Festival della Comunicazione “Le connessioni della politica”

Discorso del Presidente Grasso all’inagurazione del Festival della comunicazione 2017

Finalmente, la settimana scorsa, ha piovuto.

Gli esperti dicono che l’estate 2017 sia stata una delle più calde e con meno precipitazioni di sempre. Ne hanno sofferto i campi, le coltivazioni, gli animali, i boschi, i laghi, i fiumi e tutti noi, che abbiamo vissuto giorni di caldo torrido. Ne hanno sofferto soprattutto i cittadini di molte città che hanno avuto problemi con la distribuzione di acqua in casa: giorni e giorni con i rubinetti a secco.

(Voglio rassicurare voi e gli organizzatori: non sono venuto a Camogli per parlare “del tempo”, se avrete la pazienza di seguirmi cercherò di spiegare perché la politica ha connessioni anche con il meteo.)

Anche nella Capitale si è molto discusso sull’interruzione del servizio idrico per alcune ore al giorno, è stato giustamente chiesto ai cittadini di evitare sprechi inutili e si è stabilita la chiusura programmata delle tipiche fontanelle (i famosi “nasoni”). Sono più di 2000, risalgono agli ultimi decenni dell’800, hanno una duplice funzione (evitare una eccessiva pressione nelle tubature e consentire all’acqua di non ristagnare, scongiurando la proliferazione dei batteri) e rappresentano poco più dell1% dello spreco di acqua. Il BlueBook 2017, presentato lo scorso gennaio, rileva che, in media, al Nord c’è una dispersione idrica di circa il 26% (con punte del 46%), al centro del 46% e al Sud del 45% (con punte del 67%). L’età degli acquedotti è indicativa: il 60% è stato messo in posa oltre 30 anni fa, il 25% supera i 50 anni.

Sono dati che descrivono esattamente la dimensione e la natura del problema: con investimenti strategici e una attenta manutenzione, effettuata per tempo, la siccità di queste settimane non avrebbe causato ingenti danni, né costretto al razionamento idrico. L’acqua è un bene vitale e una risorsa scarsa ma lasciamo che le infrastrutture siano vecchie di decenni e che se ne disperda circa la metà. Sono voluto partire da questo esempio attuale e legato alla vita quotidiana perché lo trovo profondamente paradigmatico. La politica, come l’acqua, è un bene comune, riguarda tutti, innerva ogni momento della nostra vita, incide sull’ambiente e sullo sviluppo, ha bisogno di manutenzione, di rinnovare le sue infrastrutture, di essere difesa, pulita, potabile.

Una prima analogia riguarda la dispersione. Purtroppo nelle ultime tornate elettorali (europee, regionali, amministrative) si è registrato un astensionismo paragonabile alla quota di acqua sprecata: tra il 40 e il 50% degli aventi diritto al voto ha scelto di non esprimersi. La connessione che va ristabilita prioritariamente è quindi quella tra i cittadini, le istituzioni, la politica. Nel suo ultimo libro, “Democrazie senza memoria”, Luciano Violante scrive: “La crisi [della democrazia] non riguarda solo le istituzioni, le loro procedure, i loro equilibri: può riguardare anche i cittadini, che si allontanano dal sistema politico, riducono la loro fiducia nei confronti dei pubblici poteri, dimenticano le loro responsabilità civili e diventano portatori passivi di emozioni, disponibili a dare il proprio consenso solo a chi quelle emozioni sa eccitare e cavalcare”. (fine della citazione)

Una seconda riflessione può scaturire infatti dal modo in cui la politica e i media hanno affrontato l’emergenza siccità. Un diluvio – stavolta si – di commenti, interviste, comunicati, post su Facebook che però non ha quasi mai centrato l’obiettivo. Per settimane “i nasoni” sono diventati protagonisti assoluti del dibattito, sembrava che la sopravvivenza e il destino della Capitale dipendessero interamente dalla sorte di queste pittoresche fontanelle, con accuse reciproche che riguardavano le decisioni prese negli ultimi 15 giorni e non le scelte dei 30 anni precedenti. Poco, troppo poco, si è detto invece di come, quando e in che modalità si sarebbe dovuto intervenire sulle infrastrutture; ancor meno si è parlato di quali iniziative si dovranno assumere in futuro. Il risultato è noto: dopo la pioggia dei giorni scorsi dai nasoni ha ripreso serenamente a sgorgare acqua corrente; l’emergenza, ormai alle spalle, ha portato via con sé un serio e utile confronto pubblico sugli investimenti necessari ad ammodernare l’intera infrastruttura idrica italiana, tornato tema solo per gli specialisti. L’ “emergenza” siccità si trasformerà ben presto, come ogni anno, nell’ “emergenza” pioggia: le nuove polemiche si registreranno sulla pulizia dei tombini e trascureranno la messa in sicurezza idro-geologica del Paese. Ad ogni stagione la sua emergenza e le sue polemiche, sempre le stesse, che finiscono per estenuare i cittadini e far perdere loro ogni speranza di risoluzione dei problemi. Se le classi dirigenti si chiudono in una lotta continua e costante per contendersi piccole percentuali di consenso – concentrandoci sui “nasoni”, appunto, e trascurando gli acquedotti – corriamo il rischio fatale di perdere la dimensione della lungimiranza, del disegno strategico e a lungo termine, che è la prima responsabilità della politica.

Occorre quindi ristabilire la connessione della politica con il futuro. Il suo più alto compito, infatti, è quello di disegnare il domani della collettività e definire l’orizzonte dello stare insieme, non tentare di guadagnare a tutti i costi la prima pagina dei quotidiani o la classifica dei trending topic su Twitter.

Per farlo è necessario riannodare i fili che connettono la politica alla società civile: è un lavoro che necessita di pazienza, di passione, di attenzione e che – lo sappiamo – non garantisce risultati immediati; del resto nessuno di noi avrebbe notato una riduzione della dispersione di acqua lungo le tubature, forse ci saremmo anche lamentati dei disagi causati dai lavori, eppure è proprio quello che avrebbe fatto tutta la differenza nel momento di maggior crisi. Guardare ai problemi con la sola ottica dell’immediatezza, rincorrendo un effimero quanto aleatorio consenso, significa ipotecare il futuro delle prossime generazioni, consegnando loro una nazione più debole e fragile nei diritti, nelle responsabilità, nelle opportunità di crescita.

Quanto ho appena detto è tanto più vero, e drammatico, se allarghiamo il campo ad altri temi. L’estate appena finita è stata dominata dalla cronaca: migranti, sgomberi, proteste dei sindaci e dei cittadini all’idea di accogliere anche solo minori non accompagnati. Anche su questi temi, purtroppo, la contesa politica e la rappresentazione mediatica è spesso fatta di allarmismi, generalizzazioni, provocazioni, e raramente guarda al fenomeno nel suo insieme, alimentando una paura sproporzionata rispetto ai dati: durante la conferenza stampa di Ferragosto il ministro dell’Interno ha confermato che durante i primi mesi del 2017 i reati sono calati (meno 12%), e tra questi gli omicidi (meno 15%), i furti e le rapine. Siamo più sicuri di un anno fa, molto più di dieci anni fa, ma la paura aumenta. Un ultimo dato che mi ha molto impressionato: da una ricerca del 2015 risulta che gli italiani hanno la percezione che la percentuale di stranieri presenti nel nostro paese sia il 26% della popolazione, mentre è circa l’8% tra stranieri comunitari ed extracomunitari.

Riconnettere la politica, e la sua rappresentazione mediatica, alla realtà è fondamentale, soprattutto in un’epoca segnata da quella che viene definita “post-verità”, ovvero l’arretramento dei fatti e dei dati reali a favore di sensazionalismo e falsi slogan. Soffiare sull’insicurezza e la paura, diffondere odio e cavalcare il disagio espone la nostra comunità a un progressivo indebolimento. La paura è un sentimento legittimo, cui la politica deve prestare ascolto e attenzione: i partiti, i movimenti e i loro leader devono riappropriarsi del compito di accompagnare i cittadini, ascoltandone gli umori senza subirli, e di mostrare loro una visione complessiva dei problemi. Non è accettabile scardinare il sentimento di condivisione che ci rende una comunità, plurale nelle sue diversità ma unita, e disperderla in una lotta di rivalità tra categorie di cittadini sempre più in difficoltà, mettendo gli uni contro gli altri nella speranza di lucrare voti. La tentazione dell’uomo solo al comando, del super-eroe che nel breve spazio di un tweet ha pronta la soluzione a problemi difficili e stratificati, è destinata a scontrarsi con la realtà: non esistono soluzioni semplici a problemi complessi, e il prometterle senza poterle mantenere non farà che aumentare la frustrazione dell’elettorato.

Dobbiamo quindi riconnettere la politica con la complessità, avere il coraggio di affrontarla, passare dalla sua negazione al cercare di comprenderla, definirla e governarla, procedendo per tentativi, errori, e nuove soluzioni. Nel mondo globalizzato e interconnesso è uno sforzo enorme, anche perché minori sono le leve che i singoli Stati possono utilizzare, ma è l’unico che possa farci sollevare lo sguardo dalle beghe di corrente o dalle liti sulle leadership e rivolgerlo al futuro del nostro Paese. Affrontare il tema delle migrazioni è complesso. Lo è ancora di più affrontare contemporaneamente quello della riforma della legge sulla cittadinanza, impropriamente chiamata “Ius soli”, scatenando così eccessi retorici che ben conoscete e che arrivano a strumentalizzare atroci crimini – di cui per rispetto alle vittime ci saremmo risparmiati le descrizioni particolareggiate – la cui responsabilità va punita severamente ma che non può essere estesa alle persone per bene che qui vivono e sono integrate. Il provvedimento, ora in seconda lettura in Senato, intende modificare il meccanismo che già conferisce, su richiesta, la cittadinanza ai figli di stranieri nati e vissuti sul nostro territorio solo al compimento del diciottesimo anno di età. Nello specifico verrebbero introdotte altre due modalità – il cosiddetto “Ius soli temperato” e lo “Ius culturae” – modificando una legge che, al momento, è tra le più restrittive in Europa. Occorre fare chiarezza. Quando si parla di “Ius culturae” si intende che potranno richiedere e ottenere la cittadinanza le ragazze e i ragazzi che abbiano frequentato, con successo, un ciclo scolastico di almeno cinque anni o un percorso di formazione in Italia. Si fa ancora più confusione sulla differenza tra “Ius soli” – mai ipotizzato per il nostro Paese – e “Ius soli temperato”, che prevede che possa diventare italiano chi è nato nel nostro Paese da genitori stranieri dei quali almeno uno sia in possesso del diritto di soggiorno permanente, se cittadino comunitario, o del permesso di soggiorno di lungo periodo se extracomunitario. Per avere questo titolo, è bene specificare, occorre che si abbia un lavoro, una casa, un permesso di soggiorno da almeno 5 anni e superare un test di lingua italiana, inoltre sono esclusi gli stranieri pericolosi per l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato, coloro che soggiornino a titolo di protezione temporanea, per motivi umanitari o coloro che sono in attesa di vedere riconosciuto il loro status di rifugiato. Chi parla di regalare la cittadinanza è evidente che o non conosce o strumentalizza il tema.

Questa legge ci riconnette, semplicemente, col presente, con quanto viviamo ogni giorno nelle nostre città e nelle nostre scuole, limitandosi a fotografare l’esistente: nelle classi dei nostri figli e nipoti, in ogni città, siedono negli stessi banchi bambini italiani con la cittadinanza e bambini che possiamo definire “italiani senza cittadinanza”, che condividono il tempo, gli studi, il tifo per le squadre di calcio, i percorsi di legalità, le passioni, i desideri e i sogni, ma che sono costretti ad affrontare ostacoli, limiti e divieti che ne condizionano le possibilità, le aspirazioni, il contributo che possono dare al nostro Paese.

Ho detto molte volte che offrire a chi nasce, studia e cresce in Italia la possibilità di sentirsi pienamente parte della nostra comunità nazionale serve anche a rendere il nostro Paese più forte e sicuro: chi è escluso dalla vita comune, chi non esercita i diritti e i doveri di cittadinanza, chi è rinchiuso nelle periferie esistenziali delle nostre città è più debole, e quindi più vulnerabile al radicalismo ideologico e all’illegalità. Vale per tutti, italiani e stranieri. Integrare, riconoscere diritti, doveri e opportunità significa fare sicurezza. Nelle ultime settimane lo stesso concetto è stato ribadito, oltre che da Papa Francesco, dal Ministro dell’Interno, che ha la competenza sull’ordine pubblico e la sicurezza, dal Ministro della Giustizia, dal Capo della Polizia, ovvero da chi ha responsabilità dirette – tecniche, giuridiche e politiche – sulle conseguenze di tale scelta. Anche per questo spero che questo provvedimento possa essere approvato.  La scelta, politicamente, è drammatica: fare una cosa utile o fare una cosa popolare, soprattutto in vista delle prossime elezioni. Il dubbio è legittimo, ma è il coraggio di fare la cosa giusta a fare la differenza tra un politico che guarda al futuro e uno che guarda solo ai sondaggi.

Allargando lo sguardo ci accorgiamo che il tema della complessità riguarda orizzonti ben più vasti delle scelte di politica interna: ci misuriamo in questi anni con sfide epocali, dal cambiamento climatico a quello tecnologico agli sconvolgimenti geopolitici. Nell’affrontare queste sfide dobbiamo tenere in considerazione i nuovi significati dello spazio e del tempo. Nessuno può illudersi di governare da solo questioni che interessano milioni di persone o, ancor peggio, analizzarle solo ed esclusivamente guardandole con la prospettiva della propria convenienza.  Non si può dunque non rafforzare la connessione del nostro Paese con l’Unione Europea: seppur con i suoi limiti e difetti, rappresenta il più grande progetto di convivenza pacifica e di stabile e duratura cooperazione tra i popoli del dopoguerra. È sulla base dei valori che hanno fatto prosperare il nostro continente, e nella consapevolezza di un destino comune, che cammina la speranza di essere all’altezza delle sfide globali. Bisogna poi considerare che l’intervallo di tempo tra le innovazioni scientifiche, culturali e sociali si va via via riducendo: ciò che qualche anno fa non saremmo stati in grado neanche di immaginare oggi è già superato, con una velocità che ci costringe a spostare i nostri ragionamenti verso la formulazione per tempo di nuove domande cui dare risposte che siano insieme efficaci e tempestive.

Non è possibile approfondire, nello spazio di questo intervento, un tema così affascinante e articolato: mi limiterò allora a tratteggiarne alcuni aspetti, quelli che a mio parere avranno peso maggiore nella società di domani, cercando di evidenziare la loro intima e profonda connessione con la forma della nostra società, la sua organizzazione e le scelte politiche.

La rivoluzione tecnologica, in particolare quella digitale, sta imponendo un nuovo paradigma alla nostra società con un ritmo sempre più incalzante. È evidente – e lo sarà maggiormente nei prossimi anni – che il mercato del lavoro subirà enormi cambiamenti: per effetto della più stringente interdipendenza delle economie del mondo, della robotizzazione e di nuovi modelli di business – penso ad esempio alla sharing economy – spariranno centinaia di professioni che a lungo hanno assicurato benessere e prosperità a molte famiglie.  Lo sappiamo: dalla qualità e dall’ampiezza del diritto al lavoro che si assicura ai cittadini discende un equivalente e sostanziale livello di democrazia, di integrazione sociale, di libertà, di dignità. Dove questo non avviene si fa largo l’esclusione, la tentazione di percorrere le strade dell’illegalità e l’impoverimento economico e sociale. Dobbiamo dunque chiederci quali equilibri inaugureremo tra vecchi e nuovi mercati; se saremo in grado di generare una ricchezza diffusa e non appannaggio di pochi; se sapremo difendere il diritto al lavoro – a un lavoro stabile e retribuito – e tutelare gli altri diritti ad esso connessi; se saremo in grado di creare prospettive per i più giovani e garantire loro un sistema pensionistico che tenga conto degli anni di crisi, di impieghi saltuari e mal pagati, di collaborazioni occasionali, tirocini, stage e così via. Non è solo una questione di ordine economico ma di dignità della persona e della società che lasceremo in eredità ai nostri nipoti.

A proposito di economia consentitemi di esprimere soddisfazione per gli incoraggianti dati che vedono il consolidarsi di una ripresa che fa ben sperare. Bisogna però sostenerla – alimentando il meccanismo della fiducia che sta lentamente “sbloccando” il Paese dopo i durissimi tempi della crisi – con investimenti pubblici di ampio respiro che guardino, ancora una volta, ai prossimi decenni più che alla prossima campagna elettorale. La legge di bilancio rappresenta una prima occasione che, sono certo, non verrà sprecata: è già evidente come la prima preoccupazione di tutti sia prestare particolare attenzione all’occupazione giovanile, i cui dati restano terribilmente preoccupanti, in special modo nel meridione.

Un’altra determinante sfida è costituita dal cambiamento climatico. Siamo sull’orlo di una crisi che potrebbe, nel breve volgere di qualche decennio, decretare la fine dell’umanità. Abbiamo gli strumenti e le conoscenze per invertire la rotta, sappiamo che dalla qualità dell’ambiente dipende la salute delle persone e che nel medio periodo politiche ambientali di buon senso hanno un impatto positivo sui bilanci dello Stato, eppure ancora non siamo capaci di mettere la tutela dell’ambiente al centro dell’azione di governi nazionali e organizzazioni internazionali.

Per affrontare queste sfide è necessario riconnettere la politica – e la società – con il sapere e la scienza. Da un lato investendo nella ricerca, nella formazione, nella scuola. Dall’altro invertendo la rotta che ha portato dall’aspirazione alla conoscenza alla diffidenza prima verso “gli intellettuali” poi verso il sapere in genere. La crisi di fiducia nei consigli e negli avvertimenti degli esperti è ormai oltre il livello di guardia, arrivando al paradosso di mettere a repentaglio la propria salute, o quella dei propri cari, perché si ritengono più affidabili i risultati di una ricerca online rispetto alle prescrizioni di medici specialisti. E’ un paradosso con cui siamo chiamati a confrontarci: se prima eravamo al massimo tutti allenatori della nazionale, oggi siamo tutti esperti di qualsiasi argomento, dall’Islam alla malaria, dai vaccini alle cure omeopatiche, dalle scie chimiche ai complotti. E’ una patologia pericolosa. Nella mia vita ho sempre cercato di apprendere, con curiosità e affidandomi a persone che ritenevo esperte nel proprio campo. Ciascuno di noi ha qualcosa da insegnare e molto, moltissimo da imparare. Diffidate da chi utilizza l’espressione “non accetto lezioni”: rappresenta un atteggiamento sbagliato e, in parte, la radice di tanti errori che potrebbero essere evitati. L’apporto che la cultura e la scienza possono dare alla politica è indispensabile per prendere decisione corrette ma anche per valutare ex post se le decisioni prese abbiano funzionato o meno. Per questo ho voluto fortemente che nascesse in Senato un “Ufficio valutazione impatto” delle leggi che ne possa verificare l’efficacia e la relazione costi-benefici. Molto interessante quello predisposto sulle leggi e le risorse stanziate a seguito dei terremoti nel nostro Paese. Considerando che negli ultimi 70 anni sono stati spesi 245 miliardi di euro per i danni e la ricostruzione, viene da chiedersi, come per gli acquedotti: quanto dolore e quanti soldi si sarebbero risparmiati se si fosse investito sulla prevenzione? D’altronde che l’Italia sia un Paese a forte rischio sismico lo si è sempre saputo.

Non posso non citare, in chiusura, la connessione tra la politica e la criminalità: come sapete per 43 anni ho fatto il magistrato, occupandomi di contrasto alla mafia e alla criminalità organizzata in genere. In questo caso la connessione, purtroppo ancora esistente in taluni casi, va recisa completamente. Anche la criminalità cambia, e abbiamo visto come sia passata dalle intimidazioni alla corruzione, soprattutto fuori dai territori d’origine, con una pericolosissima capacità di infiltrarsi, a tutti i livelli, nella società, nell’economia, nella politica locale e nazionale, nella Pubblica Amministrazione. L’Italia ha, complessivamente, un’ottima legislazione sia sotto il profilo della prevenzione che sotto quello della repressione dei reati. Un importante tassello da aggiungere sarebbe l’approvazione del Disegno di che tutela i lavoratori che denunciano episodi corruttivi, i cosiddetti whistleblower.

L’idea di giustizia però è molto più ampia, non si identifica né si esaurisce con il rispetto della legge, perché la storia ci insegna che talune norme hanno previsto la schiavitù, la persecuzione razziale, hanno difeso gli interessi del più forte. Il concetto di giustizia si ricollega all’equità e all’etica ed esige che si rispettino ad un tempo l’eguaglianza di tutti e le condizioni del singolo, nel senso che in tutte le norme a parità di condizioni deve corrispondere un trattamento uguale, e a condizioni diverse un trattamento diversificato. Don Milani diceva: “Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali”. Questa semplice frase rappresenta il cuore della giustizia sociale, spiega l’importanza che ricopre il sistema del welfare per mantenere unita la nostra comunità nazionale e ci ricorda come sia “compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” che limitano l’eguaglianza dei cittadini. Per poter finanziare le politiche sociali, che ritengo uno dei compiti principali del nostro Paese, è fondamentale anche intervenire sul contrasto all’evasione fiscale, che impoverendo i conti dello Stato influisce sulla qualità e sulla quantità dei servizi da destinare a ciascun cittadino. In un momento in cui si parla di “flat tax” è bene ricordare che le tasse nel nostro ordinamento sono previste come il contributo proporzionale e progressivo che i cittadini devono dare allo Stato, secondo una logica che non rincorre l’uguaglianza ma l’equità.

Ho elencato solo alcune delle connessioni della politica, ma ci tengo a sottolineare che l’effetto delle connessioni determina un’interazione: ciascuno degli attori degli ambiti presi in considerazione, a loro volta connessi tra loro, deve avere la consapevolezza che quanto emerge dal suo campo influenza a sua volta, nel bene e nel male, gli altri e in ultima istanza le decisioni che la politica prenderà. Per questo al centro dobbiamo, ciascuno di noi, tenere saldo il concetto della responsabilità, cui tutti siamo chiamati ad attenerci, per il bene comune. Come diceva il poeta (John Donne) nessun uomo è un’isola, tutti partecipiamo all’umanità, tutti siamo connessi. Chi ama la politica del retroscena, del colpo basso, degli accordi presi e non rispettati, della retorica che nasconde il cinismo alla “House of cards”, è probabile che abbia percepito questo mio intervento come troppo ideale, una concezione della politica troppo legata ai valori e poco ai dati percentuali, in una parola un discorso troppo utopistico. Ne sono felice, perché l’ultima – e più importante – connessione che la politica deve ritrovare è proprio quella con l’utopia e la speranza, l’unica che possa riuscire a coinvolgere i più giovani in un progetto di futuro comune e portarli ad interessarsi della cosa pubblica.