafioso e la sua connessione con l’inestricabile intreccio di interessi politico-economici provocavano nel neoprefetto, da un lato, la giusta analisi di assoluta inadeguatezza dei poteri prefettizi a fronteggiare la criminalità mafiosa e, dall’altro, la piena consapevolezza che l’adempimento del suo dovere lo avrebbe inevitabilmente indotto a scontrarsi con potenti settori politici, che proprio dagli ambienti mafiosi attingevano larghe quote di consenso elettorale. Precise tracce di questo travaglio interiore emergono dal suo diario alla data del 30 aprile 1982, giorno in cui viene assassinato l’onorevole Pio La Torre e il generale da Roma, viene catapultato a Palermo per assumere l’incarico di prefetto in anticipo rispetto ai tempi previsti:
“Mi sono trovato, da un lato, una pubblica opinione che ad ampio raggio mi ha dato l’ossigeno della sua stima e attende i miracoli e, dall’altro, un ambiente, che va maledicendo la mia destinazione e il mio arrivo, pronto a buttarmi al vento non appena determinati interessi saranno toccati o compressi, pronto a lasciarmi solo nelle responsabilità che indubbiamente deriveranno e anche nei pericoli fisici che dovrò affrontare…”, frase che compare in esergo al bel libro di Andrea Galli che verrà presentato oggi.
Il mio ultimo ricordo con il generale risale a fine maggio 1982, durante la cerimonia della festa della polizia alla caserma Lungaro. Il prefetto, che indossava un doppiopetto grigio, mi si avvicinò e, con un accattivante sorriso sotto i baffetti sale e pepe, mi chiese le carte delle indagini già definite delle espropriazioni della diga Garcia, che avevano elargito ai proprietari, tra i quali i cugini Salvo, 21 miliardi di vecchie lire a fronte dei 2,5 miliardi stanziati, nonché gli atti degli appalti, banditi dal Comune di Palermo, che erano stati oggetto delle indagini sull’omicidio del presidente della Regione siciliana, Piersanti Mattarella. Restammo d’accordo che gli avrei fatto avere il tutto a settembre, alla ripresa delle attività dopo le ferie, ma persi la mia corsa contro il tempo, arrivò prima il crepitare dei kalashnikov quella tragica sera del 3 settembre 1982, quando in via Isidoro carini caddero lui, Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. Sono certo che i miei stessi sentimenti di rabbia, di sdegno, di commozione, ma anche di sgomento e di impotenza di fronte all’arrogante violenza mafiosa, ispirarono l’ignoto autore del cartello lasciato sul luogo dell’eccidio: “Qui è morta la speranza dei palermitani onesti”. Il 4 settembre 1982, dal pulpito della chiesa di San Domenico, il cardinale fece impallidire i più importanti uomini politici siciliani e d’Italia, che assistevano nelle prime file alla messa funebre del prefetto Dalla Chiesa, citando la nota frase tratta dalle Storie di Tito Livio: Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur; mentre a Roma ci si consulta, la città di Sagunto viene espugnata. Sagunto è Palermo. Povera la nostra Palermo! Come difenderla?» A seguito delle sferzanti accuse, dal fondo della chiesa, dove sedeva la gente comune, esplose un fragoroso applauso. Un urlo liberatorio, un grido di condanna diretto allo Stato. Pappalardo fece vergognare la classe politica italiana che, indugiando a concedere al generale Dalla Chiesa i poteri speciali che aveva richiesto, l’aveva lasciato in una situazione di incertezza dalla quale non era uscito vivo.
L’omicidio Dalla Chiesa non fu un buon affare per Cosa nostra. Questa valutazione negativa è emersa anche dall’interno dell’organizzazione, tanto che alcuni mafiosi si chiedono ancora oggi quali interessi così importanti avesse potuto toccare il prefetto Dalla Chiesa in soli cento giorni da deliberarne l’eliminazione fisica o, di converso, per le finalità di quale potere occulto esterno abbia operato la mafia. Deponendo al processo Andreotti, il collaboratore di giustizia Tullio Cannella, riferì che proprio il feroce killer Pino Greco “Scarpuzzedda”, che aveva partecipato all’eccidio del prefetto, gli aveva confidato: “Quest’omicidio non ci voleva. Ci vorranno almeno dieci anni per riprendere bene la barca, e comunque qua io ho avuto uno scherzetto in quest’omicidio, e questo scherzo me lo fece u Raggiuneri. Cà c’è a manu d’u Raggiuneri, u sap’iddu chiddu ca cummina (lo sa lui quello che combina)”. Secondo Cannella, Greco alludeva al fatto che le vere motivazioni dell’omicidio Dalla Chiesa erano diverse da quelle fatte circolare in Cosa nostra e che, comunque, non vi erano state quelle coperture promesse a Provenzano e di cui si era fatto lui stesso garante. Infatti, in pochi giorni venne approvata, dopo anni di attesa, la legge Rognoni-La Torre, che aveva resistito all’omicidio dello stesso La Torre, introducendo l’associazione mafiosa, i controlli bancari sugli enti pubblici e gli appalti, il sequestro e la confisca dei beni. Non solo, quei poteri di coordinamento investigativo sul piano nazionale che egli aveva, ripetutamente e invano, sollecitato sin dal primo momento, e che al di là delle promesse formali e delle dichiarazioni di intenti non gli erano stati concessi, vennero dati al suo successore tramite un Decreto legge, ampliandoli addirittura su tutto il territorio nazionale, anche in materia di camorra e di ’ndrangheta.
Sul piano delle indagini, dopo l’inspiegabile e pretestuoso accesso da parte di funzionari della Prefettura nella residenza di Dalla Chiesa, asseritamente per prelevare delle lenzuola da usare per coprire i cadaveri in camera mortuaria, c’è il giallo della cassaforte, trovata inspiegabilmente vuota soltanto l’11 settembre, quando in bella evidenza viene scoperta la chiave, invano cercata per tanti giorni nel medesimo cassetto dove di solito era riposta. Misteri che nemmeno l’inchiesta dibattimentale al Maxiprocesso riuscirà a chiarire. Dopo le condanne inflitte nel Maxiprocesso ad alcuni mandanti facenti parte del vertice mafioso, le dichiarazioni di alcuni collaboratori hanno consentito di individuare e processare tutti gli esecutori materiali, ma non di dare un volto agli eventuali mandanti esterni. Del resto, tutti gli omicidi eccellenti commessi da Cosa nostra hanno cause complesse, talune delle quali assolutamente ignote anche agli stessi esecutori materiali. E oggi tutto il materiale sinora raccolto, tutti i sussurri provenienti da Cosa nostra, depongono per un interesse esterno all’eliminazione del generale, addirittura antecedente di tre anni alla sua “missione” a Palermo. Dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, Buscetta riferì che nel 1979, su incarico personale di Stefano Bontate, aveva contattato durante la comune detenzione al carcere di Cuneo il brigatista rosso Lauro Azzolini chiedendogli se le Br fossero disponibili a rivendicare l’attentato nel caso in cui qualcuno avesse ucciso Dalla Chiesa. La risposta fu tranciante: “Noi rivendichiamo solo gli attentati a cui partecipiamo”. Pertanto è ipotizzabile che, non appena mandato in Sicilia, si fosse realizzata una coincidenza di interessi tra la nuova mafia Corleonese, che aveva sostituito ai vertici quella di Bontate ed Inzerillo, che lo vedeva pur sempre come un pericolo potenziale, e altri centri di potere, che ne temevano il potere costruito sul consenso o sulla conoscenza di segreti che, se rivelati, potevano risultare destabilizzanti o quantomeno imbarazzanti.
Il collaboratore Giovanni Brusca riferì ai giudici di Caltanissetta che, a un certo punto, dopo la strage di Chinnici, arrivò a lui, da Roma, tramite Lima e quindi i Salvo, l’avvertimento di darsi una “calmata” (nel senso di non commettere altri delitti che turbavano l’opinione pubblica), perché altrimenti si sarebbero dovuti prendere seri provvedimenti repressivi. La risposta arrogante di Riina, che egli stesso riportò ai Salvo, per recapitarla al mittente, fu: “Ci lascino fare. Noi siamo sempre stati a disposizione per tanti favori che gli abbiamo fatto”. Di quali favori si tratta non si saprà mai. Certo é che gli unici omicidi eccellenti l’anno prima di Chinnici erano stati quelli di La Torre e Dalla Chiesa. Provenzano ha portato nella tomba i suoi misteri e Riina non pare disposto a rivelarli.
Del resto, coloro che avevano in precedenza sostenuto e apprezzato Dalla Chiesa come il salvatore della patria dal terrorismo, per le stesse ragioni potevano averlo temuto particolarmente. Ne conoscevano l’intuito investigativo, la capacità organizzativa, l’intelligenza, la dedizione, l’impeto, l’incorruttibilità e anche una inveterata indipendenza di giudizio unita ad un indomito coraggio. Tutte queste qualità, unite alla memoria dei segreti di Stato del terrorismo, possono ben aver costituito un’incontrollabile miscela esplosiva, rappresentata da un uomo che non si è mai asservito alla politica e che sul fronte della mafia stava rivelando di averne compreso le evoluzioni in chiave Corleonese, soprattutto sull’asse Palermo-Catania. Un uomo che, sfruttando i rapporti con la stampa e l’opinione pubblica, parlando alla gente, andando nelle scuole, orientando le coscienze, stava innescando una rivoluzione che rischiava di spezzare l’egemonia sub-culturale della mafia e del sistema di potere ad essa collegato. Il valore della vita, del sacrificio di Carlo Alberto Dalla Chiesa e, con lui, di Emanuela e di Russo, rimarrà nella memoria collettiva, non si potrà mai disperdere. È stato proprio lui a liberarci dalla minaccia eversiva; è stato proprio lui a tracciare, con la sua esperienza, con la sua alta professionalità le direttrici investigative, organizzative e metodologiche della moderna lotta contro la mafia.
Di fronte all’uccisione di un servitore dello Stato come il prefetto Dalla Chiesa, accanto alla responsabilità penale di autori e mandanti, vi è anche la responsabilità morale di chi non l’ha ascoltato o l’ha privato dei mezzi per garantire libertà e democrazia, legalità e giustizia. Come disse il generale pochi giorni prima di essere ucciso a suo figlio Nando: “Certe cose si fanno per poter guardare in viso i nostri figli e i figli dei nostri figli senza avere la sensazione di doverci rimproverare qualcosa”.