Il Senato della Repubblica ricorda oggi il bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi, secondo una tradizione sempre mantenuta in quest’Aula, dove egli esercitò le funzioni di senatore fino alla sua scomparsa nel 1901.
Dopo la sua prima opera, Oberto Conte di San Bonifacio, con il Nabucco si affermò definitivamente l’enorme successo di pubblico che segnò tutte le sue opere successive: I Lombardi alla prima Crociata, Ernani, I due Foscari, I masnadieri, Luisa Miller.
In seguito ad un lungo viaggio che lo porta da Londra a Parigi, scrive La battaglia di Legnano, in cui la cacciata di Federico Barbarossa da parte dei Comuni lombardi simboleggia il riscatto e l’orgoglio di una Nazione fiera, ferita e cosciente della sua storia. Nell’immaginario collettivo il nome di Giuseppe Verdi rimane così legato al motto “Viva Verdi, Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia”, scritto sui muri di Roma nel 1859, alla vigilia della rappresentazione di Un ballo in maschera.
Queste opere saldano per sempre la sua figura alle istanze risorgimentali e il suo entusiasmo per il processo unitario divenne l’impegno e il programma della sua stessa vita, al punto da fargli anteporre la causa nazionale anche alla sua stessa produzione artistica. Con parole fermissime, Verdi disse: «Io non scriverei una nota per tutto l’oro del mondo», rispetto all’ideale dell’Unità d’Italia.
Nel 1848, su richiesta di Giuseppe Mazzini, compone la musica di un inno nazionale: Suona la tromba (Inno delle Nazioni). Seguono, scritte a breve distanza l’una dall’altra, le opere che oggi vengono definite “romantiche”: Rigoletto, Il Trovatore e La Traviata.
Gli anni di un rinnovato impegno politico sono quelli che iniziano nel 1861, con l’Unità d’Italia: su impulso di Cavour, che gli scrive personalmente il 10 gennaio, viene eletto deputato del primo Parlamento italiano, ma rifiuta di candidarsi nuovamente al termine della legislatura. Il 15 novembre 1874 viene nominato senatore, per aver illustrato la Patria. In questi anni vengono scritte opere che consegnano la sua figura alla memoria universale: La forza del destino, Don Carlos e Aida. Quest’ultima, in particolare, viene commissionata dal Governo egiziano in occasione dell’apertura del Canale di Suez. Un altro memorabile evento è la rappresentazione del Requiem, scritto per il primo anniversario della morte di Alessandro Manzoni. Altri capolavori, tratti dalle opere di Shakespeare sono Otello e Falstaff , ispirate dall’incontro con il musicista scapigliato Arrigo Boito. Gli ultimi lavori – che contraddistinguono la fase finale della sua vita – sono di ispirazione sacra: il Te Deum, l’Ave Maria, lo Stabat Mater.
La musica verdiana ha quindi una scansione, direi una cadenza esistenziale, composta come una sorta di intreccio indissolubile tra spazio e tempo. E’ proprio Verdi che chiarisce con schiettezza la sua idea di musica. Quando qualcuno si rivolse a lui dicendo: «Siamo venuti a rendere omaggio al più grande musicista […]», egli bruscamente replicò: «No, no, lasci andare il grande musicista. Io sono un uomo di teatro».
Non è quindi una mera coincidenza l’epilogo artistico della sua vita con composizioni di carattere religioso, né la sua ideale conclusione con il Requiem, composto per la morte di Alessandro Manzoni, da lui non solo stimato, ma anche pubblicamente ammirato.
Verdi e Manzoni sembrano quasi in dialogo fra loro nell’alternarsi dei brani della Messa da Requiem. Entrambi immersi nella concretezza del dramma umano, della realtà narrata e cantata, con semplicità e grandezza. Una grandezza che ogni persona, pur di diversa estrazione sociale o differente grado di acculturazione, riusciva a comprendere, apprezzare, interiorizzare.
Giuseppe Verdi, in una famosa lettera all’editore Ricordi, si era definito «un po’ ateo». Eppure non è affatto paradossale che due Papi, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, lo abbiano più volte ricordato. Il primo, ammirando la sua arte che «ha contribuito in modo vibrante ed appassionato ad alimentare negli Italiani l’amore alla patria e all’unità, valori fondamentali per la vita di una Nazione».
Il secondo, in occasione di un concerto di fronte al Presidente della Repubblica, e, significativamente, pochi giorni prima della sua rinuncia al mandato petrino, rese omaggio «al grande musicista italiano nell’anno in cui celebriamo i duecento anni dalla sua nascita. Nelle sue opere colpisce sempre come egli abbia saputo cogliere e tratteggiare musicalmente le situazioni della vita, soprattutto i drammi dell’animo umano, in modo così immediato, incisivo ed essenziale come raramente si trova nel panorama musicale».
Ne La forza del destino si realizza fino alle estreme conseguenze il senso di inquietudine e di ricerca dell’uomo di ogni tempo. Nella versione del 1862, per San Pietroburgo, Don Alvaro termina la vita da suicida, rifiuta l’abito religioso quasi invocando l’inferno. Nella versione del 1869, per “La Scala” di Milano, Don Alvaro accoglie la parola del Frate Guardiano che lo invitava a fidarsi del perdono di Dio e le ultime parole dell’opera sono “Salita a Dio”.
Due diverse versioni della stessa opera, per affermare il valore della dignità umana al di sopra delle vicende terrene, ma anche per rappresentare plasticamente il carattere tragico e combattuto di tutti i protagonisti verdiani. Sono loro gli interpreti della “tragedia umana”, che è immersa nella tensione sempre viva tra ideale e reale. Non c’è quindi in Verdi alcuna tristezza, bensì l’attesa: una sorta di dialettica permanente che oscilla tra la dimensione radicalmente terrena e l’aspirazione metafisica.
La sua arte si fa quindi testimonianza, insegnamento e come affermò in quest’Aula, il 27 gennaio 1901, Antonio Fogazzaro: «Un sovrano Giuseppe Verdi fu veramente; fu sovrano per l’altissimo ingegno; fu sovrano per il magistero dell’arte […]; fu sovrano finalmente per un insigne primato nell’armonia suprema dell’intelletto e dell’animo, nella modesta semplicità della grandezza». Per questo – concludeva Fogazzaro – Giuseppe Verdi «è stato un grande unificatore» e «sospese le distinzioni di fedi e di parti, un palpito solo raccoglie gl’Italiani intorno a lui».
Le celebrazioni promosse in occasione del bicentenario della nascita si pongono pertanto in ideale continuità con le celebrazioni dell’identità culturale italiana nel 150° anniversario dell’Unità. Come venne ricordato in quest’Aula il 26 gennaio 1951, la sua fu «musica unificatrice anche politicamente». Come scrisse D’Annunzio: «diede una voce alle speranze, ai lutti. Pianse ed amò per tutti».
E quello che Verdi seppe interpretare è patrimonio di tutti noi, perché la cultura è la nostra identità che ci sostiene anche nelle prove più dure.
Il popolo italiano ama Verdi, perché lo comprende, lo considera interprete delle sue aspirazioni, dei dolori e delle speranze dell’intera Nazione.
E ancora oggi la sua musica, il suo ricordo, il suo pensiero vola sulle ali dorate di un’Italia che deve riscoprire la forza e la speranza del suo destino.