Cari colleghi,
desidero per prima cosa ringraziare la Presidente dell’Assemblea della Repubblica del Portogallo Maria da Assunção Esteves per la calorosa accoglienza a Lisbona, nella cui bellezza ed atmosfera sono felice di potermi immergere una volta di più. La Presidenza portoghese nella lettera di invito del mese di gennaio di quest’anno, sottolineava la scelta di incentrare questo II Summit dei Presidenti dell’Assemblea parlamentare dell’Unione per il Mediterraneo sul tema delle migrazioni, parlando giustamente di un nostro comune “dovere morale e politico”. La tragedia che lo scorso aprile si è verificata nelle acque del Canale di Sicilia, seguita, a poche ore di distanza e senza interruzione fino ai giorni scorsi, da altri naufragi sulla costa di Rodi e al largo della Libia, hanno rivelato agli occhi del mondo la gravità della catastrofe umanitaria in corso e la nostra collettiva responsabilità. Il dolore, lo sgomento e la vergogna che tutti proviamo ci impone, cari colleghi, di onorare le vite che sono state inghiottite dal nostro Mare facendo seguire al turbamento delle coscienze e ai sentimenti di umana pietà, azioni perché questo non accada mai più. Il che richiede per prima cosa la comprensione delle dinamiche più profonde dei fenomeni in corso e delle loro cause immediate e remote, attraverso diverse chiavi di lettura: storiche, politiche, geopolitiche, economiche, sociali, giuridiche.
Muoviamo dal nostro comune contesto geografico e geopolitico, il Mediterraneo. Storicamente, nonostante non siano mancati conflitti e instabilità, questa regione è stata attraversata da fruttuosi scambi commerciali e culturali, che hanno forgiato tratti di identità comune. Ancora oggi, il Mare nostro è fonte di vitali opportunità: vi transita il 19% dei traffici di merci a livello globale, in aumento rispetto al 15% della fine degli anni 90; e l’interscambio economico fra i Paesi della sponda sud e della sponda nord è in costante crescita, nonostante il (temporaneo) freno delle crisi economico-politiche su entrambe le sponde. Negli ultimi anni però il Grande Mediterraneo è divenuto uno dei punti più dolenti di un sistema globale mai così frammentato e disgregato. Mi riferisco ai vuoti geopolitici dovuti alla dissoluzione di stati ed istituzioni; agli squilibri economici; alle crisi di sicurezza; all’influenza di poteri informali: crimine organizzato transnazionale, terrorismo, economia illegale. Penso ai diversi livelli di conflitto in corso: economici, geopolitici, confessionali, etnici. Penso alle minacce del jihad globale che attua strategie di lotta al “nemico lontano” (la sponda nord) e al “nemico vicino” (la sponda sud) attraverso il terrorismo, l’instabilità, l’offesa alla dignità umana. Penso all’aumento delle diseguaglianze che pregiudica la coesione sociale e genera frustrazione, nei più giovani soprattutto, incoraggiando l’adesione a movimenti ideologici distruttivi. Penso infine agli epocali movimenti di profughi. Per queste complesse ragioni il Mediterraneo, e la gestione del fenomeno migratorio ne è esempio, è attraversato da interessi e atteggiamenti contrapposti, anche a livello politico. Sponda sud e sponda nord sembrano a tratti universi che si guardano e non si comprendono. E spesso non si comprendono anche paesi che si trovano sulla stessa sponda. Ecco perché dobbiamo impegnarci perché i fori di cooperazione parlamentare abbattano le dicotomie “noi-loro” che avvelenano le nostre opinioni pubbliche e la politica più superficiale e ci aiutino a prendere coscienza che nessuno può fare da solo e nessuno può ritenersi al riparo.
I dati del fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo sono eloquenti. Secondo le cifre rese note dall’Agenzia Onu per i rifugiati, nel 2014 210.000 migranti hanno tentato di attraversare il Mediterraneo (80% di tutti gli ingressi irregolari in Unione Europea): un numero triplo rispetto al 2011, quando erano in corso le cosiddette “primavere arabe”. Sempre nel 2014 almeno 3.500 persone hanno perso la vita nel nostro mare e sono già molte centinaia i morti in questi prime mesi dell’anno. La rotta del Mediterraneo centrale è la principale, riguarda il 60% degli ingressi in Europa e interessa soprattutto l’Italia (170.000 persone, fra i quali 13.000 minori non accompagnati), la Grecia (43.000), poi la Spagna, Malta e Cipro.
Le cause profonde di questo esodo sono i conflitti, le persecuzioni, la barbarie dei Paesi di provenienza dei migranti: Siria, Mali, Nigeria, Eritrea, Corno d’Africa. Ed è molto eloquente il principale luogo di transito: la Libia, sconvolta dalla guerra civile e divenuta crocevia ideale per traffici di ogni tipo, droga, armi e persone. I proventi del mercato di uomini sono elevatissimi, nell’ordine di qualche centinaio di milioni di dollari all’anno. I migranti pagano costi altissimi: quelli monetari per il “servizio di trasporto”; prima ancora la soggezione ai soprusi di autisti, miliziani, capi tribù, poliziotti; poi per due, tre settimane la fame, la sete, l’umiliazione, la perdita di ogni dignità umana. Infine, spesso, la vita.
Io credo che sia importante partire dalla consapevolezza che non siamo in grado di stabilizzare rapidamente i focolai di guerra in Siria, in Libia, in Yemen e altrove; e di determinare presto condizioni di vita e governo accettabili in Somalia, in Eritrea e in altri luoghi. Questa marea umana quindi non potrà cessare in tempi brevi. Noi nel frattempo possiamo fare alcune cose importanti: per prima cosa soccorrere chi fugge da violenze, fame e disperazione e garantire accoglienza ai profughi (sono un milione secondo stime delle Nazioni Unite), che in questo momento si trovano sulla sponda sud e attendono di tentare la traversata. Nel frattempo, occorre dare avvio ad una profonda azione di stabilizzazione politica delle crisi, a partire dalla Libia, e di sostegno allo sviluppo. Questa opera avrà necessariamente tempi non brevi e abbisognerà di una complessiva ricomposizione degli equilibri geopolitici fra le grandi potenze regionali in conflitto. La constatazione politica è che l’Unione Europea non è stata in grado di fornire risposte comuni efficaci all’emergenza dei flussi migratori, mentre gli Stati membri più esposti non sono, comprensibilmente, capaci di gestire il problema da soli. E’ mancata una strategia: abbiamo affrontato questo fenomeno con approcci parziali, stagionali, cercando di arginarlo senza mai affrontarne le complesse implicazioni con una visione d’insieme e di medio-lungo termine. Il Consiglio europeo straordinario del 23 aprile scorso si è concluso come sapete con una Dichiarazione finale che presuppone un’importantissima presa di coscienza della situazione, e pone diverse azioni prioritarie lungo diverse direttrici. E’ immediatamente operativo l’aumento dei finanziamenti per la missione Triton, un risultato che considero positivo; mentre sono in corso le attività per preparare i piani di attuazione delle altre misure: misure politiche e diplomatiche, di contrasto ai trafficanti, e finalizzate a garantire accoglienza ai profughi attraverso il rapido espletamento delle procedure. Molti di questi temi sono richiamati nella bozza di conclusioni del Summit che la presidenza portoghese ha preparato (per questo la ringrazio), alla quale stanno contribuendo con diversi emendamenti le delegazioni.
A proposito del problema più urgente, la sorveglianza e il soccorso in mare, credo che sia evidente che il mandato e l’intensità della missione Triton devono essere ampliati, perché le attuali modalità operative non consentono di intervenire dove e quando è necessario e l’onere dei soccorsi continua a gravare sui singoli Paesi e sui mercantili privati che, in virtù delle norme internazionali, spesso si incaricano a proprie spese delle operazioni di salvataggio. In un solo giorno, il 2 maggio scorso, per fare un esempio, i mezzi italiani hanno soccorso 3690 persone nel Canale di Sicilia. La missione italiana Mare Nostrum, che aveva regole di ingaggio molto più ampie di Triton, in un anno ha salvato in mare oltre centomila migranti. Io ritengo infondata l’idea che questa operazione abbia incoraggiato i viaggi verso l’Europa. D’altronde i flussi non sono diminuiti da quando Mare Nostrum è cessata; il tasso di vittime invece quest’anno è aumentato di dieci volte rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, quando l’operazione italiana era in corso.
Per quanto attiene alla prevenzione attraverso il dialogo politico e la cooperazione con i Paesi di origine e transito, questa è una strada necessaria che richiede una strategia di medio e lungo periodo. Sono molto importanti i Partenariati di Mobilità e i meccanismi di dialogo regionale dell’Unione con i Paesi dell’Africa Occidentale e del Corno d’Africa. Queste forme di cooperazione debbono essere approfondite ed estese e l’Unione deve prendere coscienza che è necessaria una nuova politica per il Mediterraneo. Una delle priorità assolute è la questione libica, che deve essere affrontata dalle Nazioni Unite, dall’Unione e dai paesi della regione con un impegno unitario. L’obiettivo ineludibile è promuovere una soluzione politica: precondizione per la cooperazione con le parti in causa è la costituzione di un governo di unità nazionale che ponga fine alle ostilità militari. Inutile nascondersi che questo non spegnerebbe automaticamente i micro-conflitti fra le tante milizie informali; ma un governo unitario consentirebbe all’Europa di avere un interlocutore credibile e alle istituzioni libiche di riacquistare progressivamente il controllo del territorio, cosa che è indispensabile per colpire le organizzazioni criminali con strategie condivise ed operazioni congiunte, particolarmente quelle che presuppongono interventi nel territorio sovrano libico (blocco navale e altre operazioni preventive). L’Italia sta già facendo la sua parte: le forze di polizia e la magistratura stanno perseguendo energicamente scafisti e trafficanti. Ma serve un forte impegno comune per risalire ai vertici delle organizzazioni, che agiscono da associazioni transnazionali gestendo ogni fase del traffico. Una strategia difficile perché il commercio è estremamente lucrativo, il numero dei potenziali scafisti inestinguibile, e le indagini impossibili per l’attuale assenza di cooperazione.
Vi è poi una quarta dimensione della strategia europea che ha ancora bisogno di progressi concreti. Mi riferisco alla solidarietà e responsabilità dei diversi Paesi, al potenziamento degli aiuti d’urgenza agli Stati “in prima linea”, e all’organizzazione di un sistema di accoglienza ripartito. Spetterà alla Commissione definire i contorni di un progetto pilota volontario in materia di reinsediamento. A me sembra che sia questo il terreno su cui si misurerà davvero il senso di responsabilità di ciascun Paese, data la natura volontaria del meccanismo di burden-sharing. E’ necessario, io sono convinto, rivedere le regole per garantire asilo ai profughi, distribuendo il peso fra i diversi paesi secondo criteri obiettivi, equi e solidali. E si richiede agli Stati membri uno sforzo concreto per dare effettiva attuazione al sistema europeo comune di asilo, che finora stenta a consolidarsi.
Sono giorni molto intensi di lavoro. Oggi l’Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza, Federica Mogherini, riferira’ al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite lo stato delle cose. Mercoledi’ e’ atteso dalla Commissione europea il programma annunciato dal Presidente Juncker per stabilire un “meccanismo doppio di quote” per la ricollocazione dei migranti in tutta l’Unione.
Concludo. Cari colleghi, la questione migratoria è la nostra priorità. Su di essa si misura la sincerità della nostra dedizione ai valori di umanità che abbiamo posto a nostro fondamento. Viene chiamata in causa la nostra capacità di programmare il futuro delle nostre società, di comprendere e governare trasformazioni cui tutti noi siamo comunque inevitabilmente soggetti. I paesi più fortunati devono considerare l’immigrazione come una grande risorsa ideale prima ancora che economica e demografica: un’occasione preziosa per edificare comunità più coese, più plurali e inclusive. In questo lungo percorso non dobbiamo temere le contaminazioni, la diversità. La nostra identità, ciò in cui ci riconosciamo e che amiamo e difendiamo, non è solida e immutabile, ma è il risultato di un confronto continuo fra noi stessi, il tempo e gli altri. Il Mediterraneo ha unito le due sponde molto più di quanto non dica la vuota retorica dello scontro di civiltà. Credo, cari colleghi, che il nostro comune dovere sia quello di credere in un’utopia possibile: un Mare nel quale le civiltà non si scontrano, ma si riconoscono e si rispettano; un Mare che non uccide ma unisce e abbraccia. Penso che questo sia un terreno naturale per la diplomazia parlamentare, che è sottratta alle rigidità e alla visione di breve periodo cui spesso è costretta la diplomazia governativa e può dedicarsi a guardare insieme al medio e al lungo periodo, dialogando e confrontandosi sui grandi temi, per programmare il nostro futuro ed indirizzare i governi in direzione di quei valori che abbiamo l’alto compito di rappresentare e proteggere.
Grazie.