Cari cittadini, Signor Sindaco, Autorità
è con commozione, intima e profonda, che mi trovo qui oggi, insieme a voi, in questo luogo così denso di ricordi e di dolore, per ricordare le persone che hanno perso la loro vita il 9 ottobre 1963. Sono passati 50 anni da quella tragica sera quando, in pochi minuti, si è consumato uno dei più grandi disastri della storia del nostro Paese. Sono passati 50 anni, e lo sgomento, attonito e muto, di allora e dei giorni che si susseguirono, drammatici, èintatto nella nostra memoria.
Il bilancio di quella notte è pesantissimo: 1910 morti. Vostri parenti, vostri amici, cittadini innocenti che si trovavano nelle proprie case, nel calore degli affetti più intimi. Una valle che in pochi istanti cambia geografia, “un mondo che scompare in una notte”.
In un primo momento si è parlato di “tragica fatalità”, di “calamità naturale”: ma tutto quello che è successo qui, in questi luoghi, la sera del 9 ottobre di cinquanta anni fa, era indubbiamente prevedibile.
La montagna aveva mandato segnali, gli esperti avevano fatto le loro indagini e dato avvisi, lanciato allarmi circa il rischio di un evento fatale. Eppure l’avidità, l’incuria, l’irresponsabilità, la sordità alle proteste di chi da anni denunciava i pericoli – prima fra tutte una donna tenace e coraggiosa come Tina Merlin, che per le sue inchieste sulla diga venne addirittura denunciata per “diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico” – ebbero la meglio.
Questo disastro si sarebbe evitato se una maggiore considerazione della vita umana avesse prevalso su interessi economici e strategici. Non si possono sottacere le pesanti responsabilità umane che hanno determinato la catastrofe. Né, da uomo dello Stato, posso ignorare le manchevolezze delle Istituzioni dell’epoca, che non hanno permesso di intervenire e prevenire, come era doveroso.
Sono le parole di Tina Merlin a gridarcelo, quelle parole che ho letto ieri in Senato e che meritano di essere ripetute:
«E’ stato un genocidio. Lo gridano i pochi sopravvissuti, resi folli dal terrore. […] Genocidio, quindi, da gridare ad alta voce a tutti, affinché il grido scuota le coscienze del popolo, la cui pelle non conta mai niente di fronte ai dividendi dei padroni del vapore, spazzi via alfine con un’ondata di collera e di sdegno chi gioca impunemente, a sangue freddo, con la vita di migliaia di creature umane allo scopo di accrescere i propri profitti e il proprio potere. […] Io assumo la responsabilità di quanto dico. I colpevoli si assumano la responsabilità di quanto hanno fatto. E la giustizia giudichi.»
Ci sono voluti decenni per i processi, le condanne, i risarcimenti ma la giustizia, in questa valle, ancora non ha trovato piena cittadinanza. Molti sono i punti ancora da chiarire, molte le responsabilità ancora non emerse, tante le domande che ancora oggi cercano risposta. E finché non arriveremo ad una verità, finché non si sarà fatta piena luce su ogni aspetto di questa tragedia, non potremo trovare pace.
Voi avete il diritto di chiedere risposte, lo Stato, quello Stato che oggi qui rappresento, ha il dovere di darvele, per rendere giustizia alle vittime, ai loro familiari, ai superstiti, e per riscattarsi dalle proprie mancanze di cinquanta anni fa.
Il disastro che qui si è consumato deve diventare memoria e impegno per ciascun cittadino, amministratore, dirigente, politico. Ricordare quanto accaduto significa essere consapevoli che nessun interesse, nessuna convenienza, nessuna scorciatoia puòconcedersi di incidere “sulla pelle viva” di una popolazione.
La storia del Vajont – che nel 2008 l’Unesco ha considerato come il primo tra i più gravi disastri evitabili della storia dell’umanità e lo ha definito come un «racconto ammonitore» – vibra e rinnova la sua attualità ogni volta che i fatti di cronaca ci portano testimonianza di incidenti e disastri ambientali causati dall’uomo.
La tutela dell’ambiente, in passato, è stata considerata troppo frequentemente come un costo aggiuntivo, un intralcio alla produzione e alla crescita. Dobbiamo cambiare prospettiva. La tutela del patrimonio ambientale del nostro Paese è un’opportunitàdi sviluppo che dobbiamo saper cogliere, una necessità ancora drammaticamente attuale.
Rispettare il territorio significa avere rispetto dell’uomo. Negli ultimi cinquant’anni, il nostro Paese ha visto frane e inondazioni che hanno provocato 7.128 vittime, secondo le stime della protezione civile. Bisogna passare ai fatti, attuare politiche di prevenzione e tutela del territorio attraverso piani di prevenzione del rischio idrogeologico in grado di tutelare un suolo fragile e prezioso, di garantire maggiore sicurezza a tutti.
Il nostro pensiero va ai tanti, troppi morti di questa strage, ma anche a tutti coloro che sono sopravvissuti e che, privati di tutti i loro beni, si sono impegnati nella ricostruzione di un paese spazzato via in pochi istanti. Ricordiamo le leggi speciali per il Vajont che hanno permesso l’avvio di attività imprenditoriali, che hanno rafforzato il tessuto socio-economico e consentito il rientro di migliaia di emigranti. Dove 50 anni fa tutto era fango e ghiaia, oggi c’è la più grande zona industriale della provincia di Belluno e il quarto polo fieristico del Veneto.
E’ enorme la mia ammirazione verso le popolazioni di questa valle per la forza e la determinazione che hanno dimostrato, per la pazienza e la perseveranza con le quali hanno saputo rinascere dal fango. In una notte, gli abitanti di Longarone passarono da 4.700 a 3.200, un terzo dei morti aveva meno di vent’anni. Delle sette industrie esistenti, solo la Faesite rimase in piedi. Eppure, dopo quindici anni il 90% del paese era stato ricostruito e ventimila posti di lavoro erano stati creati. In pochi anni, questa comunità ha saputo agganciarsi allo sviluppo della pianura veneta e invertire l’endemica tendenza all’emigrazione, diventando il motore economico dello sviluppo provinciale.
Il Vajont è anche la storia di uno straordinario esempio di solidarietà e virtù civiche, da molti considerato alla base della nascita del sistema della protezione civile. E’ la storia di tutti quelli che accorsero con tempestività: Alpini, Vigili del Fuoco, Forze dell’ordine, volontari da tutta l’Italia. Persone che, con abnegazione, generosità e impegno hanno offerto la propria opera nel momento del dolore e dell’orrore. Persone che, in qualche modo ancora oggi portano il segno di quell’esperienza.
Come ho detto ieri in un’ Aula del Senato particolarmente coinvolta e commossa, sono qui oggi, in questa terra ferita, per inchinarmi di fronte alle vittime e ai sopravvissuti. Sono qui per portare le scuse dello Stato. Sono qui per riparare, per sanare, per quanto possibile, quella ferita che da cinquanta anni separa questo popolo dalle Istituzioni, convinto che solo con la verità e la giustizia questo processo potrà trovare pieno compimento.
Tutti noi siamo qui, oggi, con umiltà e commozione, per dire con forza: non permetteremo che tutto ciò possa accadere di nuovo. Abbiamo imparato dai nostri errori. Sono certo che anche i giovani qui presenti sapranno fare tesoro di questi insegnamenti.
Grazie a tutti per il vostro impegno, per la vostra tenacia, per la vostra solidarietà. Grazie di cuore.