«Ci sono cose che ti segnano per sempre, marchiano a fuoco la tua vita. Senza timore di apparire retorico, posso dire che il maxiprocesso contro Cosa nostra è l’episodio che mi ha toccato e non mi ha più lasciato». Piero Grasso oggi è la seconda carica dello Stato, ma non ha dimenticato il 10 febbraio del 1986, giorno in cui si aprì il primo grande processo contro la mafia. Sono passati trent’anni ma il ricordo è ancora nitido.
«Fu una grande vittoria di tutta la società civile, dello Stato, di quel pugno di magistrati eroici, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino più di tutti, che riuscirono in una impresa dai più ritenuta impossibile per le difficoltà insite nella sola idea di voler processare in blocco Cosa nostra e per il ritardo culturale che, fino a quel momento, aveva reso inadeguata la lotta alla mafia. Ma fu anche la vittoria del popolo siciliano che potè – per una volta – vedere alla sbarra personaggi di cui non si era potuto neppue pronunciare il nome. Fu la fine della sovranità limitata delle Istituzioni nei confronti del malaffare».
Eppure, presidente Grasso, fino all’ultimo ci furono forze che remarono contro nel tentativo di affondare l’”astronave verde”, com’era stata definita l’aula bunker costata miliardi e anni di lavoro.
«La mafia aveva scommesso tutta la propria credibilità ed assicurato al popolo di Cosa nostra che avrebbe avuto successo ancora una volta la pantomima, riducendo il maxi ad una enorme bolla di sapone. Per fortuna andò in modo completamente diverso».
Risultò difficile persino comporre la Corte e il presidente Alfonso Giordano dovette arrivare dal tribunale civile.
«E’ vero, si registrarono parecchie defezioni da altri presidenti delle sezioni penali. C’era chi accusava malanni, chi dichiarava di avere altri impegni. Le difficoltà erano maggiori, se si pensa che – per evitare sovraesposizioni della Corte – si dovette raddoppiare il numero dei giudici. Anche i pm erano due, Ayala e Signorino, e furono duplicati pure i giudici popolari».
Ci furono minacce?
«Tentativi di avvicinamento, di certo. Ma devo dare atto, soprattutto alla giuria non togata, che la trincea tenne benissimo. Semplici cittadini compresero appieno l’importanza del ruolo che lo Stato aveva loro affidato. E d’altra parte le cautele erano d’obbligo in un clima che non prometteva niente di buono: si temeva addirittura un attacco aereo contro l’aula bunker e un qualche omicidio ben mirato avrebbe potuto mandare per aria l’esito del processo. A distanza di trent’anni possiamo dire che senza quel successo saremmo un po’ meno liberi, perché la lotta alla mafia – credo sia ormai chiaro a tutti – è una battaglia di libertà e di democrazia».
Fu il “maxi” a metterla in contatto con Giovanni Falcone?
«Praticamente sì. Dopo la mia designazione a giudice a latere andai a trovarlo nel suo bunker per comunicargli la decisione del presidente del Tribunale. Lui mi scrutò col suo sguardo sornione e indagatorio e mi disse: “Viene che ti presento il maxiprocesso”. Di fronte a quel mostro dovetti sforzarmi per non confessare tutto il mio panico. Lui mi guardava sottecchi e scrutava la mia reazione. Si tranquillizzò quando, con voce ferma, chiesi: “Qual è il primo volume”? Aveva capito che avevo voglia solo di cominciare al più presto».
Non poteva immaginare, Giovanni Falcone, che proprio il successo ottenuto nel maxiprocesso sarebbe stata la causa della strage che lo avrebbe ucciso, insieme con la moglie, Francesca Morvillo e gli uomini della scorta, e della seconda strage che costò la vita a Paolo Borsellino e ai suoi “angeli custodi”.
«Già, si può dire che per la mafia Falcone e Borsellino “dovevano” morire perché avevano infranto il mito dell’invincibilità di Cosa nostra con mezzi assolutamente nuovi – pensiamo solo a come furono utilizzati Buscetta e i pentiti di mafia – e finalmente concessi da quel potere politico non più succube dell’innaturale alleanza coi boss. Dobbiamo molto a tutti quei servitori dello Stato che hanno sacrificato le loro vite in questa battaglia. Per questo non smetterò mai di insistere e di spronare la magistratura e gli apparati investigativi a cercare la verità. Anche se dovesse risultare scomoda».
Pensa vi sia ancora da scavare nelle nostre recenti storie giudiziarie?
«Ho fatto un giuramento davanti ai corpi martoriati di Falcone e Borsellino. Ho promesso che non mi sarei mai fermato nella ricerca delle verità sulle dinamiche che hanno causato la loro fine. E credo che non tutto sia ancora stato chiarito. Rivendico il merito di aver portato alla luce, con il pentimento di Gaspare Spatuzza, una verità giudiziaria – sulle stragi di Capaci e via D’Amelio – diversa da quella che era stata data per certa fino a quel momento, e nuovi elementi sulle stragi “in continente” a Firenze, Roma e Milano del 1993 quando la mafia cambiò strategia e virò la sua violenza contro il patrimonio artistico, causando morti innocenti anche lontano dalla Sicilia. Prima di approdare alla politica, da procuratore, ho continuato a ricercare, sempre nel rispetto delle regole e delle competenze del ruolo, ma utilizzando allo stesso tempo tutti gli strumenti a disposizione della procura nazionale, informazioni che, se confermate, potessero dare nuovo impulso alle indagini delle procure su vicende dolorose e irrisolte, pensiamo solo ai delitti La Torre, Dalla Chiesa, Mattarella, Agostino, Insalaco e Reina. Ancora oggi credo che ci siano angoli da illuminare e intuizioni che meriterebbero una maggiore approfondimento».