Autorità, cari colleghi, gentili ospiti,
è per me un grande piacere ospitare, nella splendida cornice della Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani, il convegno dal titolo “A vent’anni da Pechino: a che punto siamo con la parità di genere?”. L’incontro di oggi è un prezioso momento di riflessione sui progressi finora raggiunti e sugli elementi di criticità che ancora oggi ostacolano la piena realizzazione della parità di genere in Italia, in Europa e nel mondo.
Ringrazio, dunque, la Vice Presidente del Senato Valeria Fedeli per aver promosso questa iniziativa e per avermi invitato: ho accettato con grande piacere perché sono convinto che il confronto sul tema della parità di genere non possa prescindere da una partecipazione attiva anche degli uomini.
Sapendo che le relatrici che seguiranno sapranno fornire dati, esempi e riflessioni di grande interesse, preferisco fornire solo alcune “spigolature” utili a capire quanto sforzo sia occorso al raggiungimento di questi obiettivi: quando il Ministro dell’interno Ubaldino Peruzzi propose, nel 1863, di estendere il diritto di voto amministrativo alle donne, la risposta del relatore alla Camera del disegno di legge chiuse la questione affermando: “I nostri costumi non consentirebbero alla donna di frammettersi nel comizio degli elettori, per recare il suo voto”.
Una infaticabile sostenitrice del diritto di voto alle donne nell’ottocento fu la giornalista Anna Maria Mozzoni, che nel 1881, durante un Comizio per la riforma della legge elettorale, pronunciò queste parole:
“Proclamando il suffragio universale per voi soli, allargate il privilegio, proclamandolo con noi, lo abolite […] Rivendicando il voto per tutti voi fate un emendamento al presente, rivendicandolo per noi chiedete l’avvenire”.
Questa richiesta di futuro ebbe risposta solo molti anni più tardi, nel 1946. Con qualche perplessità però, in occasione del referendum del 2 giugno, il Corriere della Sera dava alcuni consigli alle donne in vista del loro primo voto con un articolo intitolato “Senza rossetto nella cabina elettorale”, dove si poteva leggere: “Siccome la scheda deve essere incollata e non deve avere alcun segno di riconoscimento, le donne nell’umettare con le labbra il lembo da incollare potrebbero, senza volerlo, lasciarvi un po’ di rossetto e in questo caso rendere nullo il loro voto. Dunque, il rossetto lo si porti con sé, per ravvivare le labbra fuori dal seggio.”
Ma la strada per l’uguaglianza era ancora lunga. Voglio farvi un esempio che riguarda la mia vita precedente di magistrato. L’art. 7 della legge n. 1176 del 1919 ammetteva le donne all’ esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall’ esercizio della giurisdizione. Nell’ordinamento giudiziario del 1941 venne confermata questa esclusione. Durante il dibattito in seno all’Assemblea Costituente ci si interrogò in merito all’accesso delle donne in magistratura, ma la paura prevalse con queste motivazioni: l’on. Cappi sostenne che, cito, “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento”; l’on. Molè invece volle precisare che, testuale, “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’ uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile”. Ci volle una sentenza della Corte Costituzionale del 1960 affinché, finalmente, nel 1963 il Parlamento approvò una norma (L. 66/1963) che consentì l’ accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura. Quindi solo nel 1963 venne bandito il primo concorso aperto alle donne, e due anni dopo otto di loro risultarono vincitrici. Nel concorso del 2009 le donne vincitrici sono state il 58%, e ora sono circa il 50% del totale.
Queste digressioni servono a renderci chiaro quanto la battaglia per il riconoscimento della parità di genere sia stata lunga, difficile, e ancora in corso.
Il riconoscimento del principio della parità tra i sessi è un tema in cui credo molto e che ho spesso sottolineato anche in occasione di incontri con rappresentanti istituzionali esteri. Ricordo con commozione due incontri che ho avuto nella mia veste di presidente del Senato. A giugno in Palestina, nel Governatorato di Betlemme, al Centro Mehwar per la famiglia e l’empowerment delle donne e dei bambini, dove la cooperazione italiana ha istituito il più grande centro nazionale antiviolenza per la tutela delle donne palestinesi, dove vengono offerti da operatori italiani e locali servizi di assistenza psicologica e legale, iniziative di formazione per la ricerca e la creazione di posti di lavoro, e fondamentali attività di sensibilizzazione rivolte non solo alle vittime ma soprattutto alla comunità, con l’obiettivo di diminuire il verificarsi di violenze domestiche. Un compito difficile, in un luogo dove ancora le donne sono vittime due volte: delle violenze e della riprovazione sociale, e dove per prima cosa vengono sottratti loro i figli.
L’altro incontro, a Natale dell’anno scorso, ancora più duro, in Afghanistan: la visita presso l’Ospedale Esteqlal di Kabul, in parte ricostruito dalla Cooperazione Italiana. Questo ospedale, con i suoi 400 posti letto, è oggi diventato un punto di riferimento per il Paese, per la popolazione di Kabul e per le altre province dell’Afghanistan e vede, come elemento di speranza, circa 1000 parti al mese. Ma quello per cui è famoso è soprattutto la cura delle ustioni per gli incidenti domestici, che hanno come vittime soprattutto i bambini, e il fenomeno dell’auto immolazione di giovani donne, anzi di bambine, che per non andare in spose a vecchi signori preferiscono darsi fuoco o sfigurare per sempre il loro volto e il loro corpo con l’acido. Sono immagini che non posso dimenticare, che hanno lasciato una traccia indelebile nella mia memoria e nella mia coscienza e che oggi mi portano ad appoggiare con convinzione questa battaglia di civiltà.
Tornando al tema: la Dichiarazione e il Programma d’Azione, adottati al termine della Quarta Conferenza Mondiale sulle Donne, che si svolse nel 1995 a Pechino, hanno segnato un passo in avanti senza precedenti. I lavori si conclusero con il riconoscimento dei diritti delle donne come diritti umani nel significato più ampio del termine e del principio della non discriminazione in ogni settore della vita, pubblica e privata, come valore universale. I rappresentanti di 189 Paesi hanno così riconosciuto che donne e uomini devono avere eguale partecipazione alla vita politica, sociale, economica, culturale e civile. Sicuramente, da allora, i governi, la società civile e l’opinione pubblica hanno messo in atto molte delle promesse del programma d’azione.
Oggi sono sempre più numerose, nel mondo e in Italia, le donne che occupano posizioni di grande rilievo. Anche in politica la presenza delle donne si sta radicando sempre di più. Io sono convinto però che la parità deve essere conseguita andando “oltre le regole”, oltre il concetto di quote, anche perché sappiamo che dove si viene nominati le percentuali premiano gli uomini, mentre dove si accede per regolare concorso sono le donne a prevalere.
Al riconoscimento delle doti e delle qualità del mondo femminile, non è ancora seguito in modo completo quel salto di qualità ulteriore che è costituito dal raggiungimento di posizioni di vertice, in completa parità con l’universo maschile, anche perché permane un divario retributivo inaccettabile per lo stesso lavoro o per un lavoro di pari valore. Nell’attuale momento di crisi che investe mercati, Stati, società civile, non è un caso che i Paesi a più alta occupazione siano quelli dove la partecipazione femminile al mondo del lavoro è stata garantita in modo efficace.
Sono certo che il ventesimo anniversario della Conferenza di Pechino offrirà nuove opportunità di incontrarsi, di rinnovare l’impegno per rilanciare la volontà politica e di mobilitare l’opinione pubblica. Le premesse ci sono, ma dipenderà anche dalla nostra capacità di trasmetterle alle nuove generazioni. Molto è stato fatto, penso anche alla ratifica della Convenzione di Istanbul, molto resta ancora da fare.
Ogni donna di qualunque età deve vedere riconosciuti e tutelati i propri diritti: il diritto di vivere libere dalla violenza, il diritto all’istruzione, il diritto di partecipare al processo decisionale e il diritto di ricevere parità di retribuzione per lo stesso lavoro. La parità di genere è una meta di civiltà che tutti dobbiamo perseguire con determinazione e convinzione. Buon lavoro.