Autorità, Care colleghe e cari colleghi, Signore e Signori,
anche a nome della Presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini desidero rinnovare il cordiale benvenuto del Senato della Repubblica in occasione della seconda sessione della Conferenza straordinaria dei Presidenti dei Parlamenti dell’Unione europea per il 60° anniversario della firma dei Trattati istitutivi delle Comunità europee. Sono grato agli autorevoli relatori che hanno accettato di intervenire per condividere le loro esperienze e la loro visione della nostra Unione. Rivolgo un saluto affettuoso alle ragazze e ai ragazzi che seguono questo evento dalle tribune: sono certo di interpretare i sentimenti di tutti dicendo che la nostra responsabilità più grande è consegnare loro, che si sentono da sempre profondamente europei, un’Unione più giusta, più coesa e più sicura.
Le conversazioni di ieri sera e il dibattito di questa mattina hanno confermato che la celebrazione parlamentare di quel momento del 1957 non è un esercizio di stile, non è un dovere di protocollo, ma un’opportunità che non possiamo permetterci di perdere. Ricordare come eravamo significa rispettare la sofferenza e il sacrificio di coloro cui dobbiamo la nostra libertà, e concepire insieme il futuro comune. Com’è normale, le nostre opinioni possono divergere, ma credo sia emersa la comune consapevolezza che non possiamo restare dove siamo: dobbiamo andare avanti e dobbiamo farlo insieme. Questo credo sia il senso più profondo del nostro dovere di rappresentare nei Parlamenti i sentimenti, le ambizioni e i diritti dei cittadini.
Tornando con la mente a quei giorni, mi sembra importante rammentare che veri attori di quel momento storico non furono tanto i governi, quanto i popoli europei che chiedevano a gran voce pace, pane, libertà, dignità. Il Secondo conflitto aveva denudato gli istinti più bassi, consegnando alla storia inimmaginabili persecuzioni e violenze. La paura, la fame, la disperazione, lo sgomento, l’incredulità, il terrore dominavano le anime. In questo contesto nacque nel 1950 la Comunità per il carbone e l’acciaio, con una forte impronta economica ma anche un inedito carattere di sovranità condivisa perché il vero obiettivo delle donne e degli uomini visionari e coraggiosi che si fecero interpreti dei sentimenti diffusi era politico. “Noi non stiamo formando coalizioni di Stati, noi uniamo uomini” disse Jean Monnet. A metà degli anni cinquanta si perseguì l’ambizione federale di una Comunità di difesa: si temeva un nuovo, e questa volta definitivo, conflitto. Alcide De Gasperi, come ha ricordato questa mattina la figlia Maria Romana, si fece interprete della sensazione che quella fosse un’occasione che passa e non torna più. Il progetto fallì e tutto sembrava perduto. Il cammino dell’integrazione ripartì invece nel 1955 dalla mia Sicilia, dalla Conferenza di Messina dove si affermò, contro le previsioni, la posizione che perseguiva un’integrazione orizzontale e generale delle economie europee invece di una settoriale e più limitata. L’obiettivo era, nelle stesse parole della Dichiarazione che fu adottata, “mantenere per l’Europa il posto che occupa nel mondo, restituirle la sua influenza e aumentare in maniera continua il livello di vita della sua popolazione”. Su questa solida base si sarebbe progressivamente affermato il sistema sovranazionale socialmente più equilibrato, politicamente più stabile e culturalmente più avanzato che la storia umana abbia mai conosciuto.
L’Unione europea ha mantenuto quelle promesse di pace, diritti e benessere oltre ogni ragionevole previsione, superando persino la creatività di coloro che venivano allora, con una punta di ironia, additati come utopisti. Io, se mi è permessa una nota personale, sono nato alla fine del Secondo conflitto e rammento bene quante speranze si accesero sessant’anni fa negli occhi dei miei, dei nostri genitori, che sognavano per noi bambini un futuro senza odio, senza violenza e privazioni.
Come sappiamo, in anni recenti l’Unione si è dovuta confrontare con sfide epocali: la crisi economica e del lavoro, le diseguaglianze, le migrazioni, la grave instabilità geopolitica alle frontiere, la paura del terrorismo. Abbiamo reagito ma non sempre con solidarietà e razionalità e alcuni nostri cittadini hanno sviluppato sentimenti di disaffezione e di ostilità al progetto europeo che parte della politica ha sfruttato pericolosamente. Reagire chiudendosi, alzando muri fisici, ideologici e morali è la negazione della nostra storia e non paga: nessuno può sentirsi al sicuro, nessuno può fare da solo. Multilateralismo, solidarietà, diplomazia, pluralismo: questi sono i fondamenti del metodo che ci ha condotto fin qui, l’unico che ci porterà avanti. L’Europa ha una responsabilità che eccede i suoi confini: noi tutti insieme abbiamo segnato nella storia universale nuovi e inimmaginabili parametri di civiltà: nelle relazioni politiche, nella stabilità sociale, nella promozione dei diritti e dello Stato di diritto. Ma la modernità pone nuove sfide e impone di trovare altre e sempre più elevate risposte. Spetterà ai governi, già a partire dalla riunione di Roma del 25 marzo, individuare modalità di lavoro e prospettive adeguate al nuovo status quo: investire nell’occupazione, nella crescita e nell’innovazione; progredire nell’unione bancaria e monetaria; rafforzare la lotta comune contro il crimine organizzato, il terrorismo, la corruzione e i delitti economici, anche istituendo finalmente una Procura Europea; gestire in modo solidale, lungimirante e umano le migrazioni e i flussi di rifugiati. Io ho molta fiducia nella saggezza del Presidente Gentiloni e dei suoi colleghi europei e confido che sapranno comprendere la gravità del momento e fissare un nuovo punto di inizio della storia della nostra Unione.
Personalmente credo che programmare il futuro dell’Europa richieda quattro linee generali di intervento. In primo luogo, è necessario ricostruire un clima di serenità e fiducia fra i governi, per riavvicinare i cittadini alle istituzioni europee e ai valori comuni e per contrastare così il riemergere di nazionalismi ed egoismi, anticamera dei totalitarismi. In secondo luogo, dobbiamo agire contro le diseguaglianze che, anche nei Paesi più solidi, condannano alla marginalità e all’esclusione troppi cittadini europei, rendendoli più vulnerabili al delitto e ai fondamentalismi. In terzo luogo, dobbiamo reagire al rapido declino demografico del continente integrando virtuosamente gli immigrati, cui già oggi dobbiamo molta ricchezza, economica e culturale. Infine dobbiamo ripensare le nostre strategie nel nuovo contesto globale attraverso una vera politica estera comune per tornare a occupare la posizione globale che ci spetta per storia, valori, economia. Il rischio è la marginalizzazione geopolitica dell’Europa. Serve anzitutto una nuova politica per il Mediterraneo e il Medio Oriente dove la nostra colpevole assenza, in questi ultimi drammatici anni, ha contribuito ai fenomeni con cui oggi ci troviamo a confrontarci.
In questa strada dobbiamo procedere tutti insieme, con coesione e con solidarietà, senza mai lasciare solo nessuno ma anche senza frustrare le ambizioni e l’impegno di chi vuole rafforzare la cooperazione in certe aree più rapidamente, perché è alle ambizioni di un pugno di utopisti di sessant’anni fa che dobbiamo oggi il privilegio di trovarci qui tutti insieme, in pace e nel nome della libertà, della democrazia e della dignità umana. L’Italia è stata e sarà sempre un Paese di avanguardia nell’edificazione della casa comune perché noi ci identifichiamo profondamente negli ideali comuni e siamo orgogliosi della nostra storia millenaria di incontro di civiltà e di cuore geografico, politico e culturale del Mediterraneo e dell’Europa.
Viva l’Unione, viva l’Europa!