Una storia vera di coraggio e giustizia
Autorità, gentili ospiti, caro Andre
sono felice di ospitare in Senato la prima presentazione de “Il disobbediente”, libro che racconta la storia di una persona che ha scelto di fare la cosa giusta, anche a costo di subire intollerabili conseguenze.
Consentitemi di ringraziare l’autore e l’editore di questo libro: queste sono pagine preziose che descrivono con chiarezza disarmante le implicazioni di un atto di coraggio tanto semplice quanto rivoluzionario. Quello che mi ha colpito è che questo libro, sin dal titolo, è la storia di un continuo paradosso: “disobbediente” è la qualifica attribuita a chi, di fronte a una serie di illegalità, si rivolge ai carabinieri, le denuncia e consente l’avvio di indagini e processi. In una democrazia basata sullo stato di diritto dovrebbe essere la norma, non l’eccezione. Anzi, chi segnala un reato nel proprio posto di lavoro dovrebbe ricevere encomi per aver dimostrato l’attaccamento all’Istituzione, all’amministrazione, all’ente o all’azienda cui appartiene.
Andrea invece dice di aver preso ispirazione dagli insegnamenti di una lettura fatta ai tempi del liceo, il trattato sulla “Disobbedienza civile” di Henry David Thoureau. Continua il paradosso: rispettare e far rispettare la legge come atto di ribellione. Mi viene in mente la frase di un ragazzo appena assunto che, entrato in un ufficio dove la corruzione era sistemica, una volta scoperto confessò dicendo: “ero in prova e ho avuto paura di essere cacciato. Non ho avuto il coraggio che ci vuole per essere onesto”.
C’è un dialogo raccontato nel libro che è, a mio parere, emblematico. Andrea parla con i propri genitori, intimoriti dalle conseguenze a cui dovrà far fronte il figlio. Lo scambio di battute che si consuma nella loro cucina è drammatico: in pochissime parole si manifesta immediatamente la profondità di una scelta che ha un grandissimo impatto sulla vita personale e che la cambierà per sempre. Ad un certo punto suo padre commenta amaramente:
“Lo capisci che hai mandato all’aria la tua carriera… e che a quei farabutti tanto non succederà nulla? Tu, invece….”
“Ho fatto ciò che era giusto. Sono in pace con la mia coscienza”
“Qui è cosi: se non ti va bene, piglia su le tue cose e vattene in Inghilterra, vattene in Canada, vai dove vuoi, ma non qui. L’Italia è il Paese dei furbi; se vuoi vivere onestamente, qui, hai vita dura”.
È umanamente comprensibile la preoccupazione di un genitore che vede suo figlio rischiare la carriera per “fare la cosa giusta”. Eppure è proprio qui che si consuma uno dei più importanti cortocircuiti che rende la corruzione un male così difficile da sradicare. Nella percezione collettiva – espressa nei legittimi timori di un padre che teme per il futuro di suo figlio, e arriva a darsi la “colpa” di non averlo educato bene – l’Italia è un Paese senza speranza nel quale lo stigma sociale è subìto dalle persone che scelgono la legalità e non da quelle che trasgrediscono la legge. Per poter vivere una vita onesta l’unica alternativa sembra quella di fuggire, o tacere. Un Paese che tende ad oscillare tra omertà, indifferenza, rassegnazione, da un lato, e la qualifica di delatore e di “infame” nei confronti di chi segnala alimenta una sorta di riprovazione sociale che bisogna invertire. Un’Amministrazione sana dovrebbe tenere alla propria integrità.
Purtroppo il paradosso è dato dal fatto che in Italia non è facile scegliere di diventare un whistleblower, colui che segnala un’irregolarità sapendo di andare incontro a frustrazioni, vessazioni, demansionamento, isolamento sociale. Con tutte le differenze del caso, Andrea Franzoso in azienda viene trattato – attenzione, non dalle persone che ha denunciato ma da chi ne ha preso il posto dopo le loro dimissioni e dai suoi stessi colleghi, con la stessa considerazione riservata in altri contesti agli “infami”, ai traditori. Quei colleghi che uno degli imputanti descrive dicendo “Non esiste i ladri e gli onesti. Bene che vada esiste una serie di conniventi”.
È chiaro che la prima prospettiva con cui approcciare il problema debba essere di carattere culturale. Bisogna in qualche modo ribellarsi alla tentazione di voltare le spalle, di non farsi carico di questioni che riguardano la collettività. È insopportabile accettare che chi denuncia un illecito sia isolato, deriso, ostacolato: persone come Andrea hanno bisogno dell’appoggio concreto di tutti noi perché, nel seguire la voce della loro coscienza, compiono un gesto con un profondo valore sociale e, in prospettiva, costruiscono un orizzonte in cui il rischio di essere scoperti potrà essere un deterrente significativo. È solo quando questo genere di comportamenti diventeranno diffusi e sostenuti dalla maggioranza delle persone che le cose – anche quelle più difficili e apparentemente insormontabili – inizieranno a cambiare. Possiamo anche minimizzare e lamentarci delle classifiche sulla percezione della corruzione nel nostro Paese ma, finché a chi denuncia viene riservato il destino subìto dall’autore, le proteste sono destinate a cadere nel vuoto.
D’altro canto non può essere sufficiente un cambiamento di mentalità, o il singolo atto coraggioso di qualche cittadino. È per questo che le istituzioni devono agevolare il comportamento virtuoso dei “disobbedienti”, anche attraverso un testo di legge che finalmente ieri è approdato in Aula in Senato, dopo un lavoro approfondito in I Commissione che ne ha migliorato il testo rispetto alla prima lettura anche grazie al supporto di “Riparte il futuro”, Transparency International e al presidente dell’Anac Raffaele Cantone, il titolare e il vertice, insieme ai responsabili delle singole amministrazioni, di tutte le misure preventive contro la corruzione. La speranza è che il disegno di legge venga approvato al più presto, in modo da poterlo mandare alla Camera, per la terza lettura, in tempi brevi e comunque prima della fine di questa legislatura.
Da molto tempo ho rappresentato l’urgenza di approvare le norme che tutelano i lavoratori che denunciano episodi corruttivi: in questo modo non solo si tuteleranno loro ma l’intera collettività, perché spezzare le catene corruttive fa risparmiare risorse, e molte, al bilancio del Stato, risorse che potrebbero essere meglio utilizzate per garantire servizi ai cittadini. Siamo tutti vittime della corruzione, siamo quindi tutti in debito verso Andrea Franzoso e chi, come lui, ha avuto il coraggio di rompere il silenzio.
Grazie.