La diplomazia della misericordia

Discorso alla presentazione del Volume di Limes “La terza guerra mondiale?”

Cari amici, Autorità, Signore e Signori,

Sono molto lieto di ritrovarmi a Palazzo Maffei Marescotti un anno dopo il dibattito su etica e economia globale con Sua Eminenza il Cardinale Parolin, un pomeriggio del quale conservo davvero un bel ricordo. Ho molto piacere di incontrare di nuovo e di potere ascoltare Padre Spadaro, e ringrazio Monsignor Andreatta, il Direttore Caracciolo, il Presidente Colomba e il dottor Schiavazzi per questa nuova iniziativa. Nell’epoca che viviamo, spesso dominata da approssimazioni e semplicismi, credo che queste occasioni di dialogo e di riflessione sui grandi temi dell’umanità siano preziose perché aiutano a comprendere i fenomeni incrociando esegesi diverse che arricchiscono le prospettive: esegesi religiose, politiche, istituzionali, scientifiche, ideali.

L’occasione di questo incontro è l’uscita del volume dedicato alla “terza guerra mondiale” (per fortuna, con un punto interrogativo) della Rivista Limes, un luogo autorevole e plurale del pensiero geopolitico contemporaneo. Il volume prende spunto dal profondo pensiero internazionale di Papa Francesco, che osservando gli squilibri globali ha ammonito che la terza guerra mondiale è già iniziata, prima spiegando che “si combatte a pezzetti, a capitoli” poi dichiarandone l’effettività: “è proprio una guerra”. Come Padre Spadaro racconta nel suo avvincente scritto su La Civiltà Cattolica, nella diplomazia di Francesco l’antidoto all’apocalisse, morale e politico, è la prospettiva della misericordia. Prospettiva che Papa Bergoglio, con la sua autorità morale e la sua azione pragmatica, incarna al punto di essere egli stesso il Profeta della misericordia. Con una delle sue vivide immagini, il Santo Padre concepisce la misericordia come un potente oceano che inonda il mondo sovrastando il fiume di miseria, di violenza, odio e sopraffazione, dal quale la Terra è attraversata. La presenza misericordiosa di Dio ha per il Papa il potere di condurre dalla miseria alla “pienezza del tempo”, di riqualificare i processi storici. Una rappresentazione che ha valore morale e religioso ma anche profondamente politico e geopolitico quando si traduce in termini di impegno per il bene comune nel mondo, di solidarietà. Così il Santo Padre esorta a pensare un assetto delle relazioni internazionali costruito non sugli interessi ma su principi e valori umani. Francesco però non si ferma ai moniti, costruisce ponti con le sue stesse mani, aprendo le braccia a nazioni e persone spesso demonizzate dal mondo occidentale, raccontati secondo narrative di comodo, a senso unico: Cuba, Iran, Cina, Russia e i loro leader, e molti altri. Egli, che proviene da un Paese che ancora fa i conti con la propria storia, esorta a superare il ricordo del passato e immagina un ordine mondiale più equo, così contribuendo nei fatti a realizzarlo. Mentre da una parte edifica, il Santo Padre dall’altra parte sgretola la vuota retorica dello scontro di civiltà, demolendo tanto le narrative terroriste del sedicente “Califfo”, quanto le fobie occidentali che strumentalizzano l’allarme per respingere migranti e rifugiati.

Spostiamoci brevemente sul linguaggio geopolitico. Non posso addentrarmi troppo sui singoli temi e le diverse linee di faglia del Pianeta che il volume individua come possibile innesco di un conflitto mondiale: Siria e Iraq, Ucraina, Mari Cinesi. Vorrei proporre quindi solo alcune considerazioni sui temi che mi stanno più a cuore.

La prima osservazione è che la parola che descrive in modo più accurato la nostra epoca è frammentazione. Penso alla dissoluzione di diversi Stati: Siria, Libia, Iraq, per citare solo alcuni scenari. Penso alla disgregazione di equilibri geopolitici, che si esprime in conflitti apparentemente interni, nei quali si regolano però complesse competizioni fra attori regionali e potenze extra-regionali. Penso alla crisi della diplomazia, del multilateralismo e delle alleanze internazionali e sovranazionali. In particolare mi preoccupano i gravi rischi che l’Unione europea corre quando non solo si presenta fortemente disunita e polarizzata sui due principali versanti della politica estera comune (Ucraina e Mediterraneo), ma quando certifica la propria debolezza agendo sulla gestione dei rifugiati in modo egoista, divisivo e disumano.

La seconda considerazione è che la deriva anomica e anarchica che ha eroso gli ordini mondiali del passato, che Limes segnala come antefatto del caos, è dovuta principalmente a una crisi politica, all’assenza o alla debolezza di luoghi politici, di istituzioni attrezzate a svolgere il ruolo di garantire i diritti di tutte le persone e, su questa base di legittimità rappresentativa sostanziale, comporre ordinatamente gli interessi nazionali a livello regionale e globale. I conflitti in corso, e questo vale in certa misura tanto per l’Ucraina quanto per la Libia, Siria e Iraq, prima di evolvere in guerre per delega sono stati originati da fallimenti istituzionali. In questo senso, mi riferisco in particolare al teatro mediterraneo e mediorientale, io sono convinto che gli interventi puramente militari, etichettati in genere in termini di “guerra al terrorismo”, si tradurranno in inevitabili fallimenti se non saranno accompagnati da strategie politiche volte a costituire assetti istituzionali idonei a rappresentare ogni componente etnica, confessionale, economica e sociale, ad esempio secondo formule federali. Con riferimento specifico alla situazione della Libia penso anzitutto sia ineludibile continuare a sostenere prioritariamente, come ha sempre fatto il governo italiano, una soluzione politica interna unitaria. Un tale accomodamento deve essere deciso dai libici per permettere una progressiva (e necessariamente lenta) riconquista del controllo del territorio; e a tempo debito dare avvio a un processo di costruzione istituzionale, che tenga in debito conto le complesse dinamiche etniche e di potere nel Paese. Un governo unitario, sebbene non in grado di espletare appieno le sue funzioni, sarebbe un interlocutore importante per la comunità internazionale. In questo percorso gli attori internazionali devono astenere dal privilegiare le parti in causa per propri interessi particolari. Un altro obiettivo è impedire che la Libia occidentale possa divenire un avamposto per destabilizzare la Tunisia, unico Paese della “primavera araba” che, con fatica e a caro prezzo, ha imboccato la via della democrazia. Terzo obiettivo è prevenire l’eventuale controllo di parti del territorio da parte di gruppi terroristici legati allo Stato Islamico, se fossero confermate le iniziali indicazioni in tal senso. Ho piena fiducia nelle capacità e nell’equilibrio del governo e del comparto di sicurezza della Repubblica e sono certo che sapremo definire adeguatamente l’interesse nazionale nei diversi quadranti del Paese e di conseguenza agire con massima cautela e in modo mirato. Sono sicuro inoltre che continueranno a essere garantite tutte le prerogative di conoscenza, deliberazione e controllo da parte del Parlamento, nelle sue diverse articolazioni.

Vorrei dedicare l’ultima osservazione al tema dei rifugiati, una conseguenza degli squilibri geopolitici che incide drammaticamente sulla vita di milioni di persone che sono costrette a lasciare luoghi e persone amati e mettersi in marcia per sfuggire a conflitti e persecuzioni. Mi è capitato spesso di dire, ma continuerò a farlo finché ce ne sarà bisogno, che accogliere i profughi non è un’elemosina, un gesto di buon cuore: è un dovere giuridico e internazionale cogente di risposta a un fenomeno che non può considerarsi un’emergenza, e che va praticato con l’integrazione nei Paesi d’accoglienza e con politiche solidali nei Paesi di provenienza che ne rispettino sempre cultura e tradizioni. In questi ultimi mesi, in particolare dopo i fatti drammatici di Parigi, qualcuno sfrutta suggestivamente le comprensibili inquietudini dei cittadini per associare le migrazioni al terrorismo e la diversità al fondamentalismo, alimentando così fenomeni di odio religioso, etnico e culturale. Noi rigettiamo con forza queste assimilazioni, che sono infondate in fatto e politicamente irresponsabili. Il nostro dovere è proteggere la vita e la sicurezza dei cittadini con gli strumenti dello Stato di diritto, con le indagini, l’intelligence, la diplomazia, garantendo le libertà e i diritti di tutte le persone, nella cornice della legalità internazionale.

Permettetemi di concludere con una nota personale. Da ragazzo alla domanda su cosa volessi “fare da grande”, rispondevo senza esitazione: il giudice! Osservando violenze, sopraffazioni, ingiustizie avevo sviluppato il desiderio fermissimo di agire in prima persona per affermare nella vita di ogni giorno ideali che avevo imparato ad amare dai libri che leggevo avidamente, per ore e ore: libertà, giustizia, verità, diritto, dignità. Da giudice, pensavo, avrei potuto dare il mio contributo personale. Allora, come ora, credevo che unica alternativa alla rassegnazione, all’indifferenza, fosse l’azione. Ebbene, sono convinto che abbia ragione Caracciolo quando scrive in chiusura del suo editoriale del volume di Limes che la terza guerra mondiale non ci sarà se non la vorremo. Questo è un dovere che grava su tutti. Grava su chi ha assunto il compito gravoso del pastore: curare le anime, educarle a nutrire un sentimento di compassione per l’infelicità altrui, che spinge ad agire per alleviarla, alla riconciliazione tra i contendenti, alla pace. Grava su chi ha scelto l’impegno della politica: curare il bene comune e la realizzazione dei diritti delle persone nella loro vita quotidiana; proteggere i deboli, gli ultimi, i diversi; costruire nelle relazioni internazionali ponti e non muri. Grava su ciascuno di noi, che, senza dar mai nulla per impossibile, deve sentirsi investito di questa missione: far appello al coraggio e all’intelligenza per contribuire a prevenire e a risolvere gli inevitabili conflitti della vita e le numerose crisi geopolitiche ed economiche di oggi. In questo impegno collettivo possono convergere virtuosamente categorie, modelli di relazione e linguaggi eterogenei: religiosi e politici, morali ed etici, purché siano accomunati da un unico filo conduttore, che il Santo Padre definisce misericordia o solidarietà. Parole che da uomo delle istituzioni vorrei tradurre con un’espressione che ho posto alla base della mia vita: impegno e responsabilità per il bene comune. Grazie.