In ricordo di Carlo Levi uno sguardo partecipato sull’emigrazione italiana

Gentili Ospiti, colleghi,

è con molto piacere che ho accolto l’invito che il senatore Micheloni mi ha rivolto chiedendomi di intervenire a questo incontro su Carlo Levi, figura di intellettuale complessa e dai molti talenti, nel quarantesimo anniversario dalla morte e settantesimo dalla pubblicazione della sua opera più nota, “Cristo si è fermato a Eboli”.

Come si evince dal titolo, colui che ricordiamo principalmente come scrittore in questa sede sarà oggetto di relazioni che esamineranno le sue diverse sfaccettature, perché Levi fu anche apprezzato pittore e politico attivamente impegnato. Il suo capolavoro scritto a Firenze durante l’occupazione tedesca della città, “Cristo si è fermato a Eboli”, è una rielaborazione dell’esperienza del confino prima a Grassano e poi ad Aliano, in provincia di Matera. Ebbe immediato successo, suscitando dibattiti e analisi sul rapporto tra civiltà contadina e modernizzazione, e divenne il soggetto del noto film di Francesco Rosi del 1979, prestandosi perfettamente alla trasposizione da parte del grande regista recentemente scomparso date le sue forti analogie con il filone di narrativa neorealista.

C’è una frase in quel libro che colpisce il nervo più scoperto per chi, come me, ha servito le Istituzioni, in forme diverse, per tutta la vita:  “Che cosa avevano essi a che fare con il Governo, con il Potere, con lo Stato? Lo Stato, qualunque sia, sono «quelli di Roma», e quelli di Roma, si sa, non vogliono che noi si viva da cristiani. C’è la grandine, le frane, la siccità, la malaria, e c’è lo Stato. Sono dei mali inevitabili, ci sono sempre stati e ci saranno sempre.”

Mi viene da dire che Cristo può fermarsi dove crede, nella sua onnipotenza, ma lo Stato non può certo fermarsi ad Eboli, o a Roma. Così ogni volta che leggo di un viadotto crollato in Calabria o in Sicilia, di trasporti veloci che si fermano a Salerno, di strade che sono in perenne costruzione o, come nei giorni scorsi, di intere città senz’acqua, come Messina, o in cui esce dai rubinetti acqua gialla, come a Olbia, mi chiedo quando le Istituzioni – nazionali, regionali, locali – saranno davvero in grado di creare le condizioni per uno sviluppo che vada oltre lo 0,1% e metta in condizione di vera parità e uguaglianza, almeno in partenza, tutti i cittadini del nostro Paese. Sono state procrastinate alla seconda lettura alla Camera le misure per il sud, attendiamo fiduciosi.

Torniamo a Carlo Levi: nel 1963 entrò in politica, risultando eletto senatore nel collegio di Civitavecchia come indipendente del Partito comunista italiano e, nel 1968, nel collegio di Velletri nelle liste del PCI – PSIUP (Partito socialista di unità proletaria). Nei nove anni di mandato parlamentare nella IV e nella V legislatura fu membro di Commissioni diverse e, come documentato nella raccolta dei “Discorsi parlamentari” edita dal Senato,  intervenne sulle più importanti questioni di politica interna e di politica estera dell’epoca: il varo dei primi governi di centrosinistra (che lealmente contrastò), i problemi del Sud, dell’emigrazione e della programmazione economica, la contestazione studentesca, la “primavera di Praga”, la guerra del Vietnam, i rapporti con la Cina. Essendo stato anche componente della Commissione di indagine sul patrimonio culturale, tema a lui caro, intervenne a più riprese anche in quest’ambito, in particolare in occasione delle celebrazioni del settimo centenario della nascita di Dante, della morte di Giorgio Morandi e per la tutela dei beni artistici e paesaggistici. Conoscendo a fondo la realtà e le problematiche che hanno origini storiche lontane, giudico, inoltre, di particolare rilievo i discorsi riguardanti le condizioni della Sicilia, indubbiamente sollecitati dalla consonanza intellettuale e dall’amicizia tra Carlo Levi e Danilo Dolci. La risonanza che ebbe il romanzo scritto in seguito all’esperienza del confino mise in ombra la sua attività di pittore – anch’essa sotto molti profili influenzata dal soggiorno coatto in Basilicata – ma non è affatto da escludere che, se il corso della sua vita non fosse stato profondamente segnato e mutato dall’improvvisa notorietà in ambito letterario, probabilmente lo ricorderemmo principalmente come pittore di nature morte, nudi, paesaggi e ritratti, pittore assolutamente riconosciuto, tant’è che espose nell’ambito di manifestazioni prestigiose quali la Biennale Venezia del 1924 e  quella successiva.

Come si è visto, le angolazioni da cui esaminare l’opera di Carlo Levi sono molteplici. Molto è già stato scritto e detto rispetto ad ognuna di esse. Per questo trovo particolarmente originale il taglio che si è voluto dare all’incontro odierno, il rapporto Levi-emigrazione, e mi complimento vivamente per la scelta. In attesa dei nuovi elementi che i vostri contributi ci forniranno anche su questo aspetto meno noto, vi auguro buon lavoro.