di Massimo Franco
«Credo che i problemi del dopo-terremoto confermino l’esigenza di sfruttare questo scorcio di legislatura per sbloccare una serie di misure, a partire dal riordino della Protezione civile. La vita del governo di Paolo Gentiloni non è legata solo alla riforma del sistema elettorale. E come presidente del Senato mi debbo augurare che la legislatura duri fino al 2018 per approvare provvedimenti importanti». Pietro Grasso siede nel suo studio a Palazzo Madama, mentre continuano ad arrivare le notizie sulla vicenda dell’hotel abruzzese sul Gran Sasso. E mentre scorrono le immagini dei soccorsi, e le polemiche sul ruolo del commissario Vasco Errani e del capo della Protezione civile, Fabrizio Curcio, Grasso scuote la testa. «Non capisco queste polemiche. Tra loro esiste un’intesa perfetta. Lavorano in accordo e con grande efficacia. L’ho potuto constatare di persona, accompagnandoli per un giorno intero nelle zone terremotate, qualche settimana fa».
È la prima intervista che la seconda carica dello Stato rilascia dopo il referendum costituzionale del 4 dicembre: una consultazione che doveva di fatto svuotare e poi accompagnare verso l’irrilevanza il Senato e il bicameralismo; e che invece consacra Grasso e il suo ramo del Parlamento come i grandi sopravvissuti, di più, i vincitori simbolici di una fase costituente finita con una sconfitta netta del governo di Matteo Renzi. «Diciamo che il risultato ha riabilitato i cosiddetti gufi», sorride. «Ma soprattutto, ha archiviato un lessico e un bestiario che a volte tradivano una punta di violenza verbale. Per fortuna questo appartiene al passato, ormai»
Si sente un sopravvissuto o un vincitore?
«Nessuna delle due cose. Soprattutto, non mi piace l’immagine di un Senato trionfante. Certo, è un dato di fatto che l’esito del referendum gli restituisce piena legittimazione».
Per mesi siete stati raffigurati dal Pd come membri di un ramo quasi inutile del Parlamento. Come dimostrerete che non è così?
«Lavorando molto, se ci faranno lavorare. Mi sono guardato bene dall’intervenire nel dibattito sul referendum. Ma mentre le riforme erano in itinere avvertimenti e segnali ne avevo mandati. A gennaio del 2016 avevo messo l’accento sul rischio di trasformare il referendum in un plebiscito su Renzi. E a luglio consigliai di riflettere sui toni esasperati e gli allarmismi smentiti dai fatti, le promesse e le minacce che il fronte del Sì e del No stavano usando, e che non promettevano bene. La mia posizione era chiaramente desumibile».
Nel senso che non le piaceva la riforma?
«…Che alcuni punti mi lasciavano perplesso. Ormai parliamo di cose passate sulle quali si è espresso con chiarezza il popolo italiano».
Lei come ha votato?
«Mi sembra inutile dirlo adesso. Ero stato chiaro su alcune criticità. Poi, una volta definita la riforma, non mi sono esposto per non essere strumentalizzato né da una parte né dall’altra, vista la carica istituzionale che rivesto».
Già, ma ora il rischio è che il partito che l’ha eletto, il Pd, faccia cadere il suo terzo governo in tre anni subito dopo l’approvazione di una nuova legge elettorale. Come vede una simile prospettiva?
«Credo che questo governo debba lavorare a prescindere dalla riforma elettorale. Il Parlamento si occupi di questo, e approvi una legge condivisa e omogenea per Camera e Senato, come ha chiesto il capo dello Stato. E il governo vada avanti sul resto. Ci sono provvedimenti sospesi e bloccati da mesi. Parlo, e sono solo alcuni esempi, delle modifiche al sistema penale, del delitto di tortura, della concorrenza, del contrasto alla povertà. Bene, si riprendano in mano e vengano approvati. Dobbiamo sfruttare al massimo il tempo residuo della legislatura. Non vorrei che rimanessero ancora fermi, sacrificati sull’altare della legge elettorale».
Scusi, ma perché li avete bloccati?
«Li hanno bloccati perché in vista del referendum erano considerati divisivi».
Divisivi per la maggioranza?
«Esatto. Si temeva che discutendoli la maggioranza si potesse rompere. Ma adesso evitiamo di passare dalla paralisi pre-referendaria a quella pre-elettorale, bloccando di nuovo tutto. Sarebbe grave perpetuare questa stasi. Si nomini il presidente della commissione Affari costituzionali e poi…»
Già, perché non è stato ancora eletto?
«Bisogna chiederlo ai partiti».
La sua impressione?
«Forse si aspetta la decisione della Corte costituzionale del 24 gennaio».
Che cosa c’entra?
«Si preferisce aspettare che la Consulta dia un’indicazione sul tipo di sistema elettorale da plasmare. Anche se a mio avviso la sola pronuncia non chiarirà la situazione: occorrerà aspettare le motivazioni».
Non è paradossale? Si rivendica il primato della politica e si rimane appesi alla Corte.
«Temo che sia così: aspettare le scelte altrui prima di prendere l’iniziativa finisce per accreditare la supplenza di altri organi costituzionali rispetto al sistema politico».
Una volta fatta la legge elettorale, crede che Gentiloni riuscirà a resistere alle spinte del vertice del Pd verso il voto anticipato?
«Il governo deve governare, è nella pienezza del potere. Stimo molto Gentiloni: ha grande esperienza e un buon carattere. Lavorerà come capo del governo finché sarà legittimato dal Parlamento e avrà la sua fiducia. Le pressioni per andare alle urne sono più nei retroscena. La posizione ufficiale del Pd è di andare al voto senza ansia e senza fretta».
Lei crede alle posizioni ufficiali?
«Io ho fiducia in Gentiloni. E comunque alla fine la decisione di sciogliere le Camere spetta al presidente della Repubblica».
Per la grande partecipazione e per il risultato referendario, non ha l’impressione di una sconnessione tra Pd e Paese?
«Il segnale dato dall’affluenza al referendum è che gli italiani credono alla partecipazione democratica. Emerge una mappa del nostro Paese dove la divisione principale è tra chi ce la fa ancora e chi non ce la fa più. Dopo la lunga crisi economica è esploso il tema della diseguaglianza. Sono le fasce economiche più deboli ad avere mandato un messaggio chiaro, le zone del Sud che soffrono di più, e le generazioni esposte a prospettive precarie. Questo ha prevalso sull’adesione ideologica ai partiti, Pd compreso. Finora un’analisi vera del risultato non si è vista. Credo dovrebbe esserci un’autocritica sullo scollamento tra politica e cittadini. Il Pd è stato sconfitto nelle periferie, e dovrebbe ricucire il tessuto sociale del partito».
Significa che nessuno può annettersi le percentuali del Sì e del No.
«Di certo, le scelte sono state trasversali».
Condivide la tesi secondo la quale dopo il No le riforme non si faranno più?
«Non lo penso affatto, anzi. Bisogna riprenderle, ma condividendole con l’opposizione. E senza pretendere di risparmiare comunque, a scapito del funzionamento delle istituzioni. Per esempio, si potrebbe in poco tempo rendere omogenea la base elettorale delle due Camere, concedendo anche ai diciottenni il voto per il Senato, in modo da ridurre il rischio di maggioranze diverse tra le Camere».
Non sarebbe anche il caso di dire parole di verità su un voto all’estero a forte sospetto di brogli? Pensare perfino di abolire la legge?
«Mi basterebbe che fosse rivista in modo da garantire il rispetto della segretezza e della correttezza, e cancellare il sospetto che il voto per corrispondenza possa essere inquinato».
In tema di sospetti: non le viene quello che, negli ultimi due anni e mezzo, la velocità del governo abbia finito per far perdere tempo?
«Purtroppo, per quanto riguarda le riforme costituzionali e una legge elettorale approvata a colpi di fiducia, l’esito è stato questo. Su altre riforme, credo ci sia tempo e modo di recuperarle e di correggerle, se necessario. Il compito del governo Gentiloni è questo, a mio avviso: ricucire il Paese, recuperare il tempo perduto, e calamitare i consensi che si sono dispersi. C’è maggiore disponibilità, oggi, a trovare accordi: la mutazione è questa. È il vantaggio di un governo di transizione che porta alle urne».
L’Anm annuncia che diserterà l’inaugurazione dell’anno giudiziario, per protesta contro gli impegni non mantenuti dal governo.
«Ma era quello di prima (sorride, ndr). Come ha detto il ministro Orlando, questo è un altro esecutivo».
…Definito governo-fotocopia.
«È vero che l’orchestra ha cambiato pochi elementi. Ma il direttore è diverso, e il direttore vuole dire molto. Gentiloni deve poter lavorare sfruttando al massimo l’anno che ci porta alla fine della legislatura. Nella prospettiva proporzionale servono leader inclini più a cucire che a strappare».
Che pensò quando Renzi definì i senatori «tacchini felici» per avere votato la riforma che doveva sancire la loro fine politica?
«Non mi parve una frase felice. Ma il referendum ha archiviato anche un lessico e un bestiario che definirei discutibili. E ha riabilitato i cosiddetti gufi».
Si sente un gufo riabilitato?
«Non so se sono un gufo. Una volta, al Quirinale, Renzi indicò al presidente della Repubblica la mia cravatta con dei piccoli uccelli disegnati. Scherzando, disse che rappresentavano dei gufi. Mattarella si avvicinò, esaminò la cravatta e precisò: “A me sembrano civette”. Aveva subito trovato la mediazione».