Eminenza Reverendissima, Autorità, Gentili ospiti,
Questo convegno che ospitiamo in Senato in occasione del trentesimo anniversario dell’accordo di modifica del Concordato è un’occasione preziosa per rileggere il passato con gli occhi del presente e aprire prospettive sul futuro dei rapporti tra Stato e Chiesa in Italia.
Nella sua prima visita al Quirinale, il Santo Padre Francesco ha ricordato con un richiamo particolare il trentesimo anniversario dell’Accordo di Revisione del Concordato, il cosiddetto “Nuovo Concordato”. L’idea di “novità” coglie un aspetto rilevantissimo: l’intervento della Costituzione repubblicana, che all’art. 7 fa specifico riferimento ai Patti lateranensi e al tempo stesso contiene fra i valori fondamentali dell’ordinamento il principio di eguaglianza, all’art. 3 e la libertà religiosa all’art. 8.
L’innovazione risiede quindi non solo nei successivi aggiornamenti, resi necessari dall’evoluzione del contesto socio-politico, ma soprattutto nella piena consapevolezza che rispetto al testo originario si erano innovati gli stessi presupposti dell’Accordo, alla luce dei quali il testo veniva arricchito e integrato da un nuovo significato storico ed ideale.
Da un lato, l’intervento del dettato costituzionale; dall’altro, il Concilio Ecumenico Vaticano II. Eventi che hanno posto nella coscienza collettiva i fondamenti irrinunciabili della ritrovata comunità civile. L’Accordo di revisione indicava così una rinnovata strada comune, lungo la quale “il riconoscimento della dimensione sociale e pubblica del fatto religioso” – sono parole del Presidente della Repubblica Napolitano – si accompagnava alla maturazione della piena consapevolezza che dopo il “prologo risorgimentale”, era seguita la stagione del “patriottismo costituzionale”, ossia della saldatura della “ragione pubblica”, della “base pubblica di giustificazione, universalmente accettabile dai cittadini”, con le istanze più profonde e i legami più stretti tra pensieri, ispirazioni, progetti per la stessa convivenza e cittadinanza democratica.
L’Accordo di revisione ha rappresentato pertanto il tentativo sapiente di volgersi al passato rendendolo “storia” per il presente, per segnare un percorso aperto alle generazioni future. Esponenti politici provenienti da culture ed esperienze profondamente diverse compresero l’urgenza di affrontare temi così delicati e concorsero ad individuare un punto di sintesi superando anche le pregiudiziali ideologiche. Si poterono attuare principi costituzionali che secondo la Corte Costituzionale non potevano essere compressi da norme pattizie. E si rimossero gli ostacoli alla necessaria collaborazione fra forze laiche e cattoliche del Paese. In questo dibattito giocò un ruolo fondamentale il coinvolgimento del Parlamento, che non solo si occupò della legge di ratifica dell’Accordo ma preventivamente incise, e in misura molto rilevante, sulla formazione della volontà politica in vista delle modifiche. Lo dico anche per ricordare, in un momento in cui si discute della veste da dare alla nostra democrazia parlamentare, di quanto le Camere, entrambe le Camere, possano contribuire alla ponderazione delle grandi scelte del Paese.
Non è la prima volta che nella storia dei rapporti tra Chiesa e Stato in Italia si avverte la necessità di riconoscere un antecedente in grado di potere generare processi virtuosi di superamento dei conflitti. L’Accordo del 1984 si ancorava al dibattito costituente sull’inserimento dei Patti del 1929 nella trama costituzionale e all’insegnamento del Concilio Vaticano II sui rapporti tra la Chiesa e la comunità civile.
Per il primo aspetto, Giorgio La Pira svelò che la disposizione dell’art. 7 della Costituzione – “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani” – venne da lui stesso e da monsignor Giovanni Battista Montini individuato in un passaggio dell’enciclica di Leone XIII Immortale Dei del 1885. Significative furono poi le posizioni convergenti di Palmiro Togliatti e di Alcide De Gasperi, che pur così diversi erano consapevoli allo stesso modo che quel dibattito avrebbe segnato le sembianze dell’identità nazionale.
La costituzione conciliare Gaudium et Spes riprende poi l’allocuzione di Benedetto XV del 21 novembre 1921, nel passaggio in cui il Sommo Pontefice indicava “l’armonia tra la società civile e quella religiosa” come “il fondamento di tutti gli altri beni”; ed ancor di più la dichiarazione Dignitatis Humanae sulla libertà religiosa trovava linfa nelle parole pronunciate prima dell’apertura del Concilio da Giovanni XXIII, che in occasione del centenario dell’Unità d’Italia parlò di un “motivo di esultanza”. Appena qualche giorno prima dell’inizio dell’Assise Conciliare Giovanni Battista Montini disse, a proposito della svolta impressa dai fatti del 1870 allo Stato Pontificio e alla Chiesa: “La Provvidenza, quasi giocando drammaticamente negli avvenimenti, tolse al Papato le cure del potere temporale perché meglio potesse adempiere la sua missione spirituale nel mondo”.
Messaggi, echi, parole che abbiamo ritrovato nel magistero di Benedetto XVI, per il quale “è fondamentale insistere sulla distinzione tra l’ambito politico e quello religioso al fine di tutelare sia la libertà dei cittadini che la responsabilità dello Stato verso di essi”.
L’intreccio di storia, cultura, dibattiti parlamentari, decisioni politiche, segna quello che Papa Francesco ha definito “il solido quadro di riferimento normativo per uno sviluppo sereno dei rapporti tra Stato e Chiesa in Italia“, quel doppio binario fondato sulla “distinzione” e sulla “collaborazione” sul quale poggia l’impegno quotidiano, fermi i ” rispettivi ruoli e ambiti d’azione”, per il “servizio della persona umana in vista del bene comune” – sono sempre parole di Papa Francesco.
Il superamento delle divisioni e dei rapporti conflittuali si è tradotto in un livello più elevato di equilibrio, dove il ridimensionamento dello Stato Pontificio a “quel tanto di corpo che bastava per tenersi unita l’anima” – così Pio XI mutuando un’immagine di San Francesco d’Assisi – da elemento di frattura è diventato punto di sintesi e di maturazione per un rinnovato senso di appartenenza comune ai destini della Nazione.
Il dipanarsi delle vicende storiche non è frutto quindi di improvvisazione, ma della gradualità di pensieri e azioni che rendono attuale e fruttuoso l’impegno di quanti operano lontani dalla ribalta pubblica. La storia ci insegna a guardare oltre gli ostacoli, a superare le difficoltà secondo una logica comunitaria, di appartenenza comune e di riconoscimento reciproco.
Il tempo presente è saldamente ancorato ad entrambi i presupposti: Stato e Costituzione. Per non disperdersi è allora necessario fare tesoro dell’esperienza dell’incontro che ha segnato la storia dei rapporti tra Stato e Chiesa. Un’esperienza preziosa perché dimostra come non vi siano identità autoreferenziali, ma identità autonome che possono maturare e svilupparsi solo se ci si riconosce nella comune “identità arricchita” della Nazione.
Il Nuovo Concordato aprì anche la stagione delle intese con le altre confessioni, in base al terzo comma dell’art. 8 della Costituzione e pose le basi per una complessiva politica religiosa del Paese che oggi deve tenere conto di cambiamenti epocali che pongono sfide che attengono alle scelte religiose e chiamano in causa il diritto di famiglia, le modalità del lavoro, e altro.
A trent’anni di distanza il sistema dei rapporti tra Stato e Chiesa cui ha dato inizio l’accordo di Villa Madama ha dimostrato una notevole capacità di adattarsi alle sollecitazioni della modernità. Il dialogo con la Chiesa è stato in questi anni una fonte preziosa di crescita, di rafforzamento e di sprone per il Paese, per le Istituzioni, per la politica e per i cittadini. Io sono fermamente convinto che il futuro del Paese dipenderà dalla capacità che la politica avrà di colmare un vuoto profondo che la separa dai cittadini, di rappresentatività, di legittimità etica e di comprensione. E credo che questa necessaria “riscossa dei valori” beneficerà ancora del fecondo rapporto con la religione e con la Chiesa.