Il Presidente
L’inizio dell’avventura politica e il primo giorno da senatore. L’elezione a Presidente e l’impegno per la legalità.
Un nuovo inizio.
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Il primo giorno da senatore.
L’università e il concorso.
Il mio primo esame me lo ricordo benissimo perché fu un fallimento. Non seppi rispondere alla prima domanda, e ricordo ancora perfettamente le parole del professore: “Vada a studiare”. Accettai il consiglio e mi rimisi sui libri, cambiando metodo di studio. Molto impegno e qualche colpo di fortuna fecero sì che a 21 anni ero già laureato in giurisprudenza. Mi misi subito a studiare per partecipare al concorso: quando partii per il servizio militare, a 24 anni, ero già magistrato. Quell’anno sposai Maria, che avevo conosciuto per caso qualche anno prima e “conquistato” dopo un lungo corteggiamento. Maria è il mio primo e più importante punto di riferimento: insieme abbiamo affrontato tutte le difficoltà e le soddisfazioni che la vita ci ha riservato.
Barrafranca, il primo incarico.
In virtù del buon risultato del concorso potevo scegliere diverse città italiane: decisi di rimanere in Sicilia come atto di impegno e di amore per la mia terra. Fui assegnato alla Pretura di Barrafranca, un paesino che si trova in provincia di Enna. A Barrafranca c’era un factotum (o “factotùm” come si presentò lui stesso), un uomo che svolgeva tutte le funzioni necessarie, dal messo comunale al dattilografo. Il cancelliere era presente in pretura una volta a settimana e questo tuttofare provvedeva a ricoprire tutte le altre cariche. In questo piccolo paese agricolo passai due anni, impegnativi ma molto formativi. Il mio obiettivo però era quello di tornare a Palermo.
Barrafranca, il primo incarico.
Avevo un alloggio modesto nei locali della pretura. L’edificio era un vecchio convento e io, in una stanza, avevo messo un letto, una sedia e una piccola stufa elettrica per il riscaldamento. Il problema era l’acqua: arrivava solo una volta a settimana, solitamente il mercoledì, che era anche il giorno dell’udienza penale. La mia raccolta dell’acqua coincideva quindi con l’annuncio “il pretore si ritira in camera di consiglio per deliberare”. Deliberavo, certamente, e riempivo frattanto i bidoni per tutta la settimana. Quando il weekend tornavo a Palermo per raggiungere mia moglie e mio figlio, la prima cosa che Maria mi diceva era “fatti il bagno di prima di abbracciare Maurilio!”.
La morte di Scaglione e il ritorno a Palermo.
Era il 1971 quando Pietro Scaglione, che era stato uno dei miei maestri nel periodo di pratica, fu assassinato dalla mafia. Era la prima volta che Cosa nostra alzava il tiro contro la magistratura e tutti, me compreso, erano sconvolti. Feci subito richiesta e ottenni il tanto agognato trasferimento alla Procura di Palermo: normalmente bisognava attendere dodici anni, ma l’omicidio Scaglione aveva indotto molti colleghi a lasciare l’ufficio. Diventare pubblico ministero fu una scelta delicata ma fortemente voluta. Finalmente si avverava il mio sogno di fare il magistrato che dirigeva le indagini e nei successivi 12 anni imparai a svolgere la funzione di pubblico accusatore.
L’omicidio di Piersanti Mattarella.
Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’90 la mafia insanguinò la Sicilia e il resto d’Italia. Fu una vera e propria mattanza. Furono uccisi alcuni dei migliori uomini dello Stato, che avevano l’unica colpa di aver tentato di fermare lo strapotere di cosa nostra: i funzionari della squadra mobile di Palermo Boris Giuliano, Giuseppe Montana e Ninni Cassarà, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile ed il suo successore Mario D’Aleo; i magistrati Cesare Terranova, Gaetano Costa, Ciaccio Montalto, Rocco Chinnici, Antonino Saetta, Rosario Livatino; il segretario del PCI siciliano Pio La Torre; il prefetto di Palermo, generale Carlo Alberto Dalla Chiesa; i giornalisti Peppino Impastato, Mario Francese, Mauro Rostagno e Giuseppe Fava. L’omicidio del Presidente della Regione Sicilia, Piersanti Mattarella, fu un vero shock. Mattarella stava andando a messa con la propria famiglia, a Palermo, il giorno dell’Epifania del 1980. Ricordo tutto come se fosse ora. Avevo il televisore acceso all’ora di pranzo per seguire il telegiornale delle 13: fu così che seppi che il presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella era stato ucciso a Palermo, mentre si trovava in auto per andare a messa con la famiglia. Essendo io il magistrato di turno in procura, in realtà avrei dovuto essere avvertito di un fatto così grave, ma nella comprensibile confusione che era seguita a quell’assassinio «eccellente» era stato avvisato solo il procuratore Costa. Chiamai subito il medico legale e, senza attendere ulteriori informazioni, raggiunsi il luogo dell’omicidio. Ma quando arrivai sul posto il corpo del Presidente Mattarella era già stato portato in ospedale, in un inutile tentativo di salvataggio. Non mi rimase che effettuare il sopralluogo per ricostruire la dinamica dell’agguato. Iniziarono le indagini e fu subito evidente che gli assassini di Mattarella volevano fermare il cambiamento economico, amministrativo e politico che egli aveva appena iniziato. In quel sangue sparso in via della Libertà il 6 gennaio del 1980 si infranse ancora una volta il sogno di una Sicilia rinnovata e libera dalle incrostazioni mafiose, che si stava traducendo in concreta azione di governo di una Regione, come diceva Mattarella, “con le carte in regola”. Il suo progetto politico era intrecciato alla svolta di cui fu anima il suo maestro e riferimento politico-morale Aldo Moro, fermato dal piombo delle Brigate Rosse. Voleva che le procedure di appalti e di concorsi fossero controllate e pulite, aveva imposto trasparenza nelle assunzioni e una programmazione nella gestione della cosa pubblica. Cercare le cause e gli autori dell’omicidio Mattarella si rivelò complesso, fin da subito. La cosa più importante che emerse fu la conferma dell’intricato legame tra mafia, affari e politica. Da questa prospettiva dovevamo guardare, da quel momento in avanti, Cosa nostra.
Il Maxiprocesso.
È l’ottobre del 1983 quando in Brasile viene catturato Tommaso Buscetta. E l’anno dopo avviene una svolta che cambierà le sorti della lotta alla mafia: Buscetta inizia a parlare con Giovanni Falcone. Nella guerra interna a Cosa nostra i corleonesi avevano sterminato la famiglia dell’ex boss; questo gli fece maturare la decisione di iniziare a collaborare. Le sue informazioni squarciarono un velo, finalmente si poteva vedere la mafia con gli occhi di chi la conosceva benissimo: la struttura, i criteri, le regole, tutto cominciava a prendere forma nelle indagini di Giovanni Falcone. Le dichiarazioni furono talmente circostanziate che Falcone e Borsellino arrivarono ad eseguire centinaia di arresti. Da ciò si arrivò ad un’istruttoria con più di ottocento indagati. Fu da questa che, nel febbraio del 1986, si arrivò al Maxiprocesso. Mi ricordo benissimo il clima della fine del 1985: gli autoblindo dell’esercito, Falcone e Borsellino all’Asinara, isolati insieme alle loro famiglie per essere protetti, le vendette trasversali e il clima di omertà che finalmente iniziava a scricchiolare. A settembre fui convocato dal presidente del tribunale, Francesco Romano. Mi offrì un incarico prestigioso e di grande responsabilità: giudice a latere del Maxiprocesso contro la mafia. Mi presi ventiquattrore per parlarne con Maria. Si trattava di un cambiamento radicale nelle nostre vite: le dissi “decidiamo insieme”. Mi incoraggiò a fare la cosa giusta per il mio lavoro, mi supportò e mi assicurò che ci saremmo fatti carico insieme di tutte le conseguenze. E da allora, è ancora così.
Conoscevo Giovanni Falcone dal 1979 e fu da lui che andai subito dopo aver accettato l’incarico. Lui mi “presentò” il maxiprocesso. Mi portò nella stanza blindata in cui si trovavano, su scaffali che ricoprivano fino al tetto le quattro pareti, i documenti del processo: centoventi faldoni, quattrocentomila pagine. Mi guardò, cercando di interpretare la mia reazione. Senza esitare chiesi: “dove è il primo volume?” Lui si aprì in un grande sorriso, aveva capito che non mi sarei lasciato scoraggiare. Avevo un piccolo ufficio proprio vicino alla stanza blindata, leggevo, studiavo e prendevo appunti.
Le rubriche di Borsellino.
Paolo Borsellino era fondamentalmente un ottimista, sempre pronto a rompere la tensione di quei mesi con una battuta o uno scherzo. Per incoraggiarci ripeteva spesso che “la gente fa il tifo per noi”: sapeva che senza il supporto dei cittadini la magistratura non poteva ottenere grandi successi. Non mancava mai di offrire consigli o chiarimenti. Passava spesso davanti al mio ufficio, mi vedeva sommerso da quella mole di carte e decise di farmi un regalo. Fotocopiò le sue rubriche: appunti ordinati, con i nomi degli imputati, i collegamenti con le pagine dove si trovavano i relativi riscontri e le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Quei quaderni furono fin da subito un punto di riferimento fondamentale per districarmi tra tutti i fatti di mafia contenuti nell’ordinanza-sentenza di rinvio a giudizio: senza sarebbe stata molto più dura!
Il maxiprocesso cambiò totalmente la mia vita. La mia famiglia si trovò costretta ad accettare, oltre alle modifiche alle nostre abitudini, un clima di minacce, ingiurie, calunnie. Mio figlio era un adolescente all’epoca ed era abituato a passare il suo tempo libero con me: non gli piacevano le macchine blindate, non aveva ancora la maturità per capire l’importanza del compito che era stato assegnato a suo padre. Divenne difficile andare al cinema perché la gente aveva paura a sedersi vicino a me, quando mi riconosceva, perché “non si sa mai”, alludendo ad un ipotetico coinvolgimento in un attentato ai miei danni. Anche le semplici passeggiate in città, per la mia famiglia, non poterono più essere prese alla leggera.
I numeri di un “monstrum” processuale.
Ad impressionare del Maxiprocesso, oltre la portata storica delle sue condanne, sono proprio i numeri: 475 imputati, 438 capi d’imputazione e di questi 120 erano omicidi. Avevamo da giudicare dieci anni di reati di Cosa nostra. Le difficoltà nascevano già dall’appello per registrare la presenza in aula degli imputati: non poteva certamente essere nominale. Facemmo in modo che ci fosse un quaderno delle presenze, gli imputati si registravano firmando ogni entrata e ogni uscita. Una sfida per nulla secondaria fu quella di trovare le soluzioni a tutti i problemi che un “monstrum” processuale come quello esigeva.
La scelta di Palermo.
Il Maxiprocesso si doveva tenere a Palermo, con una Corte composta da giudici togati e popolari palermitani. Dovevamo dare un segnale forte ed evitare gli errori fatti negli anni ’60 con i processi a Bari e Catanzaro, che si erano conclusi tutti con un nulla di fatto. L’Italia e Palermo dovevano invece raccontare a tutto il mondo, perché il mondo ci guardava, che lo Stato era presente ed era forte, e che la Sicilia aveva la forza di reagire.
Una nuova, spietata, immagine della mafia.
Quello che dal Maxiprocesso emerse in maniera sconvolgente, soprattutto per i giudici popolari, fu la crudeltà della mafia: strangolamenti, cadaveri sciolti nell’acido, violenze, esecuzioni. Vennero descritti episodi raccapriccianti, che disegnavano una nuova identità ad un fenomeno che finalmente veniva fatto emergere in tutta la sua veste cruenta.
La vittoria più importante.
Ci vollero quasi due anni di processo, in cui eravamo in aula dal lunedì al venerdì sia di mattina che di pomeriggio e il sabato soltanto la mattina. Dovevamo correre contro il tempo e contro gli ostacoli procedurali per evitare di far scadere i termini. Il processo era iniziato il 10 febbraio 1986: noi entrammo in camera di consiglio il 10 novembre 1987. Ci restammo trentacinque giorni, completamente isolati dal resto del mondo. Eravamo 2 giudici togati e sei popolari, avevamo solo uno spazio all’aria in un cortiletto, non potevamo sentire le nostre famiglie, ci alzavamo per lavorare e facevamo pausa solo per mangiare. Il 16 dicembre finalmente uscimmo dalla camera di consiglio. Ritengo che la sentenza rappresentasse decisioni severe ma eque, tant’è che 114 imputati, tra cui Luciano Liggio, detenuto in espiazione di un ergastolo sin dal 1974, furono assolti in massima parte perché le prove non furono giudicate sufficienti. Infliggemmo, per il resto, diciannove ergastoli e 2665 di anni di reclusione. Il Maxiprocesso finalmente dimostrò l’esistenza della mafia, fino ad allora negata o considerata un’invenzione di qualche giornalista o di alcuni magistrati e investigatori.
La Commissione Parlamentare Antimafia.
Dopo il Maxiprocesso, su suggerimento di Falcone, accettai l’incarico di consulente della Commissione parlamentare Antimafia. Da Roma ebbi l’occasione di osservare il fenomeno da un altro punto di vista. Il nostro compito era quello di analizzare la mafia e gli altri fenomeni affini, come camorra e ‘ndrangheta, nonché gli strumenti giuridici e le risorse umane e materiali per contrastarli attraverso la funzione Parlamentare. Sia con la presidenza Chiaromonte sia con quella di Luciano Violante (nel corso della quale per la prima volta sfilarono in audizione i più importanti “pentiti” di Cosa nostra, come Buscetta ed altri) depositammo in Parlamento approfondite ed interessanti relazioni, corredate anche da diverse proposte legislative che però non ebbero seguito.
A Roma con Falcone.
Frattanto, Giovanni Falcone, nel marzo 1991, era stato nominato Direttore della Direzione Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia e nel maggio successivo mi chiamò come consigliere. Quello che cercammo di fare in quei mesi fu costruire un’architettura legislativa che fornisse nuove strategie di coordinamento dell’attività giudiziaria contro la criminalità organizzata. Fu lì che nacque e si realizzò il progetto della Procura Nazionale Antimafia, delle Direzioni distrettuali presso le Procure locali, della Direzione Investigativa Antimafia, dell’isolamento carcerario e dell’aggravamento delle misure nei confronti dei mafiosi.
Capaci.
Il 23 maggio del 1992 queste importanti riforme legislative subirono un momentaneo contraccolpo a seguito della strage di Capaci, dove Giovanni Falcone, sua moglie Francesca, e tre uomini della sua scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, rimasero uccisi. Ci vollero 500 chili di esplosivi per fermare Giovanni. La notizia mi giunse mentre ero a casa a Palermo. I ragazzi della mia scorta l’avevano sentita alle loro radio, accesi il televisore e appresi che Falcone era stato estratto dai rottami della sua auto ancora in vita. Mi precipitai con loro all’ospedale. Speravo in un miracolo e contavo sulla forza di Giovanni che aveva sempre superato ogni difficoltà, anche la più impensabile. Quando arrivai al reparto mi venne incontro Paolo Borsellino, in lacrime: purtroppo per Giovanni non c’era più nulla da fare. Quel giorno giurai che fino alla fine avrei cercato la verità sulla strage di Capaci.
Un biglietto che conservo ancora.
Conservo ancora il biglietto aereo del volo Roma-Palermo “22 maggio 1992 – imbarco 19:40”. Arrivai in Sicilia il giorno prima di Giovanni, sebbene avessimo concordato di tornare a casa insieme, dandomi un passaggio, come spesso accadeva, nel volo di sicurezza, per poi continuare con la sua auto. Quel weekend mi disse che doveva spostare la partenza al sabato per aspettare sua moglie Francesca impegnata con una commissione d’esame. Lo ringraziai ma cercai un volo di linea per tornare a casa il venerdì sera. Per un favorevole segno del destino trovai un ultimo posto libero.
Via D’Amelio.
57 giorni dopo, il 19 luglio, in Via D’Amelio, vi fu un altra terribile strage in cui perse la vita Paolo Borsellino, insieme agli agenti della scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. La mafia aveva piazzato e fatto esplodere un’autobomba sotto casa della madre di Borsellino: il boato risuonò in una domenica d’estate nella quale Palermo e tutta Italia ripiombarono nel dolore e nello sconcerto che avevano vissuto solo pochi giorni prima. Vendetta, prevenzione, destabilizzazione: sono le tre causali della strage di via D’Amelio, così come quella di Capaci. Paolo era l’alter ego di Giovanni e il suo erede naturale. Sapeva che dopo la morte di Falcone era lui il bersaglio numero uno della mafia. Decise comunque di andare avanti. Avrebbe dovuto essere ascoltato il lunedì dopo la sua morte per parlare di quel che sapeva sulla strage di Capaci, sui rapporti tra mafia, politica e imprenditoria. Anche per Paolo, non fu certamente la paura a fermarlo.
Il colpetto.
Tommaso Buscetta durante il Maxiprocesso, lo aveva detto: la mafia non si sarebbe fermata fino a che la vita di chi la contrastava non sarebbe stata distrutta, fisicamente o moralmente. Gioacchino La Barbera fu il primo a parlare del progetto di un attentato a Monreale nei confronti di un altro magistrato, di cui non ricordava il nome. L’obiettivo era quello di “dare un altro colpettino” dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio per far capire alle istituzioni che Cosa nostra era pronta a tutto nella sua guerra contro lo Stato. Come sostituto procuratore nazionale antimafia fui chiamato ad un colloquio investigativo con il pentito, che aveva iniziato a fornire informazioni sulla strage di Capaci, per aiutarlo ad identificare la vittima in modo da sventare un’altra strage. Non appena gli venni presentato e sentì il mio nome, battendosi una mano sulla fronte, esclamò dinanzi agli uomini della DIA: “è lui, è lui !” Ripetendo più volte il nome di chi avrebbero dovuto uccidere: il mio. Era il 7 dicembre del 1993, non dimenticherò mai quel giorno. I mafiosi avevano studiato tutto: avrebbero dovuto celare, lavorando da dentro un furgone col pavimento parzialmente tagliato, l’esplosivo in un tombino sito davanti all’abitazione di mia suocera, che andavo regolarmente a trovare a Monreale ogni fine settimana, perché gravemente ammalata. Fu ancora una volta il destino ad impedire che il folle gesto si realizzasse. Infatti, nei pressi di casa di mia suocera c’era una banca e i suoi sistemi di sicurezza elettronica avrebbero potuto disturbare le frequenze del telecomando, anticipando anzitempo l’esplosione o impedendone l’azione, che comunque fu temporaneamente rinviata. Dopo qualche tempo, lo stesso pentito aveva trovato a Catania un sistema di comando a distanza usato per l’apertura delle dighe che non consentiva interferenze, consegnandolo al mafioso Salvatore Biondino, che però venne arrestato insieme a Salvatore Riina. Poco dopo, anche i componenti del commando operativo che avrebbe dovuto eseguire la missione vennero arrestati ed io peraltro non mi recavo più a Monreale, essendo frattanto mia suocera deceduta. E, per questo, ancora oggi posso raccontare questo incredibile episodio.
La Direzione Nazionale Antimafia.
Tommaso Buscetta durante il Maxiprocesso, lo aveva detto: la mafia non si sarebbe fermata fino a che la vita di chi la contrastava non sarebbe stata distrutta, fisicamente o moralmente. Gioacchino La Barbera fu il primo a parlare del progetto di un attentato a Monreale nei confronti di un altro magistrato, di cui non ricordava il nome. L’obiettivo era quello di “dare un altro colpettino” dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio per far capire alle istituzioni che Cosa nostra era pronta a tutto nella sua guerra contro lo Stato. Come sostituto procuratore nazionale antimafia fui chiamato ad un colloquio investigativo con il pentito, che aveva iniziato a fornire informazioni sulla strage di Capaci, per aiutarlo ad identificare la vittima in modo da sventare un’altra strage. Non appena gli venni presentato e sentì il mio nome, battendosi una mano sulla fronte, esclamò dinanzi agli uomini della DIA: “è lui, è lui !” Ripetendo più volte il nome di chi avrebbero dovuto uccidere: il mio. Era il 7 dicembre del 1993, non dimenticherò mai quel giorno. I mafiosi avevano studiato tutto: avrebbero dovuto celare, lavorando da dentro un furgone col pavimento parzialmente tagliato, l’esplosivo in un tombino sito davanti all’abitazione di mia suocera, che andavo regolarmente a trovare a Monreale ogni fine settimana, perché gravemente ammalata. Fu ancora una volta il destino ad impedire che il folle gesto si realizzasse. Infatti, nei pressi di casa di mia suocera c’era una banca e i suoi sistemi di sicurezza elettronica avrebbero potuto disturbare le frequenze del telecomando, anticipando anzitempo l’esplosione o impedendone l’azione, che comunque fu temporaneamente rinviata. Dopo qualche tempo, lo stesso pentito aveva trovato a Catania un sistema di comando a distanza usato per l’apertura delle dighe che non consentiva interferenze, consegnandolo al mafioso Salvatore Biondino, che però venne arrestato insieme a Salvatore Riina. Poco dopo, anche i componenti del commando operativo che avrebbe dovuto eseguire la missione vennero arrestati ed io peraltro non mi recavo più a Monreale, essendo frattanto mia suocera deceduta. E, per questo, ancora oggi posso raccontare questo incredibile episodio.
La procura di Palermo.
Quando nel 1999 rimase vacante la carica di Procuratore Capo di Palermo, feci domanda. Dopo gli anni passati a Roma, per me si realizzava il sogno di una vita. Tornare a Palermo voleva dire soddisfare la mia massima aspirazione e continuare, soprattutto in prima linea, la lotta alla mafia. Furono anni in cui ottenemmo grandi successi. Le attività di indagine, di polizia e giudiziarie si conclusero con numerosi successi. Sotto la mia direzione, dal 2000 al 2004, furono arrestate 1.779 persone per reati di mafia. Nello stesso periodo la procura ottenne 380 ergastoli e centinaia di condanne per migliaia di anni di carcere. Cambiammo la strategia anche sui latitanti: un lavoro durissimo che però ci portò alla cattura di 13 latitanti inseriti tra i 30 più pericolosi e incrinò la struttura fortemente organizzata intorno al latitante numero uno: Bernardo Provenzano.
Procuratore Nazionale Antimafia.
Gli anni alla Procura di Palermo mi avevano dato nuovi elementi e nuova esperienza sul campo. Nel 2005 diventai Procuratore nazionale antimafia: passavo dalla trincea della mia città al quartier generale, per elaborare le tecniche e le strategie nella lotta alla mafia. Fu negli anni della Procura Nazionale Antimafia che mi occupai di tutte le organizzazioni di stampo mafioso presenti sul nostro territorio, in particolare modo della ‘ndrangheta, che ebbi modo di analizzare in tutti quegli aspetti dei collegamenti e degli insediamenti internazionali, nonché di infiltrazione nel tessuto economico, sociale e politico del centro-nord del Paese, allora meno noti ma non per questo meno pericolosi della mafia siciliana. Intanto continuavamo a cercare il superboss Bernardo Provenzano, latitante ormai da più di 40 anni. Le indagini furono complesse: fu posto in essere un progetto investigativo articolato, secondo la strategia del fargli terra bruciata intorno, arrestandogli tutti i favoreggiatori, e irto di ostacoli, comprese le “soffiate” che arrivavano ai mafiosi per allertarli del nostro lavoro. Non ci arrendemmo, conoscevamo le difficoltà ma non abbiamo mai smesso di pensare che un giorno l’avremmo catturato.
La cattura di Provenzano.
L’11 aprile del 2006 mi arrivò una telefonata. Dall’altra parte del filo dissero soltanto: “Preso”. Non ebbi bisogno di fare domande, sapevo che avevamo ottenuto quel traguardo che inseguivamo da anni. Bernardo Provenzano era finalmente nelle mani dello Stato, dopo 43 anni di latitanza. Salii sul primo volo per Palermo. Negli anni precedenti alla cattura, avevo avuto modo di lavorare sulla collaborazione del pentito Antonino Giuffrè. Fu grazie a lui che potemmo mettere le mani su un numero enorme di “pizzini”, la sua corrispondenza con Provenzano. Giuffrè poi fu il primo a darci un’idea di quale fosse l’aspetto del superboss, iniziammo a delineare una figura che prima di allora continuava ad essere avvolta nel mistero. Non bastò, ovviamente. Per arrivare a Provenzano fummo costretti a superare una rete di depistaggi, fiancheggiamenti e complicità varie. Provenzano era cauto, prendeva le precauzioni necessarie per ogni sua comunicazione o spostamento, come dormire in un sacco a pelo la notte prima nei pressi dei luoghi degli incontri con i suoi interlocutori, ad esempio. Mesi e mesi di appostamento, intuito e anche un po’ di fortuna: furono questi gli elementi finali che portarono alla cattura. Agli uomini che lo catturarono, Bernardo Provenzano disse: “Voi non sapete cosa state facendo”. Vorrei dire che lo sapevano benissimo invece: fare in modo che l’autorità dello Stato avesse ragione sulla mafia, senza bisogno di sparare un solo proiettile o di far scorrere una sola goccia di sangue.
Tutte le verità morte con Provenzano.
Quando incontrai Bernardo Provenzano per la prima volta presso la Squadra Mobile di Palermo il giorno della sua cattura, usai una frase sibillina ma comprensibile tra siciliani, per cercare di instaurare i presupposti di una collaborazione. Sapevo il valore che potevano avere tutte le informazioni e le conoscenze proprie del boss e gli dissi che sarei stato sempre disponibile per fare qualcosa per questa nostra Sicilia. Mi rispose in maniera chiara, con il suo stile da capo della mafia: “Sì, ognuno secondo il suo ruolo”. Era evidente che non avrebbe mai collaborato con la giustizia. Bernardo Provenzano è morto il 13 luglio del 2016 e i suoi segreti se li è portati nella tomba, seppelliti per sempre.
Spatuzza e le nuove rivelazioni.
Un magistrato che sente sempre viva dentro di sé la sete di giustizia, sa che sono necessari pazienza, impegno e la consapevolezza che per raggiungere alcuni risultati occorrono indagini che possono durare anni e anni. Quando fu catturato Gaspare Spatuzza nel 1997, sia io che Pier Luigi Vigna, come anche il pubblico ministero di Firenze Gabriele Chelazzi, avevamo cercato attraverso colloqui investigativi, seppur inutilizzabili sotto il profilo probatorio, di avere informazioni, soprattutto sulle stragi del 1992/93, da questo spietato killer di Cosa Nostra, responsabile tra l’altro dell’assassinio di Don Pino Puglisi e del rapimento del piccolo Di Matteo. Sembrava sempre di essere quasi pronto alla collaborazione ma Spatuzza non fece mai quel passo in più per passare dalla parte dello Stato, pur fornendo qualche generica informazione, si rifiutava persino di firmare i verbali. Quando nel 2008, dopo circa nove anni, mi pervenne la sua richiesta di colloquio, capii che forse il momento era giunto. Dopo il nostro primo incontro, la mia impressione fu quella di una disponibilità sincera, di un uomo che si preoccupava del futuro di suo figlio e che era pronto a dare una mano per fare in modo che in galera ci stesse chi era davvero colpevole e non gli innocenti. Le dichiarazioni di Spatuzza sono state un terremoto, soprattutto per quel che riguarda la ricostruzione della strage di Via D’Amelio che, nonostante i dubbi insorti in sede processuale, era stata ormai definita con sentenze della Cassazione passate in giudicato. Le informazioni dateci da Gaspare Spatuzza hanno aperto nuovi scenari sul ruolo dei Graviano nella strage e sulla presenza di persone non appartenenti a Cosa Nostra nel luogo in cui l’autobomba fu preparata. Molte delle cose dette da Spatuzza hanno trovato riscontro. Sono stati riaperti i processi, alcuni innocenti scagionati e i colpevoli sono stati condannati. Restano ancora pezzi di verità da trovare: non dobbiamo mai smettere di cercarli.
L’addio alla toga.
Quando nel dicembre del 2012 presentai al CSM la richiesta di pensionamento anticipato stavo facendo una scelta in linea con la mia storia umana e professionale. Ritenevo di poter portare la mia esperienza, maturata in 43 anni come magistrato, al servizio del Parlamento: una scelta difficile e molto emozionante ma che aveva lo scopo di perseguire gli ideali di giustizia e legalità che mi hanno sempre guidato. “Spostarmi in politica” significava infatti abbandonare la toga ma anche avere l’opportunità per fare le leggi che avevo invano chiesto per molti anni. Per queste ragioni ho accettato la proposta di Pier Luigi Bersani, allora segretario del Partito Democratico, di candidarmi al Senato come capolista nel Lazio. Iniziava così un nuovo e inaspettato capitolo della mia storia.